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Esiste un’onda nera in Europa?

di Serena Capodicasa

Rassemblement national, Alternative für Deutschland, Ukip prima, Brexit Party poi, Fpö, Fidesz, Diritto e giustizia, Vox, Lega… in Europa è lungo l’elenco delle organizzazioni politiche di destra, più o meno estrema, storiche o di recente formazione, che hanno goduto di significativi successi elettorali nell’ultimo decennio, suscitando, soprattutto tra i giovani, una sacrosanta indignazione, ma anche preoccupazione, quando non allarmismo, tra gli attivisti di sinistra.
C’è chi li addita come “populismi di destra”, chi come “onda nera” attribuendo a questo fenomeno una capacità pervasiva profonda nei settori popolari. “La società si sta spostando a destra”, si è sentito e letto più volte da parte di chi rivolge lo sguardo solo verso un lato di quel processo di polarizzazione sociale che si è sviluppato in Europa, e non solo, dopo lo scoppio della crisi del 2008. Dall’altra parte c’è stata infatti anche una importante reazione a sinistra che ha visto la nascita o la crescita di altrettante formazioni che hanno incanalato in direzione opposta lo stesso sentimento di rabbia, frustrazione, disillusione e rifiuto di tutti quei partiti, sia conservatori che riformisti, che hanno a lungo portato avanti, e c’è da dire abbastanza efficientemente, le politiche delle classi dominanti… e anche qui l’elenco dei vecchi pilastri di un tempo, oggi ridotti all’inconsistenza, sarebbe lungo.Condividono infatti quanto di più reazionario si possa inserire in un programma politico: gli immigrati, i diritti delle donne e delle persone lgbt sono i bersagli preferiti in un pot pourri di razzismo, xenofobia, sovranismo, oscurantismo religioso; sono inoltre accomunati da sfumature, diverse e cangianti, di euroscetticismo e anche da una demagogica retorica anti-establishment, contro le “élites”, i corrotti, i poteri forti.

La crisi del “centro” politico produce lo spostamento verso questi partiti di una parte importante dell’elettorato tradizionale della destra liberale, settori della stessa borghesia, e spinge verso gli estremi, a destra o a sinistra, anche strati piccolo borghesi destabilizzati dalla crisi, sottoproletari e anche settori di proletariato, la cui collocazione può cambiare molto rapidamente in base a quanto sono forti i punti di riferimento di classe capaci di distogliere la rabbia dai capri espiatori della destra e rivolgerla verso le classi dominanti.

I molteplici punti di contatto in termini di slogan e programmi non sono tuttavia sufficienti a farne un fronte compatto, anzi. Abbiamo visto in occasione delle ultime elezioni europee il gelo attorno alla proposta di Salvini di unificare i diversi gruppi parlamentari tra i quali sono divisi; la stessa solitudine che sempre Salvini ha sofferto nella battaglia per il ricollocamento negli altri paesi dell’Unione Europea degli immigrati che arrivano in Italia. D’altronde va da sé che la capacità dei nazionalisti di fare fronte, per definizione stessa, non può andare al di là di reciproche manifestazioni di simpatia.

Farne uno spauracchio che minaccia la libertà o parlare di minaccia fascista in virtù delle loro fortune elettorali non ci aiuta a fare un passo nella comprensione della loro natura e nella lotta contro la loro influenza. Al momento non hanno la principale caratteristica che ha contraddistinto storicamente l’ascesa al potere del fascismo: la capacità di mobilitare in modo militante masse piccolo borghesi nella distruzione fisica di qualsiasi forma di organizzazione indipendente della classe lavoratrice, cosa possibile solo dopo che questa abbia subito una sconfitta decisiva. Se solo provassero a muoversi in questa direzione la reazione sarebbe esplosiva. In realtà abbiamo già visto in più occasioni e in diversi paesi quanto sia alto il loro potenziale di provocazione, in particolare nei confronti delle giovani generazioni, basti pensare allo sciopero delle donne polacche contro il tentativo del governo di attaccare il diritto di aborto, o alle manifestazioni contro Salvini o contro il Front national in Francia.

Per molti di questi partiti la tendenza prevalente va nella direzione di attestarsi come nuovi riferimenti politici per le classi dominanti dei rispettivi paesi e per farlo hanno bisogno di darsi un’immagine affidabile, tutt’altro che estremista. Sotto questo punto di vista il modello è senz’altro quello del Front national di Marine Le Pen, seguito anche dalla Lega. Ma anche quando la retorica è delle più becere e virulente, come nel caso di Viktor Orbán, la sostanza delle politiche è ben lungi dal disturbare concretamente gli ingranaggi dell’Unione Europea. In molti casi, infine, la fortuna elettorale dell’estrema destra si lega a delle specificità nazionali, come il ruolo che ha avuto la questione catalana nell’ascesa di Vox in Spagna.

Quest’articolo entrerà nel merito di questi ultimi esempi per sfuggire da interpretazioni impressioniste e contrapporvi un’analisi quanto più scientifica, necessaria per una lotta efficace contro le destre.

Marine Le Pen, il Front national e l’arte di rendersi presentabili

Già nella scelta del nuovo nome, Rassemblement national (raggruppamento nazionale), adottato nell’ultimo congresso del marzo 2018, è condensato quello che Marine Le Pen ha definito un “cambiamento della natura” del partito, non più un semplice partito di opposizione ma un “partito di governo, capace di formare alleanze”.1

È il risultato di una linea perseguita dalla Le Pen negli anni, con perseveranza, per riuscire a ripulire il Front national dal marchio neofascista e candidarlo come strumento credibile al servizio dei capitalisti francesi.

In Francia la chiamano dediabolisation, per attuarla la Le Pen non ha fatto sconti a nessuno, neanche al padre ultraottantenne, fondatore e leader storico, espulso nel 2015 per le dichiarazioni antisemite e negazioniste dell’olocausto. Tra le vittime della ripulita a destra, anche la nipote Marion, altra esponente dell’ala “dura” del partito che, neanche trentenne, nel 2017 si è addirittura ritirata a vita privata.

Il cambio di organigramma è andato di pari passo con l’abbandono della parola d’ordine dell’uscita dall’Unione Europea e dall’euro per abbracciare quella più sostenibile della “riforma”. Anche le tematiche sociali come l’età pensionabile a sessant’anni o il rafforzamento della sanità pubblica (rigorosamente escludendo gli immigrati), sbandierate in passato per rivolgersi a settori di classe operaia, sono state messe da parte per far allineare sempre più il programma agli interessi della classe capitalista francese.

La rinuncia agli slogan sociali e anti-europeisti che, sia chiaro, non erano altro che un manto retorico su contenuti di classe capitalisti, è costata la rottura con Florian Philippot, il principale artefice della dediabolisation, per il quale evidentemente questa si è spinta troppo in là.

Sul piano economico il mantra è sempre il protezionismo, con i relativi ammiccamenti alla classe operaia nella pretesa di difendere l’industria nazionale.

Se per tutto un periodo la “fruibilità” del Front national per la classe dominante francese è stata pressoché nulla, in futuro questa potrebbe non disdegnarne un coinvolgimento in un governo di coalizione. Da un lato questa ipotesi è resa necessaria dalla crisi verticale dei partiti che storicamente hanno portato avanti le politiche borghesi, gollisti e Partito socialista, così come dal fatto che si sta già esaurendo il consenso di Macron. D’altra parte oramai la linea protezionista è tutt’altro che un taboo, come ha detto la Le Pen:

Il mondo intero fa questa scelta, (…) è la scelta degli Stati Uniti, è la scelta della Cina, è la scelta di tutte le grandi nazioni.”2

La normalizzazione come partito borghese può avere un certo successo agli occhi dei padroni francesi, ma ne mette a rischio la tenuta tra i settori più popolari del suo elettorato.

Si è parlato tanto di spostamento a destra della società francese in virtù dei successi elettorali del Fn, ma i fatti hanno sempre smentito questa lettura. Basti pensare al movimento di lotta contro la Loi travail e le mobilitazioni dei giovani nelle università che seguirono di pochi mesi le elezioni amministrative del dicembre 2015, in cui il Fn risultò primo partito.

La scarsa capacità della destra lepeniana di penetrare a livello di massa nella base della società la si è vista anche con il tentativo fallito di mettere il proprio marchio reazionario sul movimento dei gilet gialli.

Se da un lato l’operazione di dediabolisation potrebbe quindi considerarsi quasi del tutto riuscita e vicina all’obiettivo di arrivare al governo, dall’altro c’è un piccolo problema: il Front national può essere riabilitato agli occhi dei capitalisti francesi, ma non altrettanto si può dire per i giovani e per il movimento operaio tra i quali ha suscitato reazioni esplosive ogni volta che si è avvicinato al potere, e non c’è motivo per cui non debba essere così anche in un prossimo futuro.

Orbán, tra “democrazia illiberale” e lealtà alla Ue

Tra i diversi esponenti della destra europea, Viktor Orbán brilla come modello di reazione; è arrivato fino a teorizzare la necessità di ricorrere a metodi “illiberali” pur di difendere gli interessi nazionali nell’agone della competizione mondiale. In carica ormai dal 2010, la sua politica ha condito le aggressive politiche anti-immigrazione (con tanto di filo spinato a difesa dei confini) con una retorica di odio verso le élites economiche, impersonificate dal miliardario ebreo di origini ungheresi Soros, bersaglio di campagne martellanti che imperversano su mezzi di comunicazione di massa a uso e consumo della propaganda governativa.

Il controllo dei media e delle autorità giudiziarie, così come le peculiarità di una legge elettorale che gli consente di controllare i due terzi del parlamento con meno del 50 per cento dei voti, sono alcuni aspetti che hanno favorito la sua rielezione nel 2014 e nel 2018, ma il consenso sociale che è riuscito a consolidare soprattutto nelle aree rurali più arretrate ed economicamente depresse del paese poggia su delle basi materiali ben precise: sussidi per le famiglie e i pensionati e programmi di lavori socialmente utili che impiegano centinaia di migliaia di disoccupati.

Tutto questo però ha un limite non da poco: a dispetto della demagogia nazionalista e anti-europeista, tutte queste politiche sono state possibili in virtù dei finanziamenti ricevuti dall’Unione Europea (3 miliardi di euro all’anno che pesano per il 2,5% del Pil), delle rimesse degli immigrati ungheresi negli altri paesi europei, degli investimenti diretti provenienti dall’estero e delle esportazioni. Per tutti questi fattori il ruolo della Germania è stato decisivo. Il solo stabilimento dell’Audi di Gyor, nel Nord-Est del paese, conta per il 9% del Pil, un altro 86% deriva dalle esportazioni di beni e servizi,3 di cui il 27% è verso la Germania.4 Visto il rallentamento di cui soffre l’economia tedesca, anche la crescita di cui l’Ungheria ha goduto negli ultimi anni sta arrivando a toccare i suoi limiti.

Tutto ciò spiega la doppiezza di Orbán nei confronti delle istituzioni europee, che attacca tanto nella propaganda ma alle quali non fa mancare il suo sostegno quando serve, come in occasione dell’elezione della presidente della Commissione europea Ursula von den Leyen, che ha votato disciplinandosi al gruppo parlamentare dei popolari di cui Fidesz fa parte.

La mancanza di alternative a sinistra, visto che il Partito socialista Mszp è associato alle politiche di privatizzazioni e austerità di cui si è reso artefice dopo la restaurazione capitalista, è un altro elemento che ha favorito il successo di Orbán.

Ma l’apparente monolitismo della società ungherese ultimamente si è andato sgretolando. Già in passato il governo Orbán era stato oggetto di proteste – nel 2012 per la libertà di stampa, nel 2017 contro l’espulsione della Università dell’Europa centrale –, ma tra il dicembre 2018 e il gennaio 2019, per almeno sei settimane, si è sviluppata per la prima volta una mobilitazione di massa con un chiaro contenuto di classe. Il movimento è stato infatti scatenato dalla cosiddetta “legge sulla schiavitù”, con la quale sono state estese da 250 a 400 le ore di straordinario annue che i padroni possono richiedere, con anche la possibilità di ritardarne il pagamento fino a tre anni.

Il carattere di classe delle mobilitazioni, che inizialmente hanno avuto una partecipazione eterogenea con anche il tentativo di infiltrarsi in maniera strumentale da parte di elementi del partito di estrema destra Jobbik, si è fatto sempre più centrale con l’emergere della parola d’ordine dello sciopero generale, rimasta però solo a livello di intenti per il ruolo passivo dei sindacati che non sono andati oltre l’istituzione di un comitato per discuterne.

Dopo il rientro nei ranghi del movimento, l’opposizione nei confronti di Orbán non ha potuto che esprimersi sul terreno elettorale: nelle elezioni amministrative che si sono tenute lo scorso ottobre il partito Fidesz ha infatti subito una battuta d’arresto e perso la maggioranza a Budapest.

La mancanza di una direzione sindacale e politica all’altezza della situazione è il grande limite per i giovani e i lavoratori ungheresi che vogliono liberarsi di Orbán, ma intanto un primo importante passo è stato fatto nella direzione di contrapporsi al governo con le armi della lotta di classe.

Vox e i nuovi equilibri nella destra spagnola

Nato nel 2013 dal settore più reazionario del Pp, Vox ha goduto nelle due ultime elezioni politiche spagnole di un’ascesa significativa, riuscendo a entrare per la prima volta in parlamento ad aprile con il 10,3% dei voti e attestandosi come terzo partito a novembre con il 15,1%.

Rispetto agli altri sovranisti di destra del continente, Vox si differenzia per la dichiarata e rivendicata adesione al fascismo, richiamandosi apertamente alla tradizione franchista di cui rivendica la riabilitazione, oltre che per uno spudorato machismo, al punto di proporre l’abrogazione delle leggi sui diritti delle persone lgbt e contro la violenza di genere, sulla quale hanno una posizione negazionista, senza dimenticare la tutela della corrida come punto caratterizzante del programma.

La crescita elettorale di Vox non si è tuttavia sviluppata in modo lineare. Dopo soltanto un mese dalle elezioni di aprile, in quelle europee il dato era sceso al 6,2%. Seguendo l’andamento nel tempo delle intenzioni di voto, il salto qualitativo che le ha portate da un plateau stagnante sotto al 10 per cento a schizzare di oltre cinque punti percentuali è chiaramente riconducibile alla settimana in cui è stata emessa la sentenza della Corte suprema contro i dirigenti catalani accusati di sedizione e in cui in Catalogna è ripreso il movimento per l’indipendenza.

L’ascesa di Vox ha infatti rappresentato la reazione dei settori più conservatori della società spagnola contro l’indipendenza catalana, nella misura in cui i partiti che si erano erti a difesa dell’unità dello Stato centrale, il Pp e Ciudadanos, hanno dimostrato di non essere all’altezza dello scontro. A subire un’emorragia di voti verso Vox è stato soprattutto Ciudadanos, che all’apice del movimento era emerso come un pilastro del nazionalismo spagnolista, imponendosi nelle elezioni catalane del dicembre 2017 come primo partito e principale opposizione alla maggioranza indipendentista.

Gli studi dei flussi elettorali sono abbastanza chiari e univoci rispetto all’origine dei voti di Vox, non solo per quanto riguarda i partiti di provenienza, Pp e Ciudadanos, ma anche relativamente alle classi sociali. I migliori risultati Vox li ha conseguiti tra l’1 per cento più ricco della popolazione (19,6%) e, dove ottiene buoni risultati anche tra il 30 per cento più povero, Andalusia e Murcia, si tratta di un elettorato che era già collocato a destra, con Ciudadanos appunto.5

Più che di spostamento a destra, possiamo quindi parlare di spostamento all’interno della destra verso posizioni più accanitamente nazionaliste in virtù di una rinnovata radicalizzazione del movimento in Catalogna.

Il ruolo dei neofascisti

Se i partiti a cui si è fatto riferimento fin qui rappresentano il volto istituzionale della destra, non dobbiamo dimenticarci delle formazioni fasciste propriamente dette. Anche queste infatti sono state alla ricerca di protagonismo nell’ultimo periodo.

Le abbiamo viste sfilare a Varsavia lo scorso 11 novembre in occasione della marcia per il centenario della nascita dello Stato polacco a cui sono affluiti neofascisti da tutta Europa. Si tratta di una marcia che l’estrema destra polacca organizza ogni anno, ma per il centenario ha di fatto goduto del patrocinio del governo visto che il corteo delle istituzioni ha sfilato insieme a quello dei fascisti, e che il premier Morawiecki ha fatto finta di non sentire gli slogan razzisti contro i quali aveva annunciato “tolleranza zero”.

A meno che non siano in aperta competizione, come nel caso dell’Ungheria dove Fidesz ha cannibalizzato l’elettorato di Jobbik, più che di tolleranza in realtà possiamo parlare di vera e propria connivenza tra i gruppi fascisti e i partiti della destra istituzionale.

In Italia lo abbiamo visto con la Lega e Casapound, con tanto di iniziative di piazza comuni o di collaborazioni editoriali tra Salvini e la casa editrice legata alla formazione neofascista.

Si tratta di una sorta di divisione dei ruoli tra chi si occupa di affermare le posizioni dell’estrema destra all’interno delle istituzioni e chi si dedica al lavoro sporco, con aggressioni agli immigrati e ai militanti di sinistra, contribuendo a creare un clima di tensione che fa il gioco delle campagne razziste della destra istituzionale.

Secondo l’Indice del terrorismo globale pubblicato dall’Institute for Economics and Peace, in un contesto in cui per quattro anni consecutivi, tra il 2014 e il 2018, il numero di morti causati dal terrorismo è diminuito, in Europa occidentale, Oceania e Nord America sono più che triplicati gli attentati legati ad ambienti neonazisti, fascisti e nazionalisti, un trend confermato anche nel 2019 con 77 morti attribuibili al terrorismo di estrema destra da inizio anno a fine settembre. Il consiglio comunale di Dresda ha clamorosamente approvato una mozione che dichiara “l’emergenza nazismo”. D’altronde l’ex Germania Est, con la depressione economica che l’ha colpita dai tempi della riunificazione e la mancanza di prospettive per i giovani, ha costituito fin da allora un terreno di coltura fertile per i gruppi neonazisti, e su queste basi non è sorprendente che continui ad essere bacino ideale per le loro scorribande.

Non siamo di fronte a un fenomeno di massa. Nel processo di polarizzazione sociale a destra e sinistra che caratterizza la società odierna, la militanza fascista svolge per ora un ruolo ausiliario; in questo momento storico le classi dominanti sono disposte a concederle un certo spazio ma entro certi limiti, per evitare di provocare una reazione esplosiva nella società, che sì avrebbe dimensioni di massa.

Il caso di Alba dorata in Grecia è da questo punto di vista emblematico. Nel mezzo della crisi greca i fascisti hanno toccato il punto più alto in termini elettorali nel maggio 2012 con il 6,97%. Ma quando hanno cercato di alzare il livello dello scontro arrivando ad assassinare militanti di sinistra, il fermento che hanno generato tra le masse, soprattutto giovanili, non forniva il clima ideale perché la classe dominante greca potesse portare avanti le politiche di austerità imposte dall’Unione Europea. E così si è convinta ad accorciare il guinzaglio, avvalendosi della magistratura per scatenare un’ondata di arresti dei dirigenti di Alba dorata nell’autunno del 2013.

Anche in Ucraina, l’oligarchia arrivata al potere con il movimento Euromaidan, ha usato i fascisti come truppe d’assalto libere di compiere vere e proprie azioni squadriste – ricordiamo la strage nella Casa dei sindacati di Odessa nel maggio 2014 – per poi ritrovarseli all’opposizione, non avendo assecondato le loro smanie nella guerra in Donbass.

Dal punto di vista della borghesia, un tipico effetto collaterale dei fascisti, quando sono al potere, è l’impossibilità di poter esercitare un controllo diretto, un rischio che vale la pena correre solo quando l’alternativa è perdere il potere a favore della classe lavoratrice.

Ipocrisia dei liberali

Quando l’estrema destra riesce ad arrivare al potere, assistiamo a restrizioni dei diritti democratici e al ricorso a metodi bonapartisti di governo, con parlamenti che contano il giusto e leggi che garantiscono ampi margini di manovra ai timonieri nell’esecutivo: il caso dell’Ungheria è particolarmente significativo sotto questo aspetto; ma un regime fascista non è all’ordine del giorno in nessun paese europeo.

Ciò non vuol dire che dobbiamo tenere la guardia bassa, né che possiamo affidarci ai rappresentanti della democrazia liberale, dai quali possiamo aspettarci solo una cosa: ipocrisia.

I metodi poco ortodossi di Orbán possono tutt’al più mettere a disagio i suoi compagni del Partito popolare europeo, che infatti hanno “sospeso” Fidesz dal gruppo parlamentare… ma senza espellerlo. Il parlamento europeo aveva anche avviato una procedura per violazione dei diritti umani nei confronti dell’Ungheria ma questa poi si è persa per strada.

Può cambiare la forma, più o meno reazionaria, più o meno aggressiva, più o meno demagogica, ma non c’è differenza nella sostanza degli interessi di classe difesi dagli esponenti politici della borghesia, siano essi di tendenza liberale o nazionalista.

L’opposizione all’estrema destra, istituzionale o militante, può venire solo dall’azione indipendente e organizzata dei giovani e dei lavoratori; come si leggerà nelle pagine di questa rivista, quando questa è mancata per responsabilità delle direzioni politiche e sindacali, il fascismo ha potuto trovare la strada per arrivare al potere, ma quando è riuscita ad organizzarsi il nemico non è passato.

 

Note

1. Intervista di Marine Le Pen a Le Figaro dell’1 marzo 2018 (www.youtube.com/watch?reload=9&v=qce88gwquD4).

2. Ibidem.

3. The Economist, 24 ottobre 2019.

4. Dati Observatory of Economic Complexity riferiti al 2017 (oec.world/en/profile/country/hun/).

5. El diario, 13 novembre 2019 (www.eldiario.es/politica/Vox-zonas-pobres-PP-Ciudadanos-10N_0_963104386.html)

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