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9 Marzo 2021Il 6-7 marzo si è svolto il convengo sulla questione femminile “Libere di lottare”, promosso da Sinistra Classe Rivoluzione. Mettiamo a disposizione dei nostri lettori questo articolo scritto da Arianna Mancini, relatrice del dibattito “Dove nasce l’oppressione femminile – Un’analisi marxista”.
La Redazione
di Arianna Mancini
“La donna libera dall’uomo, entrambi liberi dal capitale”. In queste parole di Camilla Ravera si condensa, in modo epigrafico, tutto lo spirito dell’analisi marxista sulla questione femminile. La battaglia per i diritti delle donne e contro l’oppressione di genere rappresenta per i marxisti una priorità e riteniamo fondamentale rileggerla all’interno di una lotta di carattere generale contro il sistema economico capitalista e la società che ne è il prodotto.
Questa impostazione non deriva da un’astrazione, è il prodotto di un’indagine sulla questione femminile che adotta un punto di vista peculiare: quello di classe. Sul piano teorico riteniamo fondamentale definire quali siano le cause dell’oppressione femminile e rispondere ad alcuni quesiti: l’oppressione della donna è sempre esistita? Quando e per quali ragioni nasce il patriarcato? Quando e perché le donne vengono relegate in una condizione di subalternità? Che ruolo hanno le strutture sociali e familiari nell’oppressione di genere? La risposta a queste domande ci fornisce gli strumenti teorici per condurre la lotta contro l’oppressione femminile sul giusto terreno.
L’origine della famiglia: il contributo di Engels alla questione femminile
L’oppressione femminile non è sempre esistita e per poterla combattere è necessario domandarsi cosa l’abbia storicamente prodotta. Da questo punto di vista consideriamo ancora valido il prezioso contributo di Engels, che nel testo L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato ha analizzato l’oppressione femminile alla luce dell’evoluzione della produzione, dei rapporti sociali e della struttura familiare, liberandola dal determinismo biologico che la assume come categoria astorica, naturalizzandola e normalizzandola come fenomeno meramente biologico.
Gli studi di Marx ed Engels su come la società umana si sia sviluppata dal punto di vista economico, sociale e culturale hanno permesso di portare in luce come, nell’arco di questo lungo processo, il rapporto tra i sessi si sia modificato e sia stata stabilita una gerarchia che ha relegato la donna in una condizione di subalternità.
Engels mostra come l’organizzazione della società e le diverse forme di famiglia esistite nella storia del genere umano siano mutate nel tempo in relazione allo sviluppo delle forze produttive e attribuisce la genesi del patriarcato e dell’oppressione femminile alla nascita della proprietà privata e della società divisa in classi. Egli ci mostra la natura storica, contingente di istituzioni come la famiglia e lo Stato e di conseguenza ci invita a non considerarle immutabili ed eterne. Oggi siamo portati a credere che il sistema economico capitalista, lo Stato che lo serve, la famiglia monogamica che ne rappresenta la struttura molecolare, siano entità sempiterne ed immutabili. Nulla di più falso.
La storia dell’uomo è stata caratterizzata da continue evoluzioni e transizioni tra sistemi economici e strutture sociali differenti e l’istituzione della famiglia non fa eccezione in questo senso. Engels trae spunto dagli studi di Lewis H. Morgan, etnologo e antropologo culturale statunitense, che trascorse gran parte della sua vita presso la comunità degli Irochesi, una popolazione di nativi americani originariamente stanziata tra gli attuali Stati Uniti e il Canada.
Morgan studia la storia primitiva dell’uomo, classificandola in tre epoche principali: stato selvaggio, barbarie e civiltà. Ogni epoca è a sua volta suddivisa in stadio inferiore, intermedio e superiore. Questa classificazione è basata sul grado di sviluppo delle forze produttive, che si accresce di stadio in stadio, plasmando società sempre più complesse alle quali corrispondono strutture familiari mutevoli nel tempo. A tal proposito Morgan scrive:
“La famiglia è l’elemento attivo; essa non è mai stazionaria, ma progredisce da una forma inferiore ad una superiore, nella misura in cui la società si sviluppa da uno stadio inferiore ad uno superiore.”1
Morgan ripercorre la storia della famiglia fino alle origini, scoprendo che ad ogni epoca, in virtù dello sviluppo delle forze produttive, esiste una forma familiare differente che nel tempo si modifica e si restringe fino alla monogamia, per specifiche esigenze materiali. In questo lungo passaggio la posizione della donna all’interno della società cambia radicalmente.
Ma cosa si intende per sviluppo delle forze produttive? E per quale motivo i cambiamenti nella produzione influenzano la struttura familiare, la società nel suo complesso e la posizione della donna?
Per rispondere a queste domande è necessario illustrare i principali passaggi degli studi di Morgan, che Engels riprende per dimostrare come l’oppressione femminile non sia sempre esistita, ma sia il prodotto della complessa evoluzione dei rapporti produttivi e sociali.
Nello stadio inferiore dello stato selvaggio, che corrisponde al paleolitico, i mezzi di sussistenza erano rappresentati da ciò che la terra poteva naturalmente offrire agli esseri umani, i quali si cibavano dei frutti spontanei della natura e non erano in grado di esercitare un controllo su di essa. Non erano dunque in grado di produrre i propri mezzi di sussistenza. Il passaggio allo stadio intermedio dello stato selvaggio è caratterizzato dalla scoperta del fuoco che rende possibile l’inserimento del pesce nell’alimentazione degli uomini. Questo produce le prime migrazioni: gli uomini iniziano a seguire i corsi d’acqua e le coste in cerca di cibo, nuove terre vengono popolate, nuove materie prime sono ora a disposizione dell’uomo, che inizierà a realizzare degli strumenti per procacciarsi il cibo: l’invenzione dell’arco rende la caccia un’occupazione stabile. Il grande accumulo di esperienze e capacità permette all’uomo di iniziare ad esercitare un primo rudimentale controllo sulla natura, ad utilizzare l’ingegno per procacciarsi il proprio sostentamento.
La forma familiare caratteristica di questa fase è costituita dal matrimonio di gruppo. In questo tipo di famiglia gruppi di uomini e gruppi di donne sono complessivamente “sposati” tra di loro, non esiste una dimensione individuale come oggi la intendiamo e i legami familiari e sociali, di fatto, coincidono.
Nel lungo processo di sviluppo delle forze produttive, questa tipologia familiare si modifica in forme progressivamente più restrittive. La prima di esse è la famiglia per consanguineità che rappresenta un primo stadio della famiglia, nel quale i gruppi matrimoniali sono distinti per generazioni (ad esempio, tutti i nonni e le nonne sono complessivamente marito e moglie gli uni delle altre). La forma più avanzata del matrimonio di gruppo è rappresentata dalla famiglia punalua che si sviluppa in comunità stabili, nelle quali la proprietà privata non esiste. Questa forma familiare è la base dalla quale si svilupperà la futura gens.
Una delle caratteristiche principali del matrimonio di gruppo è rappresentata dal fatto che, proprio per la sua dimensione collettiva, la paternità non è certa. Questa caratteristica avrà un ruolo centrale nella genesi della disparità tra i sessi, come vedremo in seguito. Tale circostanza rende la discendenza dimostrabile unicamente secondo la linea femminile, dando origine a rapporti ereditari cosiddetti “matrilineari” (l’antropologo svizzero Johann Bachofen li identifica come diritto matriarcale). Sarà questo il motivo fondamentale per il quale, con l’avvento della proprietà privata, gli uomini abbatteranno il matriarcato.
In questo tipo di società vige una sostanziale parità tra i sessi, la proprietà privata non esiste, tutto ciò che viene raccolto, cacciato o prodotto appartiene alla comunità nella sua interezza. Sono società dal carattere egualitario, nelle quali non esistono distinzioni sociali, non esistono classi sociali. Dal punto di vista dello sviluppo produttivo e sociale questa fase viene definita comunismo primitivo.2
L’epoca successiva, la barbarie, è caratterizzata dall’introduzione dell’allevamento e della coltivazione e, più in generale, da un imponente sviluppo delle forze produttive che produrrà cambiamenti profondi nella struttura sociale. L’aumentata capacità produttiva degli uomini accresce i mezzi di sussistenza in modo illimitato, producendo un surplus, ossia una quantità di prodotti che gli uomini non hanno bisogno di consumare, ma che devono essere preservati.
La forma familiare caratteristica non è più il matrimonio di gruppo, ma la famiglia di coppia. Assistiamo dunque ad un primo restringimento. Tuttavia nel matrimonio di coppia il vincolo matrimoniale non è stringente e può essere sciolto da entrambe le parti con facilità.
Negli stadi inferiore e intermedio della barbarie le donne provengono quasi tutte dalla stessa gens, mentre gli uomini provengono da gentes diverse e questo produce un predominio della gens femminile che pone le donne in condizione di godere di libertà e rispetto nella comunità. È presente una divisione del lavoro tra uomini e donne, ma questa è determinata dalle differenti caratteristiche biologiche tra i due sessi (in particolare dal ruolo riproduttivo della donna) e non dalla subordinazione di uno all’altro.
Il passaggio cruciale avviene con lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame che produce un ulteriore accrescimento delle ricchezze. Si viene ad accumulare un surplus di cibo, bestiame, utensili, attrezzature, suppellettili che inizialmente appartiene alla gens, ma con il tempo va concentrandosi nelle mani di pochi: nasce la proprietà privata. Da questo momento in poi la produzione cessa di essere funzionale unicamente al soddisfacimento del bisogno della comunità e si inizia a produrre per lo scambio, per il commercio.
L’avvento della proprietà privata ebbe due tragiche conseguenze: la schiavitù e la cessazione della condizione di parità tra uomini e donne.
Nelle epoche precedenti i nemici vinti in battaglia potevano essere uccisi o annessi alla comunità, ma non veniva loro attribuito un “valore”. Ora tuttavia è necessaria nuova forza lavoro per far fronte alle esigenze legate all’aumento della produzione (la coltivazione della terra, la sorveglianza del bestiame, ecc.). Gli uomini acquistano dunque un valore di scambio, possono essere mercificati: nasce l’odiosa schiavitù. Stessa sorte tocca alle donne. La pratica del ratto e della compravendita delle donne nasce proprio a causa del progressivo restringersi della famiglia, che rende più difficoltoso agli uomini trovare delle partner femminili.
Le ricchezze non sono più collettive, ma passano dalla gens al singolo: il capo famiglia. Questo è un passaggio fondamentale in quanto è in questo momento che si gettano le basi per la fine della parità tra i sessi. La divisione del lavoro tra uomini e donne non è più una dimensione neutra dove i compiti dell’uno e dell’altra hanno il medesimo peso sociale. Ora l’uomo detiene la ricchezza, possiede i mezzi di produzione, il lavoro di tipo produttivo diventa un suo appannaggio, mentre il lavoro femminile, domestico, inizia ad essere considerato improduttivo (in quanto non può essere scambiato) e ciò pone l’uomo in una condizione privilegiata.
La nascita delle proprietà privata pone inoltre al centro delle priorità dell’uomo, possessore della ricchezza, l’urgenza di garantire la trasmissione di quella stessa ricchezza ai propri figli. In questo senso l’allora vigente diritto matriarcale rappresentava un ostacolo, in quanto il patrimonio passava ai consanguinei per parte materna. Era necessario sovvertire il vecchio ordine e introdurre la linea di discendenza maschile e il diritto ereditario patriarcale.
Nelle parole di Engels:
“Il rovesciamento del matriarcato segnò la sconfitta d’importanza storica generale del sesso femminile. L’uomo prese in mano anche il comando della casa, la donna venne degradata, asservita, resa schiava delle sue voglie e divenne solo uno strumento atto alla procreazione dei figli.”3
Un ulteriore passaggio si compie con la nascita della famiglia monogamica, tra lo stadio intermedio e quello superiore della barbarie. Il dominio dell’uomo è ormai sancito e il fatto che egli possa ripudiare la moglie, mentre alla donna sia vietato ripudiare il marito, ne è la dimostrazione. Alla donna viene imposta la più rigida fedeltà, mentre l’uomo possiede, come fossero oggetti, schiave che può sfruttare sessualmente. La caratteristica di questo tipo di monogamia è di fatto quella di essere una monogamia a senso unico, una monogamia soltanto per la donna.
Engels spiega che la monogamia non fu affatto il prodotto dell’amore individuale, ma la vittoria della proprietà privata sull’originaria proprietà comune naturale. Nelle sue parole:
“Essa appare come l’asservimento di un sesso da parte dell’altro, come proclamazione di un contrasto tra i sessi fino ad allora ignorato.”4
In buona sostanza Engels evidenzia come all’interno della famiglia monogamica si consumi la prima oppressione di classe, quella dell’uomo sulla donna, e come le basi di questa oppressione siano da ricercarsi in quella divisione del lavoro che non è più neutra, ma assume una dimensione di asservimento, esattamente come accade nella società. Nella famiglia monogamica, infatti, sono riprodotti in scala ridotta gli stessi conflitti e le stesse contraddizioni insite nella società divisa in classi, nella quale dominano diseguaglianza e oppressione:
“La monogamia […] inaugura […], accanto alla schiavitù e alla proprietà privata, quell’epoca, che dura ancor oggi, in cui ogni progresso è al tempo stesso un regresso relativo, in cui il benessere e lo sviluppo dell’uno si compie tramite il dominio e la repressione dell’altro.”5
Capitalismo, lotta di classe e condizione della donna
Posto che l’oppressione di genere e tutti i comportamenti violenti ed efferati che ne conseguono hanno come origine la nascita della proprietà privata, della famiglia tradizionale e della società classista, analizziamo cosa avviene con l’avvento del capitalismo.
La proprietà privata, conferendo all’uomo maggiore potere, relega la donna alla dimensione domestica. Per questo motivo Marx ed Engels ravvisano come condizione necessaria per la liberazione della donna, il suo reinserimento nel processo produttivo.
Con il capitalismo la donna prende parte alla produzione, esce dall’isolamento della casa e della famiglia e nei luoghi di lavoro sperimenta una dimensione nuova, collettiva. È il primo passo verso l’emancipazione. Ma in questa nuova dimensione la donna scopre una nuova forma di oppressione: l’oppressione di classe. In La donna e il socialismo Bebel spiega:
“La borghesia ha bisogno di sfruttare le forze produttrici, siano queste rappresentate da maschi o da femmine, per sviluppare ed aumentare quanto più è possibile la produzione.”6
L’inserimento nel processo produttivo è una condizione necessaria ma non sufficiente a garantire l’emancipazione e la liberazione della donna. Ad emancipare la donna non è il capitalismo, ma la lotta di classe contro lo sfruttamento. Su questo è necessario fare la massima chiarezza: il capitalismo, pur avendo destrutturato i vecchi legami economici, ha continuato ad utilizzare l’ideologia patriarcale per mantenere le donne in una condizione di subordinazione. Al capitalismo l’emancipazione della donna non giova per almeno tre ragioni:
1. Le donne, se mantenute in condizione di inferiorità, rappresentano manodopera più flessibile e a più basso costo che permette al capitalista di livellare i salari di tutti i lavoratori verso il basso, esattamente come accade per i lavoratori immigrati. Come spiega Bebel:
“[…] La donna, nel progresso dell’industria, trova di anno in anno un campo sempre maggiore in cui poter occuparsi senza migliorare però sensibilmente – e questo è l’importante – la sua condizione sociale. Colà dove si impiegano le donne, si licenziano generalmente gli uomini; e se questi vogliono vivere, devono offrirsi per una mercede più esigua. Codesta offerta si ripercuote sulla mercede delle donne, sicché l’abbassamento dei salari diventa quasi una vite perpetua […].”7
2. Il conflitto di genere rappresenta un valido grimaldello per spaccare il movimento operaio su basi di genere.
3. Il capitalismo scarica sulle donne il lavoro domestico e di cura in quanto, sfruttando il ruolo di supplenza delle donne, può tagliare i costi delle politiche di welfare, riducendo ciò che dovrebbe essere una responsabilità collettiva (la cura degli anziani, dei bambini, dei disabili, ecc.), ad un problema di natura privata.
Differentemente, una società basata sulla socializzazione del lavoro domestico e di cura, una società socialista, permetterebbe di liberare le donne dal lavoro domestico eliminando le basi stesse dell’oppressione femminile.
Femminismo operaista, materialista, intersezionalismo e teoria queer
Il carattere del lavoro domestico è stato più volte oggetto di dibattito nel movimento femminista. Porteremo qui due esempi legati a correnti del femminismo sviluppatesi negli anni ’70: il femminismo materialista di Christine Delphy e il femminismo operaista italiano di Mariarosa Dalla Costa e Alisa Del Re. Entrambe le correnti concordano sul fatto che il lavoro domestico e di cura abbia un valore produttivo in senso marxista, in quanto necessario a riprodurre la forza lavoro stessa. Secondo Marx il valore della forza lavoro contiene infatti in sé il valore delle merci necessarie alla sua riproduzione (cibo, vestiti, ecc.). Ciò che viene criticato a Marx è che in quel valore non venga considerato il valore del lavoro domestico e di cura (preparazione dei cibi, pulizia della casa, ecc.). Partendo dal presupposto che il lavoro domestico sia un lavoro di tipo produttivo, le due correnti giungono però a conclusioni opposte.
Le femministe operaiste sostengono che il capitalismo tenda ad escludere le donne dal lavoro produttivo al di fuori della famiglia, relegandole al lavoro riproduttivo, per evitare di dover socializzare il lavoro domestico attraverso servizi che avrebbero un costo elevato (asili nido, lavanderie e mense pubbliche, ecc.). Al contempo, garantendo all’uomo un salario sufficiente a provvedere a sé stesso e alla propria famiglia, stabilisce un contratto che includerebbe non solo il lavoratore salariato, ma anche la sua famiglia. Da questo punto di vista le donne, pur non essendo salariate, vengono considerate parte integrante della classe operaia e, in quanto tali, compagne di lotta degli uomini contro un comune nemico: il capitalismo che sfrutta entrambi.
Pur essendo corretto l’accento posto sulla questione di classe, le operaiste in primo luogo commettono un errore sostenendo che il capitalismo tenda ad escludere le donne dal lavoro produttivo. Ciò che accade è esattamente il contrario: il capitalismo ha storicamente inserito le donne nel processo produttivo. Questo è oggi evidente, ma era già vero ai tempi di Bebel, che nel suo testo La donna e il socialismo riporta una serie di dati sul crescente impiego di manodopera femminile in tutti i settori dell’industria in Germania, Inghilterra e Svizzera nella seconda metà del XIX secolo.
In secondo luogo, la rivendicazione che deriva da questa lettura teorica è il classico esempio di come la montagna, spesso, partorisca il topolino: un salario per il lavoro domestico. Invece di mettere in discussione la divisione sessuale dei ruoli, la si rinforza con l’idea che il lavoro domestico vada retribuito, fornendo una base teorica che legittima il permanere delle donne tra le mura domestiche. La contraddizione di questo approccio sta nel fatto che la proposta di un salario per le casalinghe, che fa il paio con le proposte post-operaiste del reddito di cittadinanza o di esistenza, non mette in discussione i rapporti di sfruttamento capitalistico, ma si colloca al loro interno.
Le femministe materialiste, partendo dallo stesso assunto sul valore produttivo del lavoro domestico, spostano l’attenzione sul soggetto che si appropria di tale lavoro non retribuito. Nella loro analisi ad appropriarsi del lavoro domestico non è il capitalista, ma l’uomo. Il patriarcato viene definito come un sistema a sé stante, la cui base economica è rappresentata dal modo di produzione domestico, all’interno del quale l’uomo sfrutta il lavoro della donna esattamente come il capitalista sfrutta quello del lavoratore salariato. Il femminismo materialista prende in prestito dal marxismo la categoria di classe, sostenendo che le donne, in virtù delle condizione di oppressione cui il patriarcato le costringe, siano a tutti gli effetti una classe, che vive in un rapporto di sfruttamento con l’antagonista classe maschile. Ne consegue che per sconfiggere il patriarcato sia necessaria una lotta di tutte le donne contro tutti gli uomini e non una lotta generale contro il sistema che perpetua l’esistenza del patriarcato.
Questo approccio ha il merito di aver esplorato le cause materiali dell’oppressione femminile, “il carattere storico, sociale e dunque arbitrario e reversibile, della gerarchia dei sessi”,8 ma non considerando centrale l’abolizione dei rapporti di produzione capitalistici, giunge a posizioni interclassiste e separatiste. L’idea che il solo nemico da combattere sia il patriarcato porta ad una serie di distorsioni, come per esempio – è il caso di Christine Delphy – ad un allontanamento dalla lotta anti-razzista, considerata non prioritaria per le donne. Se si pensa all’esperienza del movimento femminile afroamericano negli Stati Uniti, è facile cogliere i profondi limiti di questa posizione che, infatti, la stessa Delphy ha profondamente rivisto in anni recenti.
Questo breve esempio è paradigmatico di come il rapporto tra genere e classe sia controverso e di come approcci apparentemente molto radicali giungano a posizioni che non mettono in alcun modo in discussione i rapporti di sfruttamento esistenti nella società capitalista, riducendosi a proposte di natura riformista o culturale.
Non abbiamo qui lo spazio per un’esaustiva analisi di tutte le teorie che hanno approfondito i rapporti tra genere e classe, ma ci preme approfondire la nostra critica verso tutte quelle tendenze e impostazioni teoriche che si approcciano alla questione dell’oppressione femminile assumendola come prioritaria, senza tenere conto dei rapporti di classe e mantenendo un approccio alla battaglia di tipo culturale.
Questo tipo di impostazione non fornisce alle donne gli strumenti per liberarsi dall’oppressione di cui sono vittime, in quanto non mette in discussione le basi materiali del patriarcato. Per spezzare le catene che ci opprimono doppiamente, come donne e come lavoratrici, dobbiamo lottare contro il capitalismo che utilizza l’ideologia patriarcale per mantenere la donna in una condizione di subordinazione.
Porteremo in tal senso due esempi: il femminismo intersezionale e la teoria queer.
Il termine intersezionalità viene coniato nel 1989 negli USA da Kimberlé Crenshaw. L’assunto di base è che ogni persona possa essere attraversata da più di un asse di oppressione, venendosi a trovare in un punto di intersezione. Una donna può essere oppressa in quanto donna, ma anche su basi etniche, di classe, religiose. Il femminismo intersezionale rifiuta una gerarchia delle oppressioni e si concentra su come queste agiscano in modo complesso e combinato sul soggetto. In questo senso le donne non vengono considerate come una “categoria” omogenea e la riflessione si sposta dalla dimensione collettiva (donne) a quella individuale (soggettività). Spostando l’analisi sull’individuo si finisce con l’elevarlo a “soggetto agente la conflittualità”. Manca totalmente una spiegazione organica, sistematica delle cause che producono l’oppressione e, soprattutto, l’oppressione di classe viene posta al pari delle altre, rigettando completamente le riflessioni marxiste sul tema.
Con un assunto di questo tipo è impensabile qualsiasi tipo di processo di aggregazione. Dove dovrebbe collocarsi una proletaria afroamericana? Nella lotta contro il padrone? Nella lotta contro il patriarcato? Nella lotta per i diritti civili degli afroamericani?
La soluzione che il femminismo intersezionale propone è che per liberarsi dall’oppressione bisogna riappropriarsi della propria identità, partendo dall’idea che il proprio vissuto sia valido tanto quello altrui e che non esistano atti “femministi” validi in senso assoluto: ognuno decide come autodeterminarsi a seconda della propria condizione. Questa concezione ha un profondo ed oggettivo limite: resta imbrigliata nel fantastico mondo delle idee che, per quanto affascinante, non è il mondo reale. Nel mondo reale le donne subiscono violenze fisiche, psicologiche, mobbing, sono sfruttate nei luoghi di lavoro e via discorrendo. Che sul piano psicologico l’oppressione si declini in infiniti vissuti individuali è una banale ovvietà, ma il punto della questione è che una teoria sull’oppressione, di qualsiasi natura essa sia, dovrebbe fornire agli oppressi gli strumenti per liberarsi dal giogo della subalternità. Diversamente è soltanto un inutile esercizio accademico di stile. Queste concezioni, escludendo per loro stessa natura la possibilità di forme di lotta generali, non forniscono tali strumenti. Al contrario, rappresentando un ostacolo per l’unità di classe e la conflittualità, scivolano in ultima analisi su posizioni reazionarie.
Illudersi che un atto individuale sia sufficiente a porre fine alla violenza e alla disparità di genere è, nella migliore delle ipotesi, un’ingenuità. Ma l’ampio favore di cui queste teorie godono negli ambienti accademici, grazie ad uno stuolo di intellettuali foraggiati dalla classe dominante, ci porta a pensare che più che di ingenuità si tratti di una lucida volontà di avvalersi di nuove ideologie intrise di scetticismo e nichilismo, al solo scopo di deviare le giovani generazioni dalle idee genuinamente rivoluzionarie.
La teoria queer si spinge ancora oltre sul piano dell’idealismo e dell’individualismo. Nasce negli ambienti accademici statunitensi negli anni ’90 e trova la sua massima esponente in Judith Butler. Questo approccio considera la sfera della sessualità cruciale per la comprensione dell’intera società. In particolare promuove l’idea che il sesso biologico, l’identità di genere e l’orientamento sessuale siano solo costrutti culturali. L’intera sfera della sessualità diviene, nella teoria queer, un prodotto culturale permeato di rapporti di potere.
L’identità di genere diviene una finzione, essa è il risultato della narrazione imposta dal potere. Ne consegue che per emanciparsi basta rimuovere questa narrazione dominante, dal che discende l’estrema importanza (che non di rado scivola nel grottesco) attribuita al linguaggio. Come se modificare il linguaggio mediante un sapiente utilizzo di asterischi, per evitare di declinare i termini al maschile o al femminile, bastasse a rimuovere in qualche misura le cause dell’oppressione.
La teoria queer si spende nella ricerca di una vera identità della donna fino ad affermare che, essendo ogni donna diversa dalle altre, non può esistere una definizione valida di donna che non sia il prodotto di pregiudizi e mistificazioni della società. Dunque la donna, in quanto tale, non esiste. In tal senso pionieristico è stato il contributo di Simone de Beauvoir che nel Secondo sesso scriveva:
“Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna. Solo la mediazione di un’altra persona può costituire l’individuo come un Altro.”
Queste righe rappresentano un punto di riferimento irrinunciabile per qualsiasi teoria che abbia l’obiettivo di decostruire il sesso biologico.
La teoria queer di Judith Butler si schiera dalla parte dell’idealismo filosofico. Le sue radici affondano nel pensiero postmodernista e nel suo sguardo rivolto all’individuo, alla soggettività, alla condizione peculiare che la singola identità esprime, rigettando i sistemi di indagine che si basano su un’analisi organica della società, come il marxismo. Nella teoria queer assistiamo ad un’esaltazione della condizione individuale, della contraddittorietà della sua identità e della società in cui vive.
Questa teoria, nella fase di riflusso delle lotte negli anni ’90 e 2000, ha avuto una certa attrattiva per una ristretta fascia di giovani. Con l’ondata di lotta di classe tra gli anni ’60 e ’70, il movimento delle donne si era risvegliato. Diversi gruppi femministi si consideravano socialisti o in qualche modo legati alla lotta di classe, ma con il riflusso del movimento e la demoralizzazione verso la prospettiva di un cambiamento radicale della società, il movimento delle donne è scivolato nelle politiche identitarie, abbandonando le aspirazioni radicali e ripiegando sull’attivismo solidale, i progetti artistici e culturali e via discorrendo.
Gli approcci femministi che subordinano la lotta di classe alla lotta contro il patriarcato non combattono la causa che genera l’oppressione, ossia la divisione in classi della società. Si incentrano sul patriarcato e sull’identità, guardandosi bene dal mettere in discussione le basi materiali di quei rapporti di potere di cui l’identità sarebbe permeata.
In questo si riflette lucidamente il rapporto tra due visioni antitetiche del mondo, della società, dei rapporti che in essa si sviluppano: il materialismo e l’idealismo. Il dualismo tra sesso biologico e identità di genere rappresenta il dualismo tra materia e idea.
Ma se assumiamo un punto di vista idealista, la lotta per l’oppressione delle donne si riduce a una mera battaglia culturale, linguistica, che non mette in discussione le basi che generano l’oppressione stessa. Oltre a questo il focus esclusivo sull’individuo e l’approccio psicologico alla questione rendono impossibile promuovere qualsiasi tipo di battaglia complessiva: nessuna forma di organizzazione della conflittualità è possibile. Ognuno, di fatto, è solo nella propria condizione specifica: il trionfo della classe dominante.
Marxismo e questione femminile
A queste teorie confuse, divisive e reazionarie contrapponiamo con fermezza la lucidità della teoria marxista.
Un’organizzazione che si dichiari marxista e rivoluzionaria non può che abbracciare la causa della lotta per l’emancipazione femminile come parte integrante di una lotta per una società nuova. L’importanza che i marxisti attribuiscono alla lotta contro l’oppressione della donna è testimoniata dal ruolo che rivestirono le donne bolsceviche dentro e fuori dal partito, nel movimento operaio, durante la Rivoluzione d’ottobre del 1917. La rivoluzione rappresentò un momento fondamentale della lotta per l’emancipazione femminile nella storia della Russia.
Per i marxisti la battaglia per la liberazione della donna non può essere condotta isolatamente, ma deve essere portata avanti dalla classe lavoratrice nel suo insieme, in una lotta generale contro il sistema. Nei luoghi di lavoro non si può dare battaglia ai comportamenti sessisti trattandoli come un problema “culturale”. Un esempio di questo lo fornisce lo sciopero dei minatori britannici tra il 1984 e il 1985, durante il quale il ruolo delle donne, il loro coraggio e la loro determinazione contro le politiche scellerate della Thatcher, spinsero le organizzazioni dei minatori a guida maschile a rimuovere le connotazioni sessiste dalla proprie pubblicazioni. Le donne smettevano di essere viste come mogli e madri subalterne e, nell’immaginario collettivo, divenivano attiviste proletarie a tutti gli effetti, che esigevano e meritavano rispetto e parità di trattamento sulla base del ruolo che si erano ritagliate.
In questo senso per i marxisti i diritti si conquistano sul campo, nella trincea della lotta di classe e non certo attraverso percorsi istituzionali che si rivolgono a quelle stesse forze politiche che da anni sottraggono risorse vive alle donne in difficoltà, tagliando i fondi per i centri antiviolenza, chiudendo i consultori e continuando a permettere la barbarie rappresentata dal diritto all’obiezione di coscienza, contenuto nella legge italiana sull’aborto.
L’adozione di un punto di vista di classe è il solo che, promuovendo un cambiamento generale della società, possa minare alla base le cause stesse dell’oppressione femminile, come di ogni altra forma particolare di oppressione. Per tale motivo ci definiamo marxiste e non femministe e combattiamo tutti quegli approcci che offrono visioni individualiste o separatiste della questione. Queste teorie producono pericolose divisioni e impediscono al movimento l’unità d’azione necessaria a cambiare il sistema nel suo complesso.
Il fine del marxismo è costruire una società giusta, nella quale non esista spazio per alcuna forma di sfruttamento, nella quale gli individui possano esprimere la propria individualità in piena libertà e senza le costrizioni imposte da una morale bigotta che rigettiamo. Il marxismo si pone obiettivi ambiziosi e per poterli realizzare necessita di tutta la forza della classe lavoratrice unita. L’unità della classe lavoratrice nella lotta, sulla base di un programma rivoluzionario, è la sola arma che potrà renderci liberi dal giogo del capitale. Invitiamo tutti gli sfruttati ad unirsi alla lotta contro qualsiasi forma di discriminazione, sia essa basata sul genere, sulla nazionalità, sull’orientamento sessuale o sulla religione.
Note
- in F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, Newton Compton Editori 1977, p. 54.
- Un contributo più recente su questo tema è quello dell’antropologa marxista statunitense Eleanor Burke Leacock che, nel suo percorso di ricerca che va dagli anni ’50 agli anni ’80, partendo dal testo di Engels, ha cercato di confutare le posizioni di diversi teorici e gruppi femministi, che sostenevano che l’oppressione femminile fosse sempre esistita, fosse insita in tutte le forme di società, portando a sostegno delle loro tesi argomentazioni basate sulla biologia, la psicologia e la cultura. Attraverso le sue ricerche sul campo tra i nativi americani Montsagnais-Naskapi e i suoi studi dei diari dei missionari gesuiti, Leacock ha dato un prezioso contributo storico e antropologico, che avvalora la tesi che siano esistite società realmente egualitarie, nelle quali la divisione del lavoro tra i generi non era legata a un ruolo di subordinazione della donna.
- Engels, op. cit., p. 81.
- Ibidem, p. 89.
- Ibidem, p. 90.
- Bebel, La donna e il socialismo, Savelli 1977, p. 207.
- Ibidem, p. 208.
- in Quaderni viola n°5, Non si nasce donna, Alegre 2013, p. 27.