Dalla pandemia alle “giornate di marzo” – Crisi economica, coscienza di classe e nuova epoca rivoluzionaria

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Dalla pandemia alle “giornate di marzo” – Crisi economica, coscienza di classe e nuova epoca rivoluzionaria

Rendiamo disponibile a tutti i nostri lettori il documento di Prospettive per la rivoluzione in Italia, discusso e approvato al XXI Congresso di Sinistra classe rivoluzione, svoltosi il 5-6-7 dicembre 2020.

 

Il capitalismo è entrato nella crisi più profonda della sua storia, mai come oggi il suo carattere parassitario diventa palese anche tra le grandi masse.

Non solo la borghesia non svolge da tempo alcun ruolo progressista ma è sempre più evidente come non sia più in grado di restare in piedi senza il sostegno degli stati nazionali.

In questa crisi sono evaporate tutte le tesi (più volte oggetto della nostra critica) che attribuivano un ruolo secondario agli stati nazionali, in quanto secondo il giudizio di sedicenti marxisti, nell’epoca moderna, essi svolgevano un ruolo secondario rispetto alle banche e alle multinazionali.

Mai come oggi una ingente quantità di imprese sopravvivono grazie al ruolo degli stati nazionali che si adoperano per tutelarne gli interessi e senza i quali sarebbero costrette a fallire. È così che la Fiat, nel mezzo della crisi e della pandemia, ha ottenuto la garanzia pubblica su un prestito da 6,3 miliardi di euro chiesto dalla propria controllata FCA Italy (un aiuto che – per tempismo e livello di copertura – di solito viene negato alle famiglie colpite dalla crisi), Trump prende misure protezionistiche contro le aziende cinesi ed europee e lo stesso fanno Cina e Ue nei confronti di quelle americane.

Una situazione che sta producendo una contrazione significativa del commercio mondiale e un conseguente calo dei saggi di profitto, la cui tendenza insita nel capitalismo si sta accentuando in virtù di tali scelte soggettive.

Come abbiamo spiegato in altri testi il protezionismo non è una risposta alla crisi di sovrapproduzione, al contrario può solo aggravarne le conseguenze. Così come la pandemia non è stato il fattore scatenante di questa crisi ma un elemento che ne ha aggravato la portata storica. Le cose si intrecciano in una spirale che spinge il capitalismo sempre più verso il baratro.

Il risultato è che il mondo ci appare oggi molto più simile a quello che esisteva tra gli anni ’30 e ’70. Infatti anche in quegli anni gli stati nazionali intervenivano in maniera imponente sui mercati con tanto di nazionalizzazioni, l’economia pubblica rappresentava una quota significativa del Pil (in Italia ancora all’inizio degli anni ’80, il 70% delle banche e il 30% del settore industriale erano pubbliche). Naturalmente stiamo parlando di un pubblico totalmente funzionale agli interessi dei privati, vale a dire dei capitalisti.

La politica di privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite non è una novità di oggi, è tanto vecchia quanto il sistema capitalista di produzione, ma ebbe un’impennata notevole in quegli anni. Fino ad allora i debiti statali erano quasi inesistenti.

L’imponente ruolo degli stati e il forte protezionismo era determinato anche in funzione “antisovietica” visto che circa 1/3 della popolazione mondiale viveva in paesi ad economia pianificata (Urss, Cina, Europa orientale, Vietnam, Cuba, ecc.) dove esisteva il monopolio dello Stato sul commercio estero.

Tuttavia il parallelo con la realtà di oggi finisce qui; in quanto la seconda guerra mondiale risolse la crisi di sovrapproduzione (distruggendo forze produttive e permettendo un nuovo ciclo di espansione capitalistica) ed è così che a partire dal 1948 fino ad almeno il 1973 il capitalismo ha potuto godere di un importante boom economico.

Inoltre a differenza di oggi in quegli anni esisteva un paese imperialista in ascesa, gli Usa, che faceva da volano alla ripresa, che con i suoi investimenti e finanziamenti a pioggia su scala mondiale ha favorito un processo di crescita senza precedenti nella storia.

Oggi gli Usa sono una potenza in declino, sia sul piano economico che su quello politico, né esiste un altro paese in grado di trainare l’economia mondiale con un nuovo piano Marshall; la Cina ha troppe contraddizioni per poter svolgere un ruolo di questo tipo, senza contare che proprio gli Usa (e in second’ordine l’Ue) si opporranno ostinatamente a una prospettiva del genere.

Difficile, per non dire impossibile, che questa contraddizione possa essere risolta con uno scontro militare diretto tra le grandi potenze, anche se è un dato di fatto che nell’ultimo decennio c’è stata un’impennata delle guerre per procura a livello locale dietro le quali si muovono e agiscono le grandi potenze. La guerra commerciale assume un carattere sempre più aggressivo e guerrafondaio.

La crisi del sistema capitalista è molto più seria oggi di quanto sia mai stata negli anni ’30, anche perché rispetto ad allora il capitalismo si è esteso e ramificato in ogni angolo del pianeta. Questa crisi del capitalismo mondiale viene accentuata anche dalla crisi climatica con l’aumento di costi per i danni e la mitigazione del clima e l’aumento di fame e povertà.

 

Le lancette della globalizzazione tornano indietro

Il capitalismo è un sistema ciclico. Esistono cicli brevi che durano dai 6 ai 10 anni circa, caratterizzati dall’alternanza tra boom e recessione, a cui si affiancano cicli più lunghi che durano dai 30 ai 50 anni (ma che possono variare in funzione di grandi sconvolgimenti sociali o politici) che marcano le linee di tendenza del sistema.

Mentre i cicli minori sono una caratteristica intrinseca alla struttura economica capitalista, come spiegava Trotskij, ne La curva dello sviluppo capitalistico, i cicli lunghi sono determinati da fattori sovrastrutturali di tipo politico (fondamentalmente guerre, rivoluzioni e controrivoluzioni). Non a caso Trotskij dubitava persino che questi ultimi potessero essere definiti cicli, così come affermava il professor Kondratev.

Dall’inizio degli anni ’80 fino al 2008, un periodo durato circa 30 anni, abbiamo avuto uno di questi cicli caratterizzato da una forte liberalizzazione economica. È stata un’epoca di privatizzazioni selvagge, penetrazione imperialista nei paesi del cosiddetto terzo mondo e aumento impressionante degli scambi su scala globale.

Questo è andato di pari passo con un interminabile processo di fusioni, acquisizioni e una concentrazione del capitale e della ricchezza in poche mani. Un processo favorito dalla restaurazione capitalista nei paesi ad economia pianificata. Un mercato di circa 2 miliardi di persone, al quale i capitalisti non avevano accesso, gli si è materializzato davanti, nel corso degli anni ’90.

Questo enorme vantaggio sul piano economico è stato possibile anche grazie a una concatenazione di fattori politici che si alimentavano l’un l’altro, in quanto il crollo dell’Urss e la restaurazione capitalista in Cina giungevano al culmine di una sconfitta più generale che il movimento operaio internazionale subiva nel corso degli anni ’80 (Fiat Mirafiori 1980, controllori di volo Usa 1981, impiegati pubblici francesi 1982-83, minatori britannici 1984-85) e che permetteva ai capitalisti di riportare verso l’alto i saggi di profitto.

Altre sconfitte si producevano negli anni ’90 nei paesi ex-coloniali. Citiamo su tutte la decade perdida in America Latina, inaugurata dalla sconfitta della rivoluzione sandinista in Nicaragua.

Questa situazione ha rallentato la crescita delle forze del marxismo per tutta una fase.

Dopo la spettacolare ascesa che le forze del trotskismo avevano avuto negli anni ’70 e ’80 è cominciata una fase di declino nella costruzione del partito rivoluzionario su scala mondiale. Ma quella fase si è chiusa alle nostre spalle.

Possiamo affermare che con la crisi del 2008-2009 siamo entrati in una fase completamente nuova.

Non solo le lancette della globalizzazione hanno cominciato a girare nella direzione contraria, ma è in corso un processo di radicalizzazione politica e sociale che investe l’intero pianeta.

La crisi ha interrotto una fase discendente della lotta di classe per aprirne una densa di sconvolgimenti rivoluzionari. Abbiamo già trattato, in altri testi, i processi negli Usa, Cile, Colombia, Ecuador, Libano, Iraq e le primavere arabe, così come i fermenti politici e sociali in Europa (Francia, Gran Bretagna, Spagna, Grecia, ecc.).

Gli effetti in Italia si sono visti meno che in altri paesi, ma si tratta di un ritardo che presto verrà colmato.

Ne abbiamo già affrontato le cause in altri testi, li riprenderemo solo di passata.

Nella ultima crisi il processo di deindustrializzazione in Italia è stato più concentrato che in altri paesi e più profondo (per quanto come vedremo in seguito l’Italia partiva da un livello molto alto). In un solo anno, il 2009, c’è stato un crollo della produzione industriale del 25%, particolarmente concentrato nel Mezzogiorno. Naturalmente questo non significa che si sia perso il 25% della capacità produttiva installata. Ma questo ha preso di sorpresa la classe operaia e l’ha stordita, paralizzando per tutto un periodo la sua capacità di reazione.

Inoltre la partecipazione delle burocrazie riformiste nello smantellamento delle conquiste politiche e sindacali è stato maggiore in Italia che in altri paesi. La crisi del 2008-09 arrivava proprio al culmine di un disastroso governo di centro-sinistra (Prodi-bis) che aveva visto la partecipazione piena e totale di Rifondazione comunista, oltre che la collaborazione aperta delle burocrazie sindacali.

Questo ha avuto un effetto demoralizzante sulla classe lavoratrice che si è sommato agli effetti della recessione economica e delle politiche di austerità portate avanti per più di un ventennio, un periodo molto più lungo che in altri paesi visto che nel nostro paese (a causa dell’elevato debito pubblico accumulato fondamentalmente nel corso degli anni ’80) quel tipo di politiche sono cominciate con il governo Amato nel 1992.

Il fatto che in passato l’Italia avesse il partito comunista più forte dell’Europa occidentale e una delle classi operaie più combattive al mondo, si è trasformato dialetticamente nel suo contrario, rendendo il nostro l’unico paese importante in Europa, privo di una rappresentanza politica dei lavoratori di una qualche consistenza.

Una questione su cui torneremo ma che, sia detto di passata, non è un elemento che tranquillizza affatto la classe dominante, visto il ruolo di freno alle mobilitazioni operaie e di compromesso utile alla borghesia che il gruppo dirigente del Pci ha rappresentato per tutta un’epoca storica.

L’assenza di un partito riformista di massa, lungi dall’essere un ostacolo alla ripresa del conflitto sociale e a lungo termine un fattore destabilizzante per la borghesia, anche se nel breve termine ha avuto l’effetto di demoralizzare un settore di attivisti del movimento operaio. Ma quando le mobilitazioni riprenderanno queste assumeranno un carattere incontrollabile, favorendo l’azione dei marxisti nella battaglia per conquistare la maggioranza dei lavoratori a un progetto di trasformazione della società in senso socialista. Ma per poter giocare un ruolo, è necessario arrivare a quel momento con un’organizzazione che sia ben radicata tra i giovani e i lavoratori, numericamente forte e diffusa a livello nazionale. Per questo è fondamentale il lavoro di reclutamento e formazione che si sta facendo in questo momento.

 

Economia italiana a picco

Tabella 1

La crisi economica italiana è stata particolarmente profonda. Il nostro era l’unico paese in Europa che già prima della pandemia (alla fine del 2019) non aveva raggiunto in valori reali (depurati dall’inflazione) i livelli del Pil precedenti alla crisi del 2009. (Vedi tabella 1)

Con l’inizio della pandemia il tracollo del Pil viene accompagnato da una vera e propria impennata del debito pubblico, che già era il più alto in Europa (la Nota di Aggiornamento al DEF del governo stima che alla fine dell’anno il rapporto debito/Pil toccherà il 158%).(vedi tabella 2)

Il dato della povertà è drammaticamente in ascesa. (vedi tabella 3)

Così come quello della disoccupazione. Dal febbraio al luglio 2020, nel corso della pandemia si sono persi 472mila posti di lavoro (Sole 24 Ore), il dato è di 841mila su base annua (Istat), nonostante il “blocco” dei licenziamenti.

Tabella 2

Quando il governo ritirerà questa misura che Confindustria sta contrastando in ogni modo si potrebbero perdere un altro milione e mezzo di posti di lavoro.

Le ristrutturazioni aziendali saranno all’ordine del giorno e si estenderanno a macchia d’olio su tutto il territorio nazionale.

Secondo una recente stima della Commissione europea, il Pil nel 2020 in Italia scenderà a -11,2%, il peggior calo di tutta l’Unione europea.

L’Istat prevede un forte rischio per la tenuta produttiva. “L’impatto della crisi sulle imprese è stato di intensità e rapidità straordinarie, determinando seri rischi per la sopravvivenza: il 38,8% delle imprese italiane ha denunciato l’esistenza di fattori economici e organizzativi che ne mettono a rischio la sopravvivenza nel corso dell’anno.”

Nel settore del turismo il problema è raddoppiato: oltre sei alberghi e ristoranti su dieci rischiano la chiusura entro un anno a seguito dell’emergenza Coronavirus mettendo in pericolo oltre 800mila posti di lavoro. Nel comparto, si definiscono a rischio sopravvivenza il 65,2% delle imprese di alloggio e ristorazione.

Tabella 3

La crisi di liquidità potrebbe incidere fortemente sull’operatività delle imprese. Una stima dell’impatto del lockdown sulla liquidità di circa 800mila società di capitale italiane (che rappresentano quasi la metà dell’occupazione e il 70% del valore aggiunto del sistema produttivo) indica “che il crollo del fatturato a partire dal mese di marzo 2020 ha accentuato le difficoltà finanziarie delle imprese, ponendo sfide severe anche per quelle con una solida situazione economico-finanziaria”.

In particolare, rileva l’Istat, si stima che il 16,5% (quasi 131mila unità) fosse già illiquido alla fine del 2019; un ulteriore 13,3% (circa 105mila) lo sarebbe diventato tra gennaio e aprile 2020; per il restante 5,9% (oltre 46mila imprese) il deterioramento delle condizioni di liquidità è tale da mettere a rischio l’operatività nel corso del 2020.

Questo si lega all’altro principale punto critico dell’economia italiana, la situazione debitoria delle banche. Il calo dell’attività economica riduce la domanda e indebolisce la capacità di restituzione dei prestiti da parte di famiglie ed imprese. Lo shock economico può generare un forte incremento del tasso di deterioramento dei prestiti, che alla fine del 2019 si era significativamente ridotto (rispetto al punto più alto del 2015) per i vari interventi della Bce.

 

Recovery fund

Proprio per la gravità della crisi, attorno alla questione del Recovery fund si è visto un cambio di atteggiamento da parte della Merkel e di Macron, che hanno voluto evitare una nuova crisi dei debiti sovrani, con gli spread alle stelle, non mettendo con le spalle al muro Italia e Spagna come avevano fatto qualche anno fa con Grecia e Portogallo.

L‘accordo prevede che vengano erogati 750 miliardi di euro (ripartiti in 390 miliardi di sovvenzioni e 360 di prestiti), con un rilancio da parte della Bce all’acquisto di titoli pubblici e privati.

C’è stata una riduzione rispetto ai 500 miliardi a fondo perduto di cui si parlava inizialmente ma non c’è dubbio che la Merkel abbia cambiato posizione, abbandonando il precedente compromesso con i settori più euroscettici della borghesia tedesca, la cui posizione è stata rappresentata in questo scontro dai cosiddetti paesi frugali, guidati dall’Olanda. Infatti è la prima volta che l’Unione europea costruisce uno strumento di bilancio comune, finanziato attraverso l’emissione di debito comune e rimborsabile con “risorse proprie” di Bruxelles.

Di questi all’Italia ne saranno assegnati una parte cospicua, 209 miliardi (81,4 a fondo perduto, 127 come prestiti). Ma il prestito sarà operativo solo dal secondo semestre del 2021 e verrà condizionato da molti fattori sia economici che di tipo politico. È per questa ragione che Zingaretti è tornato alla carica con il Mes (Fondo salva-Stati), in quanto il governo ha necessità urgente di fondi.

Come è noto il M5S si oppone all’utilizzo del Fondo salva-Stati, ma Conte ha fatto un’apertura alla Festa dell’Unità nazionale, dove è stato accolto da grandi entusiasmi, come se fosse un presidente del Pd. Questo governo si prepara letteralmente a sommergere l’Italia sotto una valanga di debiti.

In ogni caso quelli del Recovery fund, così come quelli del Mes, non sono né denari a “fondo perduto”, né privi di condizioni, come ha sbandierato il governo Conte. A fondo perduto ci sono solo 30 miliardi se si considera che il contributo dell’Italia a questo fondo comunitario è di circa 50 miliardi.

Inoltre per accedere al programma il governo italiano dovrà presentare un piano nazionale alla Commissione europea. La condizione preliminare per una valutazione positiva della Commissione è la coerenza del piano “con le raccomandazioni specifiche per Paese”, quelle raccomandazioni che annualmente la Commissione detta ad ogni Stato membro, ovviamente più o meno cogenti a seconda del rispetto di parametri e impegni presi. Nel caso dell’Italia, com’è noto, innanzitutto la riduzione del rapporto deficit/Pil strutturale e del debito pubblico. Insomma, le famose “riforme strutturali”.

La valutazione del piano nazionale fatta dalla Commissione dovrà essere approvata dal Consiglio europeo, a maggioranza qualificata. Ed è qui che interviene il cosiddetto “freno d’emergenza” preteso dal primo ministro olandese Rutte. Anche un solo governo potrà deferire al Consiglio europeo il Paese beneficiario dei fondi, se ritiene che non rispetti le condizioni (“gravi scostamenti dai target intermedi e finali”), chiedendo al presidente del Consiglio europeo di rinviare l’esame della questione al successivo vertice. Non un vero e proprio diritto di veto, ma ha il potere di ritardare e intralciare il processo di erogazione dei fondi, quindi una potente arma di condizionamento politico.

Ma nemmeno l’approvazione del piano garantirà l’erogazione di tutti i fondi. Nelle conclusioni del vertice, infatti, si precisa che i piani “saranno riesaminati e adattati, ove necessario, nel 2022 per tenere conto della ripartizione definitiva dei fondi per il 2023”. Il 30 per cento dei fondi che dovrà essere impiegato entro il 2023 potrebbe essere vincolato ad una revisione del piano: ulteriori condizioni. Un ulteriore vincolo ci sarà sulla destinazione dei fondi, che si potranno utilizzare per investimenti orientati, non destinati certo alle politiche sociali.

Ma anche così è molto di più di quanto la Commissione europea abbia mai concesso nel corso della sua esistenza, particolarmente per l’Italia, che ha avuto una quota più elevata rispetto al suo peso reale, fondi che sono stati sostanzialmente negati ai paesi del Nord Europa e dell’Europa orientale.

Il compromesso di Merkel e Macron è stato pressoché obbligato dall’asprezza della crisi, ma soprattutto per evitare il rischio di rottura dell’Unione europea. Lo ha detto chiaramente il primo ministro svedese alla vigilia dell’incontro: mantenere il mercato comune è “la cosa più preziosa per le nostre economie”, e si capisce: fuori dall’Ue c’è un mercato mondiale in piena contrazione dove si riaccendono i fronti della guerra commerciale, di cui l’Ue non è solo vittima indiretta, ma anche bersaglio.

Applicare all’Italia oggi le politiche della Troika che abbiamo visto utilizzare nel 2013-2014 sarebbe stata una follia, in quanto Grecia e Portogallo rappresentano rispettivamente solo l’1,2% e l’1,3% del Pil della Ue, l’Italia ha un peso dieci volte superiore (12%) e far affondare il Belpaese significa travolgere l’Ue e con essa lo scudo protettivo delle aziende e dei prodotti tedeschi e francesi sul mercato mondiale. Tanto più dopo la fuoriuscita del Regno Unito dall’Ue. Inoltre sarebbe stato un regalo alle forze sovraniste che in Germania e Francia, così come nel resto d’Europa, minacciano le formazioni “europeiste” che governano l’Ue.

La Germania ha inoltre un problema molto serio di competitività sul mercato mondiale, le sanzioni Usa e il forte sostegno dello Stato cinese alle proprie aziende hanno ridotto le quote di mercato dei prodotti tedeschi al di fuori dell’Europa. Già nel 2019, prima che scoppiasse l’epidemia c’erano segnali in questo senso. A giugno 2019, le esportazioni tedesche erano diminuite dell’8% su base annua. La bilancia commerciale ha avuto un calo nel 2019. Dai dati, ricaviamo che il surplus commerciale tedesco è diminuito di 12,5 miliardi in 6 mesi, qualcosa come un terzo di punto percentuale del Pil (oltre mezzo punto, se annualizzato). La Germania è preoccupata che possano ridursi ulteriormente le sue quote di mercato negli Usa (notevoli, soprattutto nel settore automotive) e in Cina dove nel 2018 hanno segnato un record, con esportazione di beni per un valore complessivo di 95 miliardi di euro, precedendo di gran lunga Francia (21 miliardi), Regno Unito (23 miliardi), Italia (13 miliardi) e Olanda (10 miliardi).

Di conseguenza il governo tedesco protegge il proprio orticello, puntellando la “fortezza” europea.

 

Debiti a tutti i livelli

Autorevoli osservatori stanno paragonando le conseguenze del coronavirus a quelle della Seconda guerra mondiale. Un simile accostamento trascura un punto fondamentale: a differenza di quanto accadde dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti non potranno lanciare un piano Marshall per risollevare l’Europa, né altri potranno farlo. Numerosi strateghi americani hanno a lungo discettato di un attacco degli Stati Uniti per spingere la Cina indietro di decenni, ma oggi il coronavirus prosciuga le risorse della Casa Bianca, già minate da anni di politiche di espansione monetaria. Trump dovrà spendere miliardi di dollari per provare a farsi rieleggere alle prossime elezioni e non è in condizioni di sferrare un serio colpo alla Cina. Può solo minacciarla.

Ma la sola minaccia può avere conseguenze incendiarie e spingere i due paesi verso una vera e propria guerra commerciale che avrebbe l’effetto di condurre l’economia in profonda depressione.

Questa situazione sta portando i debiti statali a cifre da capogiro, non solo negli Usa.

Oltre 100 Paesi si sono già rivolti al Fmi per chiedere aiuto, ha ricordato nelle scorse settimane la direttrice della stessa istituzione, Kristalina Georgieva. Metà del pianeta, insomma, non riesce a reggere gli attuali livelli di indebitamento in condizione di recessione globale.

I Paesi più poveri hanno un debito estero complessivo di 11mila miliardi di dollari di cui 3.900 miliardi di dollari sono debiti in scadenza a breve termine, ricorda il vicedirettore del programma Global Economy and Development della Brookings Institution, Homi Kharas.

In circostanze normali – scrive Kharas – gli importi principali verrebbero semplicemente rifinanziati sul mercato dei capitali o sarebbero compensati da nuovi esborsi da parte dei finanziatori esistenti. Ma le circostanze non sono normali. I mercati del credito si sono contratti, gli spread sono aumentati e molti Paesi si trovano ad affrontare una riduzione molto consistente dei ricavi in valuta estera”.

Morale: rischiano il default. E sulla linea del fronte, tanto per cambiare, ci sono paesi come Argentina, Brasile, Turchia, ma anche diversi tra i paesi che fino a qualche anno fa venivano considerati “emergenti”. Il problema non riguarda solo i Paesi più poveri. Nei momenti di crisi, come si diceva, il peso dell’indebitamento tende ad aumentare, in parte perché si fa maggiore ricorso al finanziamento per sostenere la spesa pubblica; in parte perché la recessione spinge il rapporto debito/Pil verso l’alto. Uno dei paesi più a rischio è naturalmente l’Italia. A giugno l’agenzia Fitch ha declassato il rating sovrano dell’Italia a BBB- con outlook stabile, a un solo gradino dall’area junk (spazzatura). L’ipotesi, come visto, è che nel corso del 2020 il debito possa salire fino a quota 158% del Pil.

Un ulteriore downgrade farebbe piombare i titoli italiani in territorio spazzatura ma, ed è questa l’unica buona notizia per la classe dominante, non impatterebbe sul programma di sostegno della Bce che, qualche giorno prima, aveva fatto sapere di essere pronta ad acquistare anche gli asset finanziari speculative grade (quelli con una valutazione di rischio sotto la tripla B, appunto). Il vero problema è legato ai fondi di investimento che di regola non possono detenere titoli junk. Una retrocessione, in altre parole, scatenerebbe un’ondata di vendite sui Btp producendo un rialzo dei rendimenti (e dello spread) sul mercato. E a quel punto, nonostante la Bce, la situazione potrebbe diventare davvero insostenibile. Potremmo trovarci in una crisi simile a quella del 2011, se non peggiore.

Ed è così che sullo scenario economico e politico sorgono delle proposte fantasiose, spesso provenienti dalle file della sinistra riformista. Un’idea l’ha lanciata in Spagna, il governo di coalizione Psoe-Unidas Podemos: istituire un fondo continentale da 1,5 trilioni di euro, il triplo di quanto previsto finora dall’Eurogruppo, da finanziare con titoli perpetual. Di che si tratta? Essenzialmente di bond che non scadono mai, ovvero non rimborsabili. Si comprano e si rivendono sul mercato secondario senza arrivare mai a una conclusione e, nel frattempo, si incassano gli interessi. È come comprare una casa senza poterci mai abitare. Una proposta che non ha alcuna possibilità di ottenere il varo dalla Commissione europea.

Così come l’idea strampalata di Ferrero, ex segretario di Rifondazione comunista, di fare dei bond europei a tasso negativo che nel corso degli anni finiscono con l’azzerarsi e con i quali pagare le politiche sociali. I riformisti vivono ormai nel mondo dei sogni, ma chi investe denari ha altre idee, vuole fare profitti, e poco gli importa se milioni di persone possono morire per colpa del virus o finiscono sul lastrico perché perdono il posto di lavoro.

Ma se queste ipotesi rappresentano delle vere e proprie fantasie, iniziano a materializzarsi degli scenari che un tempo sarebbero stati impensabili. Pensieri ai confini della realtà, per così dire, con la Bce nel ruolo di protagonista. La Banca centrale europea, citando i verbali dell’ultima riunione di Francoforte, potrebbe come visto estendere il programma di acquisti alle obbligazioni spazzatura. Ma se così fosse non sarebbe un caso isolato: la Fed, ha già iniziato ad acquistare i cosiddetti fallen angels, ex titoli investment grade (semplificando, quelli più sicuri) appena retrocessi in area junk dopo l’ultimo declassamento da parte delle agenzie di rating. Nel mondo, ci sono oltre 3 trilioni di dollari di bond spazzatura emessi dalle imprese non finanziarie. Metà dei titoli investment (circa 5 trilioni) ha un rating BBB.

La borghesia internazionale pur di salvare il sistema inizia a giocare con il fuoco. Evitare fallimenti e chiusure di aziende e banche che hanno nelle loro pance delle vere e proprie voragini finanziarie non è una buona idea neanche da un punto di vista capitalista. Significa che da un momento all’altro tutto l’edificio può venir giù all’improvviso senza avere gli strumenti per fermare il tracollo inevitabile. Nel settembre del 2008 fecero fallire la Lehman Brothers e ce n’erano molte altre che dovevano portare i libri in tribunale.

Ricordiamolo questo passaggio storico perché è interessante.

Il presidente della Federal Reserve dell’epoca, Ben Bernanke, era convinto che Lehman avesse un buco di bilancio clamoroso. E come lui la pensavano, e non erano persone da poco per un eventuale salvataggio di Lehman, il presidente della Federal Reserve di New York, Timothy Geithner, il segretario del Tesoro, Henry Paulson, e il presidente della Sec, l’Autorità che vigila sui mercati Usa, Christopher Cox. I massimi esponenti dell’economia e della finanza a stelle e strisce erano uniti nel sostenere che si trattasse di un buco davvero grande: “Lehman non è solo a corto di liquidità, ma è addirittura insolvente”, sostenne Bernanke davanti alla commissione di inchiesta.

Alla fine prevalse la loro linea, ovvero che quel buco fosse troppo grande per essere coperto. Nessuno acquistò Lehman e non si trovò nemmeno un accordo per salvarla. Il 15 settembre Lehman Brothers portò i libri in tribunale, mentre fu predisposto un piano per salvare le altre banche d’affari Usa. Il 14 settembre, un giorno prima del fallimento, Bank of America fu dirottata ad acquistare Merrill Lynch, indicata come la prossima vittima dopo Lehman. Il 22 settembre, invece, la Fed permise a Morgan Stanley e Goldman Sachs di trasformarsi in banche commerciali, con la possibilità quindi di accedere alla liquidità erogata dalla stessa Fed, una possibilità che a Lehman Brothers fu negata. Nel giro di un week end di fatto sparirono tutte la banche d’affari Usa. Fu Geithner della Fed di New York a dire a Fuld che nemmeno la trasformazione della banca avrebbe risolto “i problemi di liquidità e di capitale”.

Anche lo Stato, che una settimana prima, il 7 settembre, aveva nazionalizzato Fannie Mae e Freddie Mac, i due colossi del credito immobiliare crollati sotto i colpi dei mutui subprime, e che il giorno dopo il fallimento di Lehman decise di investire 85 miliardi di dollari per salvare dalla bancarotta il colosso assicurativo Aig, non volle sobbarcarsi l’onere di salvare la banca d’affari, perché, come Bernanke spiegò alla commissione di inchiesta, se anche il Tesoro avesse messo i fondi, Lehman sarebbe fallita lo stesso. In realtà fu una decisione politica, per salvare Lehman sarebbero bastati meno della metà dei soldi che furono necessari per Aig.

In pratica quello che avvenne è che se ne fece fallire una salvando tutte le altre (la Fed cacciò sull’unghia 850 miliardi di dollari, con il consenso di Paulson (Ministro del tesoro dell’amministrazione Bush).

Il governo Usa in grande imbarazzo per giustificare quel gigantesco sperpero di denaro pubblico davanti al congresso e soprattutto al popolo americano decise di: “Sacrificarne una per salvarne cento”, ma la realtà è che tutto il sistema tossico è ripreso esattamente come prima e la situazione debitoria oggi è molto più grave rispetto al 2008. C’è un film che andrebbe proiettato in ogni scuola del pianeta che racconta con efficacia ciò che avvenne: “Too big to fail. Il crollo dei giganti”.

Il problema è di fondo, è di sistema. La crisi come spiegato da Marx è una crisi di sovrapproduzione, che i capitalisti hanno “aggirato” attraverso un’espansione creditizia che non ha precedenti nella storia e si è tramutata in una crisi finanziaria e dei debiti sovrani senza precedenti. L’unico modo per risolverla in positivo è cancellando i debiti degli Stati e lasciar fallire tutte quelle banche e fondi di investimento che possiedono titoli di Stato.

Questa è una strada che la classe dominante non potrà mai intraprendere. Da qui traiamo la conclusione che siamo di fronte a un sistema irriformabile che deve essere abbattuto dalla classe lavoratrice, per lasciare il passo ad una società governata dai bisogni e non dai profitti facili per un pugno di capitalisti a discapito della popolazione mondiale.

 

I nuovi rapporti internazionali: Cina e Usa

Lo scontro tra Cina e Usa ha avuto l’effetto di indebolire i possibili sbocchi di una futura ripresa economica, in generale in Europa ma particolarmente in Italia.

Il Dragone ha attraversato forti difficoltà legate alla crescita del debito e l’esplosione di una bolla finanziaria e immobiliare, ma nello scontro internazionale può provare ad attenuare le sue contraddizioni attraverso tre fattori che potrebbero avvantaggiarlo nella competizione globale, particolarmente nei confronti dell’Europa.

Il primo è che il coronavirus scateni una ondata di lotta di classe e mobilitazioni dal carattere dirompente nel vecchio continente, così come già avviene negli Usa, una prospettiva che allo stato dei fatti diventa sempre più plausibile. Si è accumulata un’enorme rabbia per la gestione dell’emergenza sanitaria da parte dei governi e questa è destinata ad aumentare.

Il conflitto sociale oltre ad avere conseguenze sul piano politico destabilizzando i governi in carica, abbasserebbe la competitività delle aziende europee, rendendo inapplicabili le necessarie politiche di austerità da parte degli esecutivi.

La soluzione migliore dal punto di vista del capitale, per prevenire un simile scenario, da un punto di vista teorico sarebbe quella di promuovere governi di unità nazionale che stipulino un patto sociale con i sindacati, ma un’ipotesi del genere almeno in Italia è stata già usata nel 2011 ed è molto rischiosa, sia perché le burocrazie sindacali hanno scarsissima autorità tra i lavoratori, sia per la indisponibilità della Lega e di Fratelli d’Italia a un’ipotesi del genere. A destra solo Berlusconi è reclutabile a questa prospettiva. Ma rispetto al 2011 ha perso molti dei suoi consensi. Si tratta dunque di uno scenario piuttosto improbabile. La proposta di un governo Draghi rischia di rimanere nel libro dei sogni della classe dominante.

La seconda condizione, che potrebbe favorire la Cina, è che la Russia colga l’occasione dell’indebolimento dell’Europa per rafforzare le proprie sfere d’influenza, Ucraina inclusa. Così come è avvenuto in Siria. Un simile scenario sottoporrebbe l’Europa a una tensione critica non indifferente. E le toglierebbe dei mercati di investimento, soprattutto per quanto riguarda la Germania.

La terza condizione, la più grave, è che l’Unione europea, nonostante le misure tese ad attenuare la crisi, si sfaldi comunque sotto il peso delle sue contraddizioni: un’Europa di piccoli Stati, tutti piccoli rispetto alla Cina, sarebbe facilmente fagocitabile dal colosso asiatico.

“Senza un mercato interno forte, l’Unione europea rischia di diventare la prossima preda della Cina”, ha dichiarato sul Financial Times, Margareth Vestager, vice presidente della Commissione Ue alla concorrenza. La linea che si fa avanti dalla Commissione è che si rafforzino le fusioni tra aziende europee per fermare le acquisizioni cinesi.

Le statistiche dicono che sono 168 i gruppi cinesi che hanno investito in Italia, per un totale di 12,8 miliardi di euro. Le partecipazioni sopra il 10% riguardano 398 imprese, con 12,7 miliardi di fatturato. Nel 90% dei casi in cui una società è partecipata dai cinesi, il controllo è passato a questi ultimi.

L’elenco delle aziende partecipate comprende nomi noti: Telecom, Enel, Generali, Terna, Ansaldo Energia, Cdp Reti, Berio, Krizia, Esaote. L’investimento maggiore è stato sulla Pirelli, di cui il gigante China National Chemical ha acquisito la quota di controllo per 7,3 miliardi di euro.

Il timore della Commissione Ue è che accada in Italia quello che si è visto in Grecia, dove i cinesi hanno acquistato pezzi pregiati del paese (a partire dal porto del Pireo) o in Portogallo dove addirittura è arrivata la prima emissione obbligazionaria denominata in yuan da parte di un governo europeo. I cosiddetti “panda bond” rappresentano oggettivamente un salto di qualità.

Secondo il Sole 24 Ore “il Portogallo, al pari della Grecia, è uno dei Paesi in cui la presenza degli investitori cinesi è cresciuta molto in questi anni”.

Quando lo scorso anno Xi Jin Ping venne in Italia, il governo giallo-verde sottoscrisse numerosi accordi commerciali che favorivano la penetrazione del capitale cinese nel nostro paese, dal controllo dei principali porti, all’entrata nelle banche e nei consigli di amministrazione delle grandi imprese. Questa politica era già iniziata con i governi Renzi e Gentiloni ed è destinata a continuare, per una ragione molto semplice, la grande quantità di capitali di cui dispongono le aziende cinesi, dietro cui c’è il governo di Pechino.

Da un punto di vista economico l’Eurozona si caratterizza nell’ultimo decennio per un basso tasso di investimento (19,1% del Pil), contrariamente alla Cina che ha mantenuto un tasso del 41,3%. Nel 2019 il contesto europeo si è caratterizzato per scarsa capacità tecnologica: rispetto ai colossi Usa e Cina, l’Ue è fuori sul digitale, sull’intelligenza artificiale, nella guida autonoma, nella gestione dei big data, nelle piattaforme social e anche nell’auto elettrica.

Contrariamente, la Cina in questi dieci anni ha avuto risultati sorprendenti e ormai è alla testa mondiale dell’innovazione tecnologica, di cui il 5G rappresenta solo l’esempio più lampante.

A partire dal febbraio 2019 l’asse franco-tedesco, con la firma del Trattato di Acquisgrana, ha deciso una strategia “dell’arrocco”: il Ministro dell’economia tedesco Altmaier e quello francese Le Maire si sono uniti per un’unica voce nella politica industriale europea.

La stessa Commissione, guidata dalla tedesca Von der Layen, ha deciso di investire nei prossimi dieci anni 1.000 miliardi di euro in politiche industriali “green”. C’è da dire che l’apparato burocratico di Bruxelles è dominato da funzionari tedeschi, quindi i desiderata della Commissione e del Consiglio europeo riflettono i desiderata della politica tedesca, a cui si unisce la Francia, come secondo partner. Queste politiche a partire dalla Green new deal (Gnd) sono una grande illusione per i settori riformisti non migliorando la lotta alla decarbonizzazione e all’uscita dal fossile. Attraverso politiche di greenwashing la Gnd andrà nella direzione di un maggiore utilizzo di gas naturale per la produzione di idrogeno. Il mercato degli idrocarburi giocherà ancora un ruolo fondamentale per i prossimi anni aumentando le tensioni geopolitiche e le crisi di sovrapproduzione energetica tra i principali paesi produttori.

In fondo gli interessi imperialisti tra i due principali paesi dell’Ue sono molto meno conflittuali rispetto al passato. Hanno più da guadagnare mantenendosi uniti che scontrandosi. I principali rivali sono altri.

Sulla tecnologia la Cina è vista come un “competitor” e per quanto riguarda i differenti modelli di governance addirittura come “rival sistemic”. Un rivale strategico.

Se andiamo poi a scoprire cosa ne pensa la Bdi, l’associazione degli industriali tedeschi, il Cai (accordo Ue-Cina sugli investimenti) è visto come “top priority”, ma al contempo si giudica la Cina come “a sistemic competitor” sulla tecnologia. In una parola, la temono ma ne hanno bisogno, il che implica che alla lunga la Cina avrà un potere sempre più performante nell’economia europea, con tutte le conseguenze politiche e sociali che questo comporta.

Al pari degli americani, gli europei vorrebbero lo smantellamento dell’apparato pubblico cinese, la cui economia di scala e l’innovazione tecnologica, unita ad una potenza di fuoco data dal bilancio pubblico, non permette agli europei, e agli americani, di fronteggiare le miracolanti innovazioni tecnologiche cinesi.

Cosa farà la Cina? Firmerà un accordo con l’Ue sugli investimenti estremamente generico, per instaurare subito dopo dei rapporti bilaterali sugli investimenti con i diversi paesi europei che riflettano la strategia One Belt One Road (via della Seta), in particolare sui paesi del Mediterraneo, molto più propensi all’apertura con la Cina, e i paesi dell’Europa orientale (16+1), in modo da sviare l’“arrocco franco-tedesco”.

La partita per l’Ue è già persa e anche questo deporrà a favore di una ripresa del conflitto di classe nel vecchio continente.

Per quanto riguarda le relazioni degli Usa con l’Ue, si è visto come Trump ha puntato tutto sull’asse con Londra. Il sostegno della Casa Bianca al divorzio del Regno Unito dall’Unione europea è evidente, così come è evidente il significato di questo supporto: l’Unione europea è considerata ormai un moltiplicatore di potenza della Germania.

Per indebolire l’asse franco-tedesco Trump non poteva che iniziare dal Regno Unito, che con la Brexit ha avviato la prima grande frattura interna all’Unione europea. Il maggiore alleato degli Stati Uniti in Europa, nella Nato e all’interno dell’Unione europea, che decide di uscire dall’Ue e sfidare apertamente il mercato tedesco. Un’azione troppo ghiotta per Trump, che non a caso ha benedetto Boris Johnson come futuro premier e ha dato pieno sostegno a Nigel Farage e al suo movimento. Ma non va neanche dimenticato come sia stato proprio il presidente Usa a voler confermare a ogni costo il desiderio di firmare un grande accordo commerciale con Londra non appena si concluderà la Brexit. Anche in questo, si vede chiaramente la logica trumpiana (e in generale la strategia Usa degli ultimi anni) per l’Europa: accordi con i singoli Stati, evitare un rafforzamento dell’Ue che vede al centro la Germania, contrarietà alla logica multilaterale.

Stesse idee che animano la volontà di Trump nei confronti dell’Italia, che però ha una forza e una visione diversa rispetto al Regno Unito. Mentre Londra ha sempre considerato quello con l’Unione europea un matrimonio di convenienza, la posizione dell’Italia è sempre stata diversa. La classe dominante italiana è storicamente europeista. I due principali partiti di governo degli ultimi 25 anni in Italia (Pd e Forza Italia), e i loro partiti di riferimento in Europa (Ppe e Pse) non hanno mai abbandonato la loro convinta adesione all’Unione europea. L’appartenenza dell’Italia all’euro, a tutti gli accordi dell’Unione, il coinvolgimento nella Difesa europea, hanno sempre confermato una maggiore difficoltà per Washington di considerare Roma come una spina nel fianco dell’Europa a trazione franco-tedesca.

Ma l’ascesa di forze critiche verso il sistema Ue, esplosa con le elezioni del 2018 (Lega, M5S), ha fatto sì che alla Casa Bianca tornasse in auge la vicinanza con Palazzo Chigi. Vicinanza che a volte appare traballante (come dimostrato dalla tensione causata dall’adesione italiana alla Nuova Via della Seta) ma che rimane sostanzialmente immutata. L’Italia è pienamente inserita nel contesto Nato, ha le truppe Usa sul suo territorio e intrattiene rapporti molto cordiali con l’attuale amministrazione americana.

Questo spiega il sostegno dato da Trump a “Giuseppi Conte”, anche quando questi ha rotto con la Lega e ha formato un governo con il Pd. Naturalmente Trump considera la Lega di Matteo Salvini il perfetto alleato per la sua sfida all’asse tra Berlino e Parigi. Ma pragmaticamente una volta che questi è uscito dall’area di governo ha puntato sul contrappeso significativo dei M5S nei confronti della linea filo-europeista del gruppo dirigente del Pd.

L’idea di Trump è chiara: per colpire la supremazia tedesca in Europa e l’Unione europea come blocco monolitico ha bisogno di teste di ponte. Londra e Roma, per motivi diversi, sono i due vertici su cui costruire questo triangolo con Washington che, per completare questo “assedio”, può sperare di aprire anche un terzo fronte: l’Europa di Visegrad. L’Europa orientale appare come un’area a cavallo fra influenza tedesca e confine russo. In questa terra di mezzo, gli Usa sono presenti con le truppe della Nato e con i sistemi di difesa, ma dal punto di vista politico, i governi di Budapest, Varsavia, Praga e Bratislava sono in bilico fra l’asse inevitabile con l’industria di Berlino e la piena adesione all’Alleanza atlantica in chiave anti russa. Trump li sta mettendo sotto pressione, e lo dimostra il fatto che i Paesi dell’Est hanno iniziato a comprare a man bassa gas liquefatto americano per accontentare i desiderata della Casa Bianca.

Ma è chiaro che da un punto di vista politico, la partita è molto complessa: i Paesi orientali non possono abbandonare la Germania, ma possono abbandonare l’asse franco-tedesco incuneandosi come potenziale spina nel fianco. E Viktor Orban, in questo senso, è già stato chiaro. Esiste una possibile convergenza tra i cosiddetti “frugali” e i paesi dell’Europa dell’Est, anche se questi possono contrattare, tirare la corda, ma mai rompere con la Germania, che da questo punto di vista ha il coltello dalla parte del manico.

Per quanto Trump abbia le truppe della Nato dispiegate in tutta Europa, con investimenti di aziende Usa che sono 6 volte superiori a quelli della Cina e una relazione storica con i governi europei, la Cina possiede oggettivamente un potere di condizionamento crescente sull’Ue, mentre quello degli Usa è in netto calo.

Trump ha tutto l’interesse a puntare su personaggi come Salvini, che però dall’opposizione servono a poco. Così come servono a poco Le Pen e Weidel (leader dell’Afd). L’ondata antieuropeista e sovranista che sembrava in forte ascesa dopo i fatti di Grecia, si è attenuata tra la fine del 2018 e la primavera del 2019 e alle elezioni europee, nonostante il successo di Lega e Fn non c’è stato lo tsunami sovranista.

Le forze europeiste (Ppe, Pse, verdi e liberali) sono ben insediate al governo e tutti i recenti sondaggi fatti nella popolazione vedono una riduzione significativa dei sentimenti antieuropei. Il Covid e il Recovery fund hanno ulteriormente rafforzato questa tendenza, così come hanno fortemente limitato i sentimenti razzisti.

La Cina ha giocato molto bene la partita propagandistica del Covid sul piano internazionale, con gli aiuti all’Italia e ad altri paesi, molto ben pubblicizzati. Lo stesso non si può dire di Trump che ha avuto una gestione disastrosa della pandemia, sia in casa propria che sul piano internazionale. L’elezione di Biden e la sconfitta di Trump non cambia i rapporti di tensione e guerra commerciale tra Usa e Cina. la nuova amministrazione americana aumenterà la lotta per la leadership mondiale tra le due potenze, a partire da settori chiave come tecnologie e infrastrutture per il cambiamento climatico. La proposta di Biden di stanziare 1.700 miliardi di dollari in politiche di ‘green economy’, anche attraverso la speculazione finanziaria, va proprio in questa direzione, aumentando anche le contraddizioni tra Cina e UE.

 

Adesione del quadro politico agli interessi della classe dominante?

Di fronte a tutto questo come reagirà la classe dominante qui in Italia? Con l’elezione plebiscitaria di Bonomi, alla presidenza di Confindustria, sembrano aver scelto una linea aggressiva anti-operaia e di forte critica al quadro politico esistente. Come detto da vari commentatori, la Confindustria si fa partito, non potendo contare su riferimenti credibili in parlamento.

E infatti non è passata inosservata la freddezza con cui i politici sono stati accolti al Forum Ambrosetti di Cernobbio. Gli applausi “spenti” per Conte e Salvini nulla hanno a che fare con il calore che è stato riservato in passato a premier come Berlusconi o Mario Monti nella stessa occasione. Tra i commenti raccolti nella platea, da più parti è stata evocata la figura di Mario Draghi, che viene visto come una “manna dal cielo” ma anche come una “chimera” difficilmente raggiungibile (“‘Sarebbe una manna dal cielo, Cernobbio fa il tifo per Draghi”, La Stampa, 7 settembre 2020).

Si considera infatti improbabile che Draghi abbia “interesse a infilarsi in una situazione del genere, a dipendere da una maggioranza espressa da questo parlamento(…) Né con questa maggioranza, né con l’unità nazionale” e c’è anche chi pensa che “Draghi non basta” e che “bisogna fare i conti con la situazione strutturale del paese” (“Applausi spenti per il premier a Cernobbio, gli imprenditori freddi con i politici”, Il Corriere della sera, 7 settembre 2020). Impressioni che ben esprimono il sentimento di una classe dominante che si sente “orfana” di riferimenti politici.

Non possiamo avere una rigida visione del rapporto tra struttura economica e sovrastruttura politica. Sia in Italia, che a livello internazionale, assistiamo da anni a un parziale distacco dei partiti dagli interessi della classe dominante e viceversa. È un sintomo della profonda crisi del sistema capitalista.

Questo non significa che questi partiti siano diventati anticapitalisti, o che sia cambiata la loro natura di classe (che in ultima analisi risponde agli interessi della classe dominante, ma solo in ultima analisi) ma semplicemente che i loro interessi particolari vengono messi troppo spesso al di sopra degli interessi generali della classe di riferimento.

Ma soprattutto che non esiste una visione strategica di lungo periodo, tutto è ridotto a manovre di piccolo cabotaggio per mantenersi al potere. La borghesia è estremamente frustrata da tutto questo, anche se dal suo punto di vista agisce più o meno allo stesso modo.

È come la storiella del prete, che predica bene per razzolare male.

Questo è stato vero con il governo giallo-verde e per ragioni diverse è ancora più vero con il Conte-bis. La classe dominante non può contare sul governo come ha potuto fare in passato con Monti, ma tutto sommato anche con Letta, Renzi e Gentiloni.

Conte è un parvenu, il Pd non è più lo stesso partito dopo l’uscita di Renzi, e il nuovo partito (Italia viva) è troppo piccolo per svolgere un ruolo significativo, così come Forza Italia che è diventata la più piccola delle forze della destra italiana.

 

Lega, FdI e il bonapartismo

L’egemonia a destra è ormai contesa da due forze apertamente populiste, con una forte demagogia anti-sistema. La Meloni, che fa queste arringhe indiavolate contro gli immigrati, e che a parole sembra scavalcare a destra Salvini, in realtà nonostante la provenienza apertamente fascista è molto più “politica” di Salvini e per certi aspetti intelligente. Lo dimostra il fatto che sulla questione del Recovery fund si è svincolata dalla posizione intransigente di Salvini, mostrandosi possibilista.

Tuttavia se vuole continuare la contesa egemonica a destra è sul vento del populismo, della xenofobia, del sovranismo esasperato che deve continuare a soffiare. La corsa per conquistare l’elettorato di destra, sempre più radicalizzato, si gioca su quel terreno.

Per anni abbiamo ipotizzato nei nostri documenti di prospettive la nascita di un partito bonapartista di destra, sul modello del Fn francese. Pensavamo che a costruirlo sarebbe stato Fini, ma alla fine le scelte liberali di Fini (che lo hanno fatto sparire dal panorama politico) hanno prodotto un ritardo che è stato raccolto (dieci anni più tardi) prima da Salvini e ora dalla Meloni. Quest’ultima, per la sua traiettoria politica, ha le carte molto più in regola del suo compare di coalizione.

Come spiega Marx nel 18 Brumaio, nelle epoche di forte crisi sociale si manifesta una tendenza da parte delle forze politiche ad elevarsi al di sopra degli interessi della classe dominante. Questo fenomeno si chiama bonapartismo. E come tali vanno considerate la Lega e Fratelli d’Italia, forze che in questo momento rappresentano quasi il 40% dell’elettorato italiano.

Con il concetto di bonapartismo Marx intende una rottura all’interno di un sistema di democrazia borghese, determinata dalla condotta indipendente di organi dello Stato che, con l’emersione di figure carismatiche, approfondiscono le torsioni autoritarie dell’ordinamento e la distanza dalla classe sociale di riferimento.

La personalizzazione del potere per Marx non evoca dunque la comparsa di leader dalle qualità eccezionali. Anzi, la caduta dei regimi liberali avviene a seguito di manovre e volontà di potenza che vedono l’agitazione di personaggi “mediocri e grotteschi”. Entro processi di crisi del regime, spiega Marx, i “popoli lasciano stordire la loro paura segreta da coloro che gridano più forte”. La demagogia, la semplificazione dell’argomentazione diventano dei veicoli politici contro cui urtano le deboli frasi del riformismo, incapace di mobilitare interessi in una lotta politica di massa. Solo una politica rivoluzionaria può sconfiggere il bonapartismo in un contesto di forte crisi politica, sociale ed economica, quando emerge la disperazione dei ceti medi e delle classi lavoratrici.

Nella crisi della rappresentanza sociale, con l’allontanamento dei partiti dalle loro origini di classe (sia nel campo borghese che in quello proletario), affiorano candidature pseudo-carismatiche. La crisi di regime attribuisce un fascino, altrimenti ingiustificato, a personaggi che procedono verso il potere grazie a semplificazioni, scorciatoie, rotture simboliche, simulazioni di decisione, esibizioni di energia.

Un politico mediocre, che Marx dipinge come un semplice “replicante, un surrogato di Napoleone”, conquista il potere perché il degrado della repubblica si era spinto così in avanti che con poco sforzo un leader sleale poteva spezzare il filo fragile della costituzione. Marx lo spiega con efficacia: “Era sufficiente un colpo di baionetta perché la vescica scoppiasse e il mostro apparisse agli occhi di tutti”.

Incapaci di comprendere i processi reali, e di avere una connessione con la massa, i riformisti e i democratici liberali non riescono a mobilitare le forze sociali.

Naturalmente il parallelo tra Salvini (e Meloni) con Luigi Bonaparte finisce qui, in quanto la crisi della democrazia borghese non ha ancora condotto alla formazione di un regime bonapartista compiuto. Intanto perché Salvini e Meloni sono ancora all’opposizione ma soprattutto perché non si è registrata alcuna sconfitta storica del movimento operaio come quella del 1848-49, che permise a Napoleone III di consolidare il suo potere.

Esistono in Italia solo elementi di bonapartismo (così come in altri paesi) ma non un bonapartismo compiuto, la politica di queste due formazioni (Lega e Fratelli d’Italia), non si propone e non è in grado di mobilitare le masse. È unicamente finalizzata alla conquista del consenso elettorale, per cui si tratta di un bonapartismo oggettivamente debole, che non è in grado di incidere profondamente sulla sovrastruttura politica, e che una volta giunto al governo si piegherebbe con ogni probabilità alle pressioni della classe dominante e delle sue istituzioni internazionali.

Dobbiamo essere chiari pero’ sul periodo storico in cui siamo entrati, che avrà un carattere prolungato e dipende fondamentalmente da due fattori: i rapporti di forza tra le classi a livello internazionale (mai prima nella storia del capitalismo cosi’ favorevoli alla classe lavoratrice e alle forze rivoluzionarie) e il carattere iniziale del processo di risveglio della lotta di classe. Da questi due fattori dipende la nostra prospettiva per il bonapartismo. Sconfitte parziali, anche severe come quella maturata in Grecia grazie al tradimento di Tsipras nel 2015, hanno rivelato che la classe dominante e’ costretta a basarsi sulla collaborazione o la passività delle burocrazie del movimento operaio per portare avanti politiche di austerità e per far passare misure autoritarie (limitazioni al diritto di sciopero, ecc). Tutti i governi hanno in un modo o nell’altro accentuato la propria tendenza ad operare in deroga parziale alle regole consolidate della democrazia borghese e in alcuni casi anche in conflitto con settori della classe dominante, in particolare nel periodo apertosi con l’avvento della pandemia da Covid19, ma il margine di manovra per l’affermarsi di vere e proprie tendenze bonapartiste e’ estremamente limitato e ogni passo in questa direzione e’ destinato a provocare una intensificazione della lotta di classe. Abbiamo spesso ripetuto il concetto che nella presente epoca di crisi capitalista si vedono lo sviluppo in parallelo di tendenze rivoluzionarie e reazionarie, ma le prime tenderanno a prevalere per un periodo prolungato. Le sconfitte parziali che vedremo in questo periodo giocheranno un ruolo fondamentale nel processo di presa di coscienza di massa e di radicalizzazione della lotta di classe.

Per quanto possano entrare in conflitto con gli interessi della classe dominante le forze bonapartiste non perdono la loro natura borghese; particolarmente al Nord la Lega ha profondi rapporti con la borghesia.

Anche se matura una divisione, accentuata dalle recenti difficoltà di Salvini, tra un settore più legato alla borghesia (di cui Zaia e Giorgetti sono i principali rappresentanti) e un settore più classicamente bonapartista, che civetta a destra con le forze neofasciste (guidato da Salvini). L’unica anima del partito che non è destinata a svolgere un ruolo significativo, sono i “secessionisti” nostalgici di Bossi e della Padania. Esistono ma non hanno alcuna possibilità di affermarsi. Il carattere nazionale della Lega (una conquista che oggettivamente è riuscita a Salvini) e il suo carattere lepenista è un salto qualitativo a cui quel partito non rinuncerà per nessuna ragione al mondo.

Sono pertanto da mettere in conto delle scissioni, di dimensioni presumibilmente ridotte, dal carattere secessionista.

 

Centrosinistra e M5S allo sbando

Ma anche guardando al campo del centro-sinistra non è che ci sia molto da sorridere per la classe dominante.

Per anni il Pd è stato il principale partito della borghesia italiana, ma la scissione di Renzi ha privato quel partito di 3 delle 6 correnti apertamente borghesi che ne facevano parte con un obiettivo rafforzamento del settore socialdemocratico la cui azione è solo temporaneamente congelata dall’entrata del partito nel Conte-Bis.

Resta il fatto che lo scontro con l’apparato della Cgil si è sostanzialmente rimarginato, così come la rottura con Speranza e Bersani, che non a caso sono stati premiati per la loro fedeltà, con un posto nel governo. I differenti ruoli e soprattutto la condizione oggettiva apriranno inevitabilmente nuove contraddizioni tra il Pd e l’apparato della Cgil, che sarà spinto suo malgrado anche sul terreno della mobilitazione. Persino uno sciopero generale non può essere escluso nella prossima fase. Tuttavia manca, rispetto alla fase di Renzi, la volontà soggettiva di arrivare a una rottura e alla emarginazione della burocrazia sindacale da ogni processo decisionale.

Il Pd oggi, pur facendosi bastione delle politiche europee (come tutte le forze socialdemocratiche in Europa, senza eccezione alcuna) ed esprimendo il Ministro all’economia sia in Europa (Gentiloni) che in Italia (Gualtieri), non ha una linea che coincide con quella di Confindustria, ma tenta di conciliare lo scontro di classe attraverso una nuova concertazione, basata sull’accumulazione di nuovi debiti e un patto sociale con i sindacati. Una linea in fondo condivisa anche dalla Ministra al lavoro Catalfo e da una parte preponderante dei Cinque Stelle.

Questi ultimi hanno solo temporaneamente arginato la loro crisi e le loro divisioni interne. Continuano ad avere un commissario, Crimi, che non ha alcuna autorità, e a perdere pezzi a destra e a sinistra. Clamorosa l’espulsione della deputata Nugnes che ha aderito al gruppo misto e come indipendente a Rifondazione comunista. Questa emorragia di parlamentari sta mettendo a rischio la maggioranza del Conte-bis al Senato, ormai appesa a un filo.

I Cinque Stelle rappresentano una forza troppo giovane e troppo instabile, soggetta a sbandate di ogni tipo, senza un personale politico affidabile, perché la borghesia possa fare su di essa un qualche tipo di affidamento. Casaleggio jr. ha perso la sua influenza nel movimento, così come sembra averla persa Grillo che è sempre meno in grado di mantenere uniti i pentastellati.

Non a caso Conte tenta di emanciparsi e gioca sempre più una partita in proprio. Ha sfruttato la pandemia e lo stato d’emergenza per puntellare la sua immagine e quella del governo, questo ha contribuito a bloccare l’emorragia di voti delle forze di governo (particolarmente del M5S), aiutato in questo dalla inadeguatezza di Salvini, che nel corso della pandemia ha detto tutto e il contrario di tutto riuscendo a far perdere alla Lega nel giro di un anno 14 punti percentuali (dal 38 al 24%), per due terzi raccolti dalla Meloni.

Ma il processo di crisi del M5S è solo temporaneamente interrotto. Nel movimento continua ad esserci una forte divisione e iniziano a configurarsi delle vere e proprie correnti. C’è stata a destra la scissione di Paragone, Di Battista capeggia la fronda di coloro che strizzano l’occhio a destra, mentre a sinistra c’è un settore (guidato da Fico e Fioramonti) che guarda ad un accordo stabile con il Pd e Sinistra italiana, che però alle regionali non si è realizzato.

La prospettiva che il partito possa rompersi in mille pezzi è insita nella situazione. Ma per far cadere il governo basta molto meno. È sufficiente che 3 o 4 senatori del M5S cambino casacca nei prossimi mesi. Le sorti del governo nonostante il “successo” del Recovery fund sono comunque appese a un filo.

Se il governo dovesse cadere il problema sono le possibili alternative. L’unica forza disponibile ad entrare nella maggioranza potrebbe essere Forza Italia, ma questo difficilmente sarebbe accettato dai 5 Stelle e da Sinistra italiana senza colpo ferire, e di certo non potrebbe essere Conte il premier, ma piuttosto Draghi. Uno scenario del genere può prodursi solo a fronte di una crisi economica che sfugge dal controllo, con un’impennata dello spread e il rischio di default per l’Italia.

Non è l’ipotesi più probabile visto la quantità di denari che la Bce e la Commissione europea stanno buttando nel calderone per lubrificare l’economia.

Una radicalizzazione dello scontro di classe avrebbe l’effetto di acuire le contraddizioni interne al governo, un settore rafforzerebbe le sue tendenze socialdemocratiche e la linea delle concessioni, un altro subirebbe le pressioni della borghesia. A quel punto il governo potrebbe cadere da destra per la fuoriuscita di Italia viva, anche se Renzi ci penserà mille volte prima di interrompere la legislatura, sapendo che ha pochissime, se non nulle, possibilità di essere rieletto nel parlamento successivo, visto le percentuali patetiche di cui gode nei sondaggi.

Il governo nonostante le contraddizioni al suo interno potrebbe anche farcela a navigare a vista fino al semestre bianco (elezione del presidente della Repubblica), soprattutto se non venisse debellato il Covid e ci fosse un’ondata di ritorno. A nessuno sfugge ormai che il virus è diventato un fattore di primaria importanza nelle prospettive, come dimostra la brutta fine che stanno facendo tutti quelli che hanno gestito male la pandemia (Trump, Bolsonaro, Boris Johnson).

 

Elezioni: la spallata che non c’è

Il risultato delle elezioni regionali e della consultazione referendaria rafforza temporaneamente il governo e mette in difficoltà l’opposizione di destra.

È un voto fortemente condizionato dalla pandemia del Coronavirus e dalla sua gestione, che compatta fasce di elettorato attorno a chi si ritiene abbia governato bene l’emergenza, producendo plebisciti come quello per Zaia e De Luca.

Il consolidamento avviene tuttavia sulla base di un ribaltamento dei rapporti di forza tra il partito democratico e il M5S rispetto agli attuali equilibri parlamentari, oltre che dall’ulteriore crescita delle liste personali dei candidati governatori, che aumentano l’instabilità interna a partiti e coalizioni.

Il dato politico principale è testimoniato da una dichiarazione di Di Maio a poche ore dalla chiusura delle urne: “Lo schema a tre non ha funzionato. Dobbiamo tenere conto del fatto che dove siamo in coalizione spesso andiamo meglio nelle urne.” In altre parole, i 5 Stelle devono rendere organica l’alleanza col Pd, all’interno della quale cercheranno di presentarsi come l’anima “popolare”. La prospettiva del terzo polo è definitivamente tramontata.

Ogni ipotesi di ricostruire un centro politico ottiene dal voto un colpo devastante. Italia Viva realizza percentuali risibili dove si presentava da sola (0,6% in Veneto, 1,7 in Puglia) e non è determinante nemmeno per l’elezione di Giani in Toscana, dove raccoglie poco più del 4%.

A destra Salvini spara ancora un colpo a vuoto, dopo la crisi di governo dell’agosto 2019 e le regionali emiliano-romagnole. La Lega, rispetto alle Europee del 2019, dimezza i suoi voti (Veneto a parte): passa da 1.954.000 a 892.000 voti. In Toscana il Carroccio perde un terzo dei consensi, in Campania crolla dal 19,2 al 5,6%, in Puglia addirittura dal 25,3 al 9,6 %.

Buona parte dei voti di Salvini si sposta verso Fratelli d’Italia, che in Toscana cresce dal 4,9 al 13,5 e nelle Marche, unica regione strappata agli avversari, elegge il proprio candidato a governatore. Si tratta di una competizione sullo stesso terreno, quello del populismo e della demagogia antisistema, che dunque difficilmente potrà arrivare a una conciliazione, ma che alzerà costantemente il livello dello scontro fra i due “alleati”.

Salvini ha provato a ripetere in Toscana la strategia dell’Emilia, con una campagna elettorale iper presenzialista e una candidata improbabile che gli lasciasse tutto lo spazio mediatico. Il risultato è stato ancora peggiore e ora Salvini vede davanti a sé la prospettiva logorante di altri anni all’opposizione.

La crescita di Zaia, suo antagonista naturale, che pare per il momento inarrestabile, è un’altra fonte di preoccupazione, aggiungendo alla concorrenza dall’esterno di Giorgia Meloni un’insidia interna.

Non si traduce in un’aperta sfida alla leadership, intanto per una questione di tempi, e poi perché la classe dominante del nord (con la quale Zaia ha certo legami più stretti di Salvini) oggi non ha altra strada che fare la massima pressione sul governo Conte per ottenere tutto ciò che è possibile. Tuttavia lavoreranno ai ricambi futuri e tra questi il governatore del Veneto è una figura di rilievo.

Nello schieramento del centrodestra si apre dunque una stagione di guerriglia prolungata, da cui è difficile oggi capire chi uscirà vincitore e che rende meno immediato il pericolo di un governo Salvini. Questo tuttavia non significa che sotto il centrosinistra regnerà la pace sociale, anzi: proprio il ridimensionamento della destra lascia più spazio a mobilitazioni sociali anche contro questo governo.

A sinistra il risultato è ancora una volta disarmante. Giudizio valido sia per le forze alleate al Pd, che eleggono solo due consiglieri, in Liguria e in Veneto, sia per quelle al di fuori delle alleanze. In Toscana la lista attorno a Tommaso Fattori, che contava due eletti in regione, non entra in consiglio e dimezza i voti assoluti rispetto al 2015, nonostante il 15% in più di affluenza.

Quasi tutte le altre liste della sinistra “radicale” ottengono risultati che solo in rari casi, e a stento, superano quelli da prefisso telefonico. Potremmo definirle forze di testimonianza, che per di più testimoniano spesso un messaggio sbagliato. Un esempio ne è la campagna per il No al referendum (posizione che abbiamo condiviso) condotta con toni apocalittici a “difesa della Costituzione e del Parlamento” da tutti questi soggetti, da quello più moderato a quello radicale.

Era difficile essere più distanti dal sentire comune delle masse. Davanti a un quesito referendario che chiedeva il taglio dei parlamentari, seppure in maniera demagogica e funzionale alla sopravvivenza politica dei 5 Stelle, era inevitabile che vincesse il Sì. Tanti lavoratori lo hanno visto come un mezzo per esprimere il loro rifiuto del sistema.

Il Sì al referendum non significa il consolidamento di un blocco autoritario, né l’attuazione del piano golpista della P2 di Licio Gelli. Ha un carattere contraddittorio e del tutto transitorio.

Si inserisce nel quadro di estrema instabilità politica a cui assistiamo da 10-15 anni a questa parte. Forze politiche si gonfiano e ottengono vittorie strabilianti, come il Pd di Renzi nel 2014, i grillini alle ultime politiche o la Lega alle scorse europee, per poi sgonfiarsi altrettanto velocemente. Non abbiamo dubbi: ne nasceranno e ne periranno altre, alla stessa velocità. Ciò a causa del terremoto economico, politico e sociale che sta sconvolgendo l’Italia dal 2008-2009 a questa parte e che non ha alcuna intenzione placarsi, ma anzi prepara nuove, terribili, scosse.

Il governo Conte si è giovato dell’emergenza coronavirus per mantenersi al potere. Ma il consolidamento del governo non significa affatto il consolidamento della pace sociale.

 

La classe operaia non esiste più?

Le giornate di marzo hanno fatto riemergere con forza l’esistenza di un soggetto che troppi davano per scomparso: la classe operaia. Abbiamo trattato in maniera approfondita l’argomento nelle tesi alla Conferenza dei lavoratori di SCR e l’estrema importanza di queste mobilitazioni. Non ci pare il caso di ripeterci, vogliamo piuttosto analizzare la questione dal punto di vista del peso specifico della classe lavoratrice.

Nonostante i processi di ristrutturazione che hanno avuto corso in questi anni la classe lavoratrice è una classe più fondamentale che mai ed ha in Italia una forte componente industriale. Non a caso l’Italia può essere considerata ancora la seconda potenza industriale in Europa.

I dati sul valore della produzione industriale certificano, nel 2017, il sorpasso della Francia di un’incollatura: quasi 890 miliardi di euro contro 884 miliardi. Ma se si considera la questione da altri punti di vista, le cose cambiano.

Se guardiamo al valore aggiunto, i dati Eurostat per il 2017 confermano la seconda posizione dell’Italia, dietro alla Germania ma davanti alla Francia (257 miliardi contro 232 miliardi) e anche per il 2018 (263 miliardi contro 232 miliardi). Anzi, se guardiamo ai dati degli ultimi anni si nota come il divario tra Italia e Francia sia andato in crescendo costantemente negli ultimi cinque anni: nel 2013 era di appena tre miliardi (222 miliardi contro 219), nel 2018 superava i 30 miliardi.

Questo significa, come abbiamo visto, che nel 2017 la Francia produce e vende di più rispetto all’Italia, ma l’Italia “brucia” una parte inferiore di quel valore della produzione nei consumi della filiera industriale. Dunque, alla fine produce un valore aggiunto superiore.

Un altro dato è quello sul numero degli occupati. Sempre secondo Eurostat gli occupati nel settore manifatturiero in Francia nel 2018 sono pari a 2,56 milioni, cioè al 9,1% del totale degli occupati. In Italia lo stesso anno erano pari a 3,95 milioni, il 15,6% del totale degli occupati. Dunque gli occupati nell’industria sono significativamente di più nel nostro Paese rispetto ai transalpini, sia in termini assoluti che in percentuale.

Questo smentisce ogni tesi che punti a dimostrare lo scarso numero di mobilitazioni operaie rispetto alla Francia in virtù della maggior deindustrializzazione del nostro paese.

Questa relativa forza industriale del nostro paese ha ragioni fondamentalmente storiche. Il capitalismo italiano si è sviluppato grazie a una significativa partecipazione statale, con una forte propensione industriale, basata sui bassi salari. Non è un caso che l’Iri sia stata fondata nel 1933, in epoca fascista, sull’onda della crisi degli anni ’30. Da allora il ruolo dello Stato nell’economia è cresciuto a dismisura fino alla fine degli anni ‘70. Grazie allo Stato l’Italia è riuscita a colmare molti dei suoi ritardi e a diventare a un certo punto la quarta potenza industriale al mondo in termini assoluti (oggi è all’ottavo posto).

Si trattava di un’economia in cui il privato prosperava grazie alle infrastrutture che gli forniva lo Stato, che si caricava le attività economiche in perdita pur di permettere ai privati di fare incetta di profitti, su tutti la Fiat.

Il sistema organizzato da Enrico Cuccia, attraverso Mediobanca (e la regia politica della Democrazia cristiana) era un sistema che garantiva solide protezioni alle imprese private, ma che allo stesso tempo le metteva al riparo dalla concorrenza internazionale la quale, quando dagli anni ’90 ha potuto dispiegarsi liberamente, ha scalfito significativamente il Made in Italy, che è diventato sempre più succube del capitale straniero.

La lista delle aziende italiane acquisite negli ultimi 20 anni è molto lunga

e si tratta di aziende importanti in tutti i settori: dall’industria (Pirelli, Magneti Marelli, Lamborghini, Ducati. Merloni, Indesit, Ilva, Ferretti, Bulgari), ai trasporti (Fiat Ferroviaria, Tibb, Ansaldo, Breda), al settore alimentare (Bertolli, Galbani, Fiorucci, Carapelli, Motta, Alemagna, Eridania, Sma, Star), al tessile e alla moda (Gucci, Versace, Della Perla, Krizia, Valentino), fino ad arrivare alle telecomunicazioni (Telecom, Wind-3) alle utilities (Acea, Edison, Terna, Snam), al settore bancario (Bnl, Cariparma) e edile (Italcementi). Anche nel settore petrolifero Saras della famiglia Moratti è diventata per metà russa.

Naturalmente c’è anche un capitalismo italiano che compra all’estero. Ma il rapporto tra acquisizioni straniere in Italia e il suo opposto nel 2017 (ultimo dato di cui disponiamo) è stato di 7 a 1 (65 miliardi di euro contro 9,4).

La parola d’ordine di Salvini “Produrre italiano”, che spesso viene pronunciata anche dal M5S e dal Pd è una parola d’ordine che poco o nulla ha a che vedere con gli interessi dei lavoratori. In primo luogo perché è associata a un discorso nazionalista e razzista che divide il movimento operaio, in secondo luogo perché se in questi anni si è riuscito ad evitare una grave emorragia di posti di lavoro e la crisi industriale del 2009-10 non si è trasformata in un’ecatombe, è stato grazie all’afflusso del capitale straniero, particolarmente quello cinese che è meno propenso rispetto agli altri ad accaparrarsi semplicemente un marchio per spostare la produzione, ma di solito è un investimento che si basa su una prospettiva di lungo termine.

Secondo una recente ricerca di Confindustria non solo le industrie a capitale straniero presenti in Italia sono le aziende con una media più alta di addetti nell’industria (136,7 lavoratori a fronte dei 9,5 delle aziende indigene) ma lo sono anche sul piano generale (91,1 contro 3,8). Questo può anche essere naturale visto che un capitale che viene dall’estero difficilmente può essere interessato a piccole imprese ma quello che è importante è che a differenza di quello che si pensi questi capitali sono stati decisivi per tamponare l’emorragia di posti di lavoro.

Sono state proprio le medie e le grandi industrie che negli anni della crisi hanno garantito i livelli occupazionali, particolarmente quelle in cui è entrato il capitale straniero.

Per una azienda come la Whirlpool che chiude lo stabilimento di Caserta per spostare la produzione nell’Europa dell’Est ce ne sono almeno tre o quattro che vengono salvate grazie ai capitali stranieri. Naturalmente non si tratta di beneficenza, ma di capitali che giungono in Italia per sfruttare la classe operaia e spremere profitti con ogni mezzo. Tutti gli studi dimostrano che non c’è più quel vantaggio che c’era 20 anni fa nella delocalizzazione verso l’Oriente o l’America Latina. Ormai un operaio delle zone più avanzate della Cina o di San Paolo e Buenos Aires non prende un salario molto più basso che uno a Melfi o Pomigliano.

L’Italia ha i salari più bassi d’Europa (dopo Grecia e Portogallo) e di conseguenza arrivano nuovi investimenti. Per altro il fenomeno del reshoring (ritorno delle produzioni nelle zone a capitalismo avanzato) è una tendenza che nel corso degli ultimi anni si è rafforzata, anche per effetto delle politiche protezioniste.

I dati oggettivi (che naturalmente contano più delle impressioni) dicono che questa è la tendenza che in Italia si è affermata negli ultimi 10 anni.

Un processo che in Germania è stato inverso anche se è vero che Berlino partiva da un livello molto alto. Esistono infatti in Germania oltre 12mila imprese con più di 250 addetti, contro le 3.200 in Italia. Dunque, a differenza di quello che pensano molti delegati anche avanzati, e ancor più gli apparati sindacali, il protezionismo non è assolutamente uno strumento che tutela la classe lavoratrice.

Naturalmente la realtà che stiamo descrivendo è quella precedente alla pandemia, dopo la ripresina che c’è stata tra il 2016 e il 2018. Ora si apre tutta un’altra partita. Gli attacchi fioccheranno. Così come le chiusure e le ristrutturazioni. Ma rispetto al 2009 quando la capacità di reazione della classe lavoratrice è stata molto bassa ora i lavoratori sono molto più preparati.

Il conflitto dilagherà così come abbiamo visto nelle giornate di marzo, travalicando i confini nazionali, trasformandosi in un conflitto globale, spontaneo e dal carattere fortemente politico, dove gli aspetti legati alla sicurezza, alla sopravvivenza e al controllo dei lavoratori sulla produzione saranno presenti inizialmente in forma embrionale e poi in modo sempre più manifesto.

La questione verrà decisa da uno scontro vivo tra le classi sociali, nel quale dobbiamo prepararci ad intervenire. Anche se è impossibile prevedere i tempi esatti in cui si svilupperà, questo scontro è inevitabile.

Il compito delle prospettive è proprio quello di investire sulle “punte alte” di un determinato processo, piuttosto che avere un atteggiamento contemplativo, tipico dei riformisti e dei settari, che evidenziano sempre i fattori negativi e in controtendenza.

Questo approccio ci può anche condurre a sbagliare i tempi, ad anticiparli. È capitato anche a Marx, ed altri grandi rivoluzionari, commettere questo tipo di errori, e a non vedere determinati fattori che finivano per produrre dei ritardi nelle prospettive. Prospettive che erano anche corrette, ma che a volte si realizzavano con 10 o 20 anni di ritardo.

Ma non di meno è a questo metodo di Marx che dobbiamo ispirarci, è questo l’approccio corretto, il più rivoluzionario e non quello di coloro che si concentrano sempre su tutto quello che può andar male o sulle “punte arretrate” di un determinato processo.

Per dirla in breve un’organizzazione rivoluzionaria investe sulla crescita del conflitto e sulla rivoluzione, mentre al contrario una forza riformista investe sulla sconfitta e sul riflusso sociale. Spesso hanno ragione i secondi perché le rivoluzioni sono eventi rari nella storia (ce ne sono state tre in un secolo in Italia) e, soprattutto in un contesto di debolezza del fattore soggettivo, ci sono sempre mille cose che possono andar male in qualsiasi processo potenzialmente rivoluzionario.

Le prospettive non sono un dogma, ma un’ipotesi di lavoro, che deve basarsi su elementi realistici e non campati per aria, ma che non ha un carattere scientifico. Ad essere scientifica è la teoria marxista, che si basa sull’insieme delle esperienze del movimento operaio sul piano internazionale, organizzata ed ordinata dal talento di grandi rivoluzionari totalmente organici al movimento di massa.

Ma anche in questo caso stiamo parlando di una teoria sociale e non di laboratorio, e dunque per definizione di una scienza non esatta.

Fatta questa premessa, fondamentale per comprendere il nostro metodo di analisi e di investigazione della realtà, sarebbe un errore se pensassimo di disfarci dello strumento delle prospettive, per il semplice fatto che in passato sono stati commessi degli errori.

La nostra stessa esistenza perderebbe di significato, abbandoneremmo quello spirito rivoluzionario, assolutamente necessario per intervenire nella realtà, così come avviene per i settari, che particolarmente nell’ultimo periodo (e si tratta di un fenomeno generale e internazionale) sono diventati dei veri e propri zombie politici.

Infatti per non cadere a terra (cosa che inevitabilmente alla fine avverrà) si appoggiano gli uni con gli altri promuovendo la nascita di “fronti anticapitalisti” che non a caso dilagano in questa fase, veri ambiti infestati di scetticismo e demoralizzazione (oltre che di manovre burocratiche) da cui bisogna tenersi a debita distanza, così come avviene per un virus che può essere letale.

 

Apparati sindacali

La Cgil di Landini ha sostanzialmente sabotato le mobilitazioni operaie del marzo, per stabilire un rapporto privilegiato con il governo e persino con la nuova Confindustria di Bonomi. Le parole che più hanno caratterizzato gli interventi dei dirigenti della Cgil, in questa fase drammatica per la classe lavoratrice, sono state: cogestione, collaborazione, cooperazione. Un discorso tutto improntato all’unità nazionale, così come quello del governo. Hanno finalmente ottenuto quei tavoli che Renzi gli aveva negato e tanto basta per la burocrazia sindacale.

Tuttavia se da parte del governo c’è disponibilità a trovare un punto d’incontro con le burocrazie sindacali, come si vede dall’atteggiamento conciliante della Ministra al lavoro Catalfo, altro discorso bisogna fare per ciò che concerne Confindustria, a partire dalla questione dei contratti.

Secondo Bonomi, presidente di Confindustria servono “contratti rivoluzionari rispetto al vecchio scambio di inizio Novecento tra salari e orari” , dove il “rivoluzionari” sta per zero aumenti salariali. A questo proposito il nuovo capo di Confindustria ha richiamato, in un certo senso ha sferzato, tutte le categorie e i presidenti territoriali, lamentandosi del contratto dell’industria alimentare, sottoscritto dalla maggioranza delle grandi imprese del settore il 31 luglio con aumento salariale di 119 euro, e lanciando la sfida ai sindacati sul nuovo modello contrattuale.

Di fatto si tratta di un contratto separato da parte padronale, in quanto è stato firmato solo da una parte delle aziende alimentari a livello nazionale.

Repubblica, che ricordiamolo di recente è finita sotto il gruppo Fiat, il 10 settembre ha pubblicato un articolo dal titolo significativo: “Contratti, si allunga la lista dei dissidenti in Confindustria”, in cui si racconta che Campari, Fontanafredda, Citterio, Jde, De Cecco, Italian Tobacco, Acqua Sant’Anna, hanno comunicato l’adesione al nuovo contratto del settore alimentare, niente affatto indifferente (6.850 aziende, 385mila lavoratori, l’8% del Pil italiano). Il contratto era stato firmato da tre associazioni di categoria (Unionfood, Assobirre e Ancit) ma disconosciuto da Federalimentare e da Confindustria.

Con le ultime adesioni stiamo parlando del 50% delle aziende del settore, che oggettivamente a differenza di altri settori, hanno avuto dei vantaggi nel corso del lockdown, e non vogliono perdere dei profitti per colpa della conflittualità sindacale. Bonomi sta tentando di mettere in riga gruppi come Barilla, Ferrero, Lavazza e Danone e sta ingaggiando una vera e propria battaglia campale in tal senso.

In un certo senso Confindustria sta facendo una battaglia per serrare i ranghi all’interno del padronato e creare un fronte compatto. Si tratta di un’inversione di rotta importante rispetto alla Confindustria di Squinzi e soprattutto di Boccia che, dal punto di vista padronale, avevano reso Confindustria un vero e proprio colabrodo, spingendo la Fiat ad uscire dall’associazione.

L’obiettivo di Bonomi è ricompattare le fila su una linea estrema e su questa base ce n’è per tutti, non solo per i padroni dissidenti, ma anche per il governo. Tuttavia, come la vicenda alimentaristi sta a dimostrare, situazione in cui la linea oltranzista di Confindustria è nei fatti stata sconfitta, il raggiungimento di questo obiettivo non è affatto scontato. La sostanziale unanimità attorno all’elezione a presidente di Confindustria di Bonomi è parte del passato. La classe dominante, infatti, è molto divisa al suo interno, tra il settore, sicuramente maggioritario, legato a Bonomi e un settore, quello che in questi mesi ha accresciuto i propri profitti proprio grazie all’emergenza sanitaria, che ha meno interessi ad andare allo scontro di classe

Nella parte riservata al governo, quando si parla del “blocco dei licenziamenti” si usano argomenti degni di un padrone delle ferriere. Scrive Bonomi: “Più si protrae nel tempo il binomio ‘cig per tutti-no licenziamenti’ più gli effetti di questo congelamento del lavoro potrebbero essere pesanti, in termini sociali e per le imprese”. (Il Manifesto, 29/8/2020).

Poi si passa ad equiparare i lavoratori che hanno ricevuto gli ammortizzatori durante la pandemia a parassiti statali. “Hanno avuto accesso alla cassa-Covid (senza alcun riferimento al 30% di imprese che l’hanno chiesta illecitamente continuando a lavorare, ndr) oltre 5,5 milioni di italiani; se a questi sommiamo tutti coloro che beneficiano dei diversi regimi di sostegno diritto pubblico, la quota di italiani sotto l’ombrello della protezione statale oltrepassa quota 8 milioni di cittadini”. Naturalmente il presidente di Confindustria si guarda bene dal citare gli oltre 100 miliardi di euro a fondo perduto (di cui 30 nel solo decreto rilancio) di cui hanno beneficiato le imprese da parte dello Stato nel corso della pandemia.

La sortita di Bonomi promette di rendere incandescente il clima sociale, a prescindere dalle volontà di Cgil, Cisl, Uil. Per Confindustria infatti non esiste alcuna possibilità di rinnovare i contratti scaduti che coinvolgono oltre 10 milioni di lavoratori, se non con aumenti ridicoli, per non dire inesistenti.

Bonomi critica anche aspramente il protagonismo del governo in economia che a suo dire: “è un Paese che dimentica il rovinoso falò di risorse delle partecipazioni statali che obbligò alle privatizzazioni di inizio anni ’90”. Privatizzazioni che naturalmente per lui, hanno funzionato.

La burocrazia sindacale, come spesso accade, non sta facendo i conti con l’oste. Questo linguaggio di Confindustria non ha niente a che fare con la Confindustria degli anni recenti, ma ricorda quella dei Costa, degli Agnelli, non a caso di coloro che si trovarono a presiederla in contesti di forte mobilitazione operaia e sindacale.

Landini non è minimamente preparato a questo scontro, nella sua visione provinciale e limitata, spera di aprire una nuova epoca di patti sociali e di “cogestione”, contando sulla collaborazione di Zingaretti e Conte, e magari anche di un settore di padroni “illuminati”; ma l’aria che tira nel campo padronale è di tutt’altro tipo. Soprattutto al vertice. Come si è visto anche a Cernobbio.

La Cgil si farà schiacciare fino a quando non ci sarà una reazione da parte dei lavoratori che la costringeranno a convocare delle mobilitazioni come è avvenuto il 25 marzo, con la convocazione parziale dello sciopero e la minaccia (che tale è restata) dello sciopero generale.

A quel punto si aprirà lo spazio per una contesa egemonica all’interno della Cgil, nella quale la nostra area “Giornate di marzo” può svolgere un ruolo decisivo. I sindacati di base, salvo rare eccezioni, sono fuori gioco, come abbiamo spiegato nel documento della Conferenza dei lavoratori di Scr, su cui non torneremo. La sbandata filo-Raggi e verso il M5S dell’Usb (principale sindacato di base in Italia) e il ripiegamento opportunista su posizioni filo-Pd, di alcuni suoi dirigenti come Abou, è la dimostrazione che il settarismo non di rado sfocia nell’opportunismo.

Vedremo una spinta alla ripresa delle lotte, che si svilupperanno anche in forme autoconvocate, come è nella tradizione del movimento operaio italiano.

Tutto quel rancore che i lavoratori hanno accumulato in questi anni (soprattutto nel corso del lockdown) contro il padronato, ma anche contro le burocrazie sindacali, troverà presto o tardi il modo per esprimersi.

Per tutto il periodo della pandemia le sedi sindacali sono state chiuse, il sindacato è stato inerte e i lavoratori sono stati lasciati letteralmente da soli. Anche quando è ripresa l’attività i lavoratori hanno dovuto subire ogni tipo di angherie (orari interminabili, carichi di lavoro incessanti, ferie negate, tagli di pause, ecc.).

C’è un enorme rancore accumulato, un sentimento che da marxisti consideriamo positivo, senza alcun tipo di moralismo. Un sano odio di classe che presto o tardi esploderà in faccia alla classe dominante e ai riformisti.

Non è un caso se nell’apparato Cgil iniziano ad avvertirsi i primi segnali di sgretolamento di quella maggioranza che aveva portato alla segreteria Landini. Lo spostamento a destra impresso dal nuovo segretario della Cgil inizia ad andare stretto persino a personaggi come la Camusso. Come è noto Colla è andato a fare l’assessore in Emilia Romagna, ma oggi i colliani si sentono ben rappresentati da Landini, che infatti non solo ha ricucito i rapporti con il Pd, ma sta mostrando un moderatismo sindacale da fare invidia alla Cgil della fine anni ’80, inizio anni ’90.

Quella Cgil, contribuì a smantellare definitivamente le conquiste degli anni ’70, sia sul piano contrattuale, che sul piano della democrazia sindacale. Ma il peggio in quel frangente venne proprio dalla Fiom, che aprì una vera e propria guerra contro le avanguardie sindacali che, nonostante la sconfitta del 1980 alla Fiat, continuavano a svolgere un ruolo importante nelle principali fabbriche del paese.

Non è secondario ricordare che Fausto Bertinotti, in qualità di segretario confederale della Cgil nel 1987, fu colui che firmò l’accordo per la nascita dei Cars (predecessori delle Rsu), che cancellarono anni di democrazia sindacale, che si era espressa attraverso i consigli di fabbrica.

Quella Fiom, insieme a quella successiva guidata da Vigevani, fece la guerra alle avanguardie sindacali che avevano animato il movimento autoconvocato nel 1984 e tante altre lotte negli anni successivi.

Questi non sono tempi per confusionari, azzeccagarbugli della politica.

Serve una chiarezza limpida e cristallina nelle idee, nel metodo e nelle strategie, una chiarezza che solo il marxismo può offrire.

L’unità è cosa importante per i lavoratori, ma può assumere un significato solo se si sviluppa in un quadro di mobilitazione della classe lavoratrice in un processo di massa, altrimenti si traduce in un’unità di micro-apparati, che non può assolutamente interessare la nostra organizzazione, né tanto meno la classe lavoratrice nel suo insieme.

Già l’esperienza delle elezioni politiche nel 2018 ci è servita a comprendere fin troppo bene che questa strada è assolutamente preclusa a qualsiasi processo aggregativo per la sinistra di classe nel nostro paese.

 

Il partito di classe, un chiarimento necessario

Abbiamo avanzato per la prima volta la parola d’ordine del partito di classe nel 2010.

Si trattava di una parola d’ordine corretta per due ragioni fondamentali, la prima dal carattere strategico, la seconda di valenza tattica.

L’aspetto strategico riguardava la manifesta crisi di Rifondazione comunista, che rendeva sempre più evidente come non esisteva più un partito di massa che fosse di riferimento per la classe lavoratrice, vista la deriva del vecchio Pci-Pds-Ds, che nel 2007 subiva una trasformazione decisiva con la nascita del Partito democratico. Di conseguenza si poneva il problema di rivendicare (così come fanno i nostri compagni in Argentina e negli Usa) la formazione di un partito indipendente della classe lavoratrice.

L’aspetto tattico si legava invece alla necessità di abbandonare il nostro lavoro, più che ventennale, nel Prc, in quanto aveva esaurito la sua funzione, tanto più che si erano registrate delle tendenze all’adattamento (da parte di compagni che successivamente hanno lasciato l’organizzazione).

Con quella parola d’ordine tentammo di collegarci a un settore di avanguardia del movimento operaio, guidato fondamentalmente dalla Fiom di Sabattini e Rinaldini, che si erano messi a capo di una serie di mobilitazioni, per capitolare successivamente sotto la direzione di Landini.

La “Coalizione sociale” messa in campo dalla Fiom di Landini nel 2015 e accantonata subito dopo era la dimostrazione più evidente che quella parola d’ordine, se aveva un senso fino al 2013 (diciamo fino all’accordo di Grugliasco) in quel momento aveva già esaurito la sua funzione politica.

Con l’onestà politica che ha sempre caratterizzato la nostra organizzazione, dobbiamo riconoscere che dare centralità alla parola d’ordine del partito di classe per qualche anno ancora dopo il 2013 ci ha spinto a intravedere nella Coalizione sociale di Landini, e successivamente nella proposta politica incarnata da De Magistris, le potenzialità per la formazione di un partito della classe lavoratrice.

La verità è che non esistevano le condizioni per tale processo, per ragioni sia soggettive che oggettive, e dovevamo prendere atto che l’organizzazione era destinata per un lungo periodo di tempo a fare un lavoro in mare aperto.

Non esistono in Italia le condizioni per fare entrismo in un partito di massa e questo non rappresenta per noi un problema. Tutto il contrario. Il processo è più generale, ha un carattere internazionale, perché anche in altri paesi dove esistono partiti della sinistra riformista, con tendenze anche avanzate, l’entrismo non è e non può essere il terreno principale della nostra attività, che si deve sviluppare fondamentalmente attraverso un lavoro indipendente verso la gioventù e la classe operaia.

Naturalmente in astratto manteniamo l’idea di lavorare in futuro in un partito di massa che nasce sull’onda delle mobilitazioni della classe operaia (come avvenne con il Pt brasiliano negli anni ’80), ma è del tutto ovvio che in questo momento in Italia, questa parola d’ordine deve rimanere sullo sfondo, fino a quando non si verificherà uno sviluppo decisivo nella situazione, che la renderà credibile agli occhi di milioni di persone.

Per questo di recente ci siamo riferiti più volte al testo di Ted Grant del 1941, Prepararsi al potere.

In quel testo si vede come in particolari circostanze storiche una organizzazione rivoluzionaria di proporzioni ancora ridotte può rivolgersi agevolmente al movimento operaio in forme dirette, attraverso un lavoro di fabbrica, a causa dello spostamento a destra delle organizzazioni tradizionali e il loro sostanziale discredito.

Nel caso dell’Italia di oggi quel discredito si è tradotto in un vero e totale abbandono anche sul piano elettorale, fino al punto che l’unica organizzazione di sinistra presente oggi in Parlamento, Sinistra italiana, oltre ad essere estremamente moderata è totalmente subalterna al Pd, non ha una presenza organizzata nel movimento operaio, né sul piano territoriale, che possa considerarsi minimamente significativa.

Rifondazione comunista è ormai una forza patetica in termini elettorali, così come lo è Potere al popolo e su questo non vale la pena dilungarsi più di tanto, perché si tratta di un fatto assolutamente evidente.

Un discorso a parte merita la galassia stalinista e in particolare il Pc di Marco Rizzo.

Una formazione di dimensioni ancora ridotte (ebbe lo 0,3% alle ultime elezioni politiche e lo 0,6 alle Europee) ma che ispirandosi al modello del Kke greco ha raccolto un certo numero di giovani. Come avevamo previsto, questi giovani, guidati da Mustillo, a un certo punto sono entrati in conflitto con il segretario Rizzo, che in puro stile stalinista è capace di combinare posizioni da “socialfascismo”, al peggior opportunismo a sostegno delle politiche della borghesia (si vedano le recenti posizioni di appoggio alla Via della seta cinese, per non parlare delle dichiarazioni contro gli immigrati, le battaglie ambientaliste e per i diritti civili).

Il Marco Rizzo di oggi è lo stesso che nel 1998 appoggiò la scissione di destra nel Prc, per sostenere il governo Prodi, che oltre a votare le peggiori misure di austerità, sostenne in Parlamento il bombardamento di Belgrado.

Tuttavia la scissione di Mustillo è destinata a disgregarsi, in quanto è la classica scissione al negativo (sono stati espulsi ma dopo aver rotto il patto federativo col partito); i giovani della Fgc denunciano ciò che non va nel partito, ma non hanno una base politica realmente alternativa a quella di Rizzo. Di conseguenza sbandano.

La pubblicazione del libro “Lenin e Trotskij, per cosa lottarono realmente” di Ted Grant e Alan Woods, si propone di rivolgersi fondamentalmente a questo settore di giovani, che sono attratti dalla demagogia stalinista, ma che ne resteranno inevitabilmente delusi, quanto meno i migliori di loro.

Si tratta tuttavia di un aspetto secondario del nostro lavoro che deve essere orientato fondamentalmente a un lavoro energico e sistematico verso i giovani studenti ed operai che in questa fase si mostreranno interessati alle idee del marxismo. Attraverso un intervento diretto nel movimento con le nostre idee, le nostre pubblicazioni e le nostre parole d’ordine.

 

Lavoro giovanile

La situazione nelle scuole sta diventando sempre più esplosiva. La ministra Azzolina ha fatto molte promesse e prodotto pochi fatti, generando molto stress e molte incertezze su studenti e insegnanti.

La linea da parte del governo è stata uno scaricabarile su professori, studenti e sulle loro famiglie. In diversi territori le aperture sono state rimandate, in altri si parla di alternanza della didattica in presenza con la didattica online. Le graduatorie sono state fatte con gravi errori e strafalcioni, provocando non poche reazioni nel campo sindacale. Sono stati accertati 40mila errori nelle graduatorie e secondo Repubblica l’anno scolastico parte con 200mila ruoli ancora da coprire.

In sette mesi di chiusura delle scuole non è stato predisposto un piano per garantire maggiori spazi. Dove è stato fatto, come nel caso della Fiera di Bologna, le condizioni sono pessime per lo studio. Non sono stati potenziati i trasporti pubblici, inserendo il criterio dell’80% della capienza, tanto inutile quanto inapplicabile. In molti casi gli studenti si sono trovati addirittura più pigiati dovendo dividere meno spazio (per il distanziamento dei docenti) con gli stessi numeri.

I protocolli di sicurezza erano come un manuale su come tenere i soprammobili in ordine in una casa che sta crollando. Con l’aggravante di scaricare stress e responsabilità penali sui lavoratori della scuola. L’esito era scontato. Già prima dell’apertura si sono registrati i primi positivi, che sono stabilmente saliti insieme alla curva nazionale, fino a superare le 200 scuole chiuse e 1500 classi con misure di quarantena il 9 ottobre. Da allora il dato non è più rilevato ma non può che essere cresciuto esponenzialmente. L’ambiguità del governo si nota anche nell’atteggiamento nei confronti delle Università. Facendo leva sulla legge 240/2010 (legge Gelmini) che definisce l’autonomia universitaria, la CRUI, braccio armato del Ministero Università e della Ricerca, spinge perché Rettori e Direttori di Dipartimento diano all’esterno un’immagine rassicurante. Si assiste così al proliferare di servizi essenziali da svolgersi in presenza perché gli Atenei temono di perdere iscritti e fondi a vantaggio di università “concorrenti”. Viene concessa quindi la didattica a distanza per gli studenti ma ponendo quanti più limiti possibile al lavoro da remoto per i dipendenti. Si arriva all’assurdo di alcuni Atenei delle zone rosse che impongono di erogare lezioni in presenza davanti ad aule vuote con gli studenti connessi da remoto ma con il personale che deve garantire l’agibilità delle strutture.

Il governo, come negli altri paesi, cerca di tenere una linea di apertura delle scuole, soprattutto dei primi livelli, ma è da vedere quanto possa reggere questa posizione. De Luca ha rotto per primo il fronte con la chiusura in Campania (poi ha riaperto per la fascia 0-6 anni). È nelle cose che soprattutto alle superiori ci siano altre chiusure e un uso sempre più esteso della didattica a distanza.

Dopo un periodo in cui i giovani hanno cercato di capire come sarebbero andate le cose, scuola dopo scuola crolla la credibilità di tutte le istituzioni e sempre più studenti sono aperti alle idee rivoluzionarie davanti all’emergenza. Dobbiamo superare ogni ostacolo organizzativo per raggiungere questi giovani e portarli nell’organizzazione.

Si tratta di una situazione esplosiva che necessita di un intervento non ordinario da parte della nostra organizzazione, tanto più che possiamo concentrarci sugli istituti superiori poiché le università sono tornate ad adottare la didattica a distanza. A causa della pandemia anche gli universitari hanno sperimentato una serie di disagi legati alla Dad, al pagamento delle tasse sempre più onerose, alla diminuzione delle borse di studio, agli affitti e molto altro. Sebbene sia molto difficile vedere mobilitazioni di massa tra gli universitari, il lavoro fatto in questi anni negli atenei italiani con le diffusioni, i GSM e le assemblee, ci ha permesso di entrare in contatto con una buona fascia di singoli studenti aperti a discutere le idee del marxismo. In alcune sezioni i Gruppi di studio Marxisti si sono rivelati il terreno migliore per avvicinare gli studenti universitari sulla base delle idee. Ancora non sappiamo come e quando le università riapriranno ma dobbiamo porci l’obiettivo di garantire (ove possibile) una certa continuità con il lavoro universitario degli anni passati e diventare un punto di riferimento come organizzazione marxista poiché l’immobilismo degli universitari non durerà in eterno.

Si registra in varie zone un crollo delle realtà legate ai giovani comunisti e alla Fgc (che in passato avevano avuto un qualche successo) e un rafforzamento delle strutture collegate alla Cgil (Uds, Rete degli studenti, ecc.) che in alcune città sono entrate in un fronte unico con i disobbedienti, così come era accaduto nei Fridays for future.

Il movimento sul clima ha rappresentato uno dei momenti di più alta mobilitazione giovanile degli ultimi anni. Nonostante l’attuale battuta d’arresto, la questione climatica resta prioritaria per milioni di giovani a livello mondiale e formerà la coscienza di nuovi rivoluzionari.

La battuta d’arresto del movimento in parte è dovuta alla situazione della pandemia ma anche alla sua direzione riformista e autoritaria, totalmente subordinata alle parole d’ordine della UE e della Gnd. Questo ha portato il movimento in un vicolo cieco quando sono state svelate le vere misure della Gnd europea, a partire dalla questione del ruolo del gas come fonte di transizione ma anche rispetto alla nuova Pac (Politica Agricola Comune ).

Dove siamo presenti dobbiamo dar vita a collettivi studenteschi (la struttura più tradizionale e allo stesso tempo la più flessibile) e orientarci alle strutture esistenti sul piano nazionale, dalle quali abbiamo iniziato a prendere contatti e a reclutare ancor prima che si aprissero le scuole.

Il Coordinamento 2 maggio – Alziamo la testa! deve servirci a coordinare questa attività e a dotarci di un profilo programmatico nazionale, ma allo stesso tempo deve restare una struttura snella, che in nessun modo deve sovrapporsi all’obiettivo di costruire l’organizzazione. Deve essere in una parola uno strumento per allargare la nostra cerchia di contatti.

È un dato di fatto che anche in campo giovanile la Cgil abbia in mano il pallino e lo userà per raggiungere i suoi obiettivi, che sono quelli della concertazione, per aprire tavoli con il ministero e trattare concessioni.

La nostra linea deve essere quella contraria, rompere i tavoli per promuovere la mobilitazione e rifiutare la delega alle strutture ma costituire coordinamenti di lotta ad ogni livello che siano realmente rappresentativi, gli unici deputati ad aprire trattative come risultato di una mobilitazione. È del tutto ovvio che andare a un tavolo senza aver prodotto una mobilitazione di massa che coinvolge gli insegnanti e il resto dei lavoratori non serve assolutamente a nulla, se non a formare dei piccoli burocrati.

Dobbiamo evitare di perdere tempo in contrapposizione con altre strutture ma mostrarci aperti al fronte unico, aderendo con la nostra piattaforma a tutte le manifestazioni di una qualche rilevanza.

Dobbiamo, lì dove possibile e dove ne valga la pena, anche essere aperti ad un lavoro di tendenza dentro l’Uds e le strutture satelliti della Cgil, nel campo giovanile.

Non abbiamo discriminanti da questo punto di vista, se non la reale rappresentatività delle strutture e le opportunità di crescita che ci si aprono di fronte.

L’obiettivo che deve essere chiaro ad ogni compagno è che in questa fase non lottiamo per conquistare l’egemonia nel movimento studentesco né a livello locale, né tanto meno a livello nazionale, attraverso la nostra struttura, sbaragliando tutte le altre, come fece la vecchia sezione spagnola nel movimento del 1986-87 o come facemmo a Milano, per un breve periodo nell’autunno del 1989. L’obiettivo è usare il movimento studentesco per presentare le nostre idee e reclutare il più possibile all’organizzazione, evitando di sovraccaricarci di “responsabilità di movimento”, che in questa fase rallenterebbero semplicemente i nostri compiti di costruzione, che sono prioritari.

Non ci servono sindacalisti studenteschi ma marxisti che intervengono nel movimento studentesco, vale la stessa massima che usiamo nel movimento operaio. L’approccio sindacalistico tra gli studenti conduce all’opportunismo come abbiamo visto in passato con qualche compagno che non è riuscito a superare certi limiti e a comprendere il metodo dell’organizzazione.

Dobbiamo avere un approccio audace e trovare le strade che ci aiutano a prendere contatti, facendo un uso abile dei social e dei video online.

Ogni giovane reclutato deve ricevere un seguito molto attento nei primi tre mesi di militanza da parte di un responsabile che lo deve sentire frequentemente, discutere le sue letture, i problemi connessi all’attività studentesca (se appartiene a un collettivo o a una struttura studentesca).

Non dobbiamo mai mettere condizioni organizzative (tipo uscire da una struttura, da un collettivo, ecc. per entrare nella nostra) ma reclutarlo al marxismo e lavorare perché nella sua struttura trovi altri elementi validi come lui.

Solo dopo averlo consolidato e formato si potranno discutere questioni tattiche o rotture sul piano organizzativo, se queste sono proprio necessarie.

A questa attività davanti alle scuole devono partecipare anche i compagni universitari e non studenti. Dobbiamo stabilire dei piani vendite ambiziosi e approfittare della situazione assolutamente straordinaria che si presenta davanti a noi. Ci sono compagni lavoratori che si sentono imbarazzati ad andare davanti alle scuole o alle manifestazioni a vendere il giornale e diffondere volantini. La maggior parte degli studenti non ha questo tipo di pregiudizi, spesso è un problema che ci facciamo noi.

Allo stesso tempo dobbiamo selezionare le vertenze operaie più importanti e portare davanti ai cancelli gli studenti. L’unità studenti-lavoratori deve essere sempre al centro della nostra propaganda, a partire dai professori, che oggi sono tra i più disponibili alla mobilitazione.

La nostra linea non dovrebbe essere quella di promuovere noi, salvo rarissime situazioni, le scadenze di lotta, ma lavorare attorno ad esse costruendoci il nostro intervento e il nostro profilo politico.

Le manifestazioni assumeranno con ogni probabilità un carattere di massa e sarebbe difficile “segare un tronco con uno spazzolino”.

Ogni situazione oggettiva richiede metodi differenti di intervento, che devono essere discussi con regolarità dalle direzioni locali, dalle commissioni giovanili e dai Gruppi di base.

Le mobilitazioni potrebbero anche non esplodere subito, in parte dipenderà anche dalla curva del virus, ma dobbiamo essere preparati ad intervenire fin dal primo giorno e a modulare il nostro intervento, se necessario cambiando tattica anche in 24 ore, se questo fosse richiesto dai mutamenti della situazione politica, ma anche della situazione sanitaria, che dovrà sempre essere al centro delle nostre riflessioni.

Questa è la chiave della nostra crescita insieme a un lavoro aperto su temi come l’antifascismo (si pensi ai fatti recenti di Colleferro), il cambiamento climatico, l’immigrazione, i diritti civili, che devono essere al centro della nostra propaganda e della nostra azione politica.

Se sapremo combinare la presenza nel movimento, con una propaganda adeguata delle nostre idee, senza nascondere le pubblicazioni, ma usandole come strumenti principali del lavoro politico, allora il successo sarà assicurato.

Insieme al lavoro che svilupperemo nel movimento operaio, il lavoro tra i giovani ci permetterà di uniformare la nostra presenza su tutto il territorio nazionale, di crescere e di assumerci responsabilità sempre più grandi fino a poter un giorno guidare la classe lavoratrice alla conquista del potere.

Questo obiettivo strategico, passa oggi dal reclutamento e dalla formazione politica di giovani e giovanissimi che devono trovare un ambiente all’interno dell’organizzazione che li mette a loro agio, che gli dà spazio e gli permette di crescere politicamente in un percorso collettivo di discussione e mobilitazione.

Questa è la chiave del successo.

 

Costruire l’organizzazione

La svolta impressa alla situazione mondiale dalla crisi, e in particolare dalla pandemia nella coscienza di massa, ha creato condizioni nuove, che si sono riflesse nella costruzione dell’organizzazione.

Ci lasciamo alle spalle un periodo di 10 anni circa in cui l’organizzazione è rimasta sostanzialmente sulle stesse cifre di militanza. Questo per diverse ragioni che abbiamo analizzato in passato. Va notato che abbiamo avuto anche il distacco di un settore di compagni che aveva compreso tutto politicamente ma che in assenza di sviluppi rilevanti ha messo la militanza politica in secondo piano. Questo è normale perché non costruiamo l’organizzazione in laboratorio ma nelle contraddizioni della società. È significativo come dalla primavera diversi di questi compagni usciti senza divergenze politiche siano tornati all’attività, riannodando il filo della propria attività rivoluzionaria, e spesso mettendosi anche in prima fila. Sicuramente ce ne sono molti altri che potranno fare questa scelta e dobbiamo contattarli per proporglielo.

Negli anni passati l’organizzazione non ha smesso di intervenire dove fosse possibile e ha continuato a reclutare nuovi elementi, con una media di 40-50 elementi all’anno, a selezionare i migliori e a formare nuovi quadri. Numericamente le due tendenze si sono sostanzialmente equilibrate, ma politicamente questo lavoro che ha richiesto pazienza e tenacia ha permesso un ricambio e un rinnovamento delle fila dell’organizzazione, un ampliamento del nucleo più attivo, la creazione di nuove linee di quadri. Questo lavoro è stato decisivo per farci trovare pronti quando si è prodotta una svolta della situazione oggettiva e per sfruttarla a piene mani.

Le grandi svolte possono disorientare e travolgere un’organizzazione che non ha solide basi. Al contrario, dalla primavera l’organizzazione ha avuto una crescita significativa della propria autorità politica, della militanza e del protagonismo dei compagni. Non torniamo sui dettagli che sono stati trasmessi nei dispositivi del Cen e saranno trattati in una risoluzione organizzativa al congresso.

Possiamo dire che il centro è stata la solidità teorica, la capacità di analisi della situazione e di offrire una prospettiva generale e parole d’ordine chiare in un momento in cui c’è una ricerca di questo a livello di massa. E aver combinato questo con una attività intensa, ricalibrata con flessibilità a seconda del rapido mutamento delle condizioni di lavoro, ma sempre per rivolgerci al settore che più velocemente evolve politicamente fra i lavoratori e fra i giovani. Questa è anche la musica del futuro e dobbiamo concentrarci laddove gli eventi provocano i più marcati salti nella coscienza. Non è un caso che riusciamo a costruire proprio ora nel bergamasco, dove la pandemia ha prodotto una enorme radicalizzazione.

Non abbiamo visto (ancora) mobilitazioni di massa ma questo è nelle cose in un contesto dove esiste una preoccupazione per il contagio e quindi non c’è disponibilità a fare manifestazioni “simboliche” e routinarie. Le proteste spontanee scatenatesi in diverse città dopo le nuove restrizioni di ottobre, sebbene di carattere frammentario (partecipazione piccolo borghese con settori marginali di classe operaia: bar, turismo, lavoro nero) e dimensioni modeste, sono state una chiara espressione della rabbia crescente che cova nella società. Di fronte alla crisi e ai nuovi Dpcm, la piccola borghesia risulta schiacciata tra impoverimento e incapacità di giocare un ruolo indipendente come classe.  Storicamente la piccola borghesia oscilla tra la reazione e la rivoluzione in funzione dei rapporti di classe presenti nella società. La grande borghesia si tutela in quanto classe dominante, la classe operaia in quanto classe capace di esprimersi in modo organizzato e indipendente.

Oggi la piccola borghesia, condannata alla rovina, non può che trovare risposta politica dal movimento operaio organizzato e non è nella condizione di costituire un blocco reazionario di massa. Dobbiamo pertanto intervenire in mobilitazioni di questo tipo e rivendicare che il movimento operaio adotti un programma in grado di unificare la classe lavoratrice e la piccola borghesia in una lotta comune contro il grande capitale.

Le mobilitazioni e lotte che abbiamo visto sono più localizzate ma infinitamente più determinate e radicalizzate. E infatti la resa del nostro intervento è proporzionalmente più efficace: più materiale venduto, più contatti, e una maggiore percentuale di contatti che proseguono nella discussione. Per noi questo è ideale, dato che il nostro obiettivo è trovare i contatti che permettano di entrare nei posti di lavoro e di studio, e che permettano all’organizzazione di crescere ai 400, 500 e poi oltre.

Il lavoro partito dall’appello “I lavoratori non sono carne da macello”, l’assemblea del 31 marzo, le commissioni di settore è stato coronato dalla conferenza dei lavoratori e del lancio della nostra area sindacale “Giornate di marzo”. La nuova area si sta rivelando uno strumento perfetto per rivolgerci direttamente e senza intralci ai lavoratori, come si è visto dalle commissioni di settore dove abbiamo avuto decine di contatti. Nella nuova situazione, un settore dell’organizzazione composta da lavoratori, che per tutto un periodo si sono trovati isolati nei propri posti di lavoro, hanno una platea a cui parlare e che ci ascolta con attenzione. È imprescindibile che questi compagni riescano a costruire fra questi lavoratori e che l’organizzazione fornisca gli strumenti per questo lavoro, dove abbiamo possibilità senza precedenti da molti anni a questa parte.

Il lockdown ci ha obbligati per un periodo a spostare tutta la nostra attività online. Questo da un lato è stato un limite ma ha permesso di sviluppare nuovi strumenti che si sono rivelati molto efficaci. Se alcuni di questi strumenti vanno mantenuti anche con l’attività in presenza (uso dei social, contenuti multimediali, uso flessibile di riunioni pubbliche online secondo necessità specifiche), dobbiamo contrastare anche la più piccola idea che la nostra organizzazione possa passare stabilmente da una dimensione militante a una virtuale. La lotta di classe si sviluppa in carne ed ossa nei posti di lavoro, nei posti di studio, e lì dobbiamo essere, usando gli strumenti virtuali per amplificare il nostro lavoro ma mai per sostituirlo.

Posto questo principio, nel contesto dell’emergenza sanitaria, dovremo sempre riaggiornare l’equilibrio fra attività fisica e online a seconda della situazione concreta, come abbiamo fatto in primavera, in una valutazione che tiene conto di diversi fattori: tutela della salute dei compagni con priorità per chi ha maggiori rischi, necessità di essere presenti dove sono fisicamente presenti i lavoratori e i giovani (posti di lavoro, studio, mobilitazioni reali), priorità delle riunioni fisica degli organismi (gdb, cl, cc) rispetto a commissioni e assemblee pubbliche, efficacia dei diversi strumenti di attività e propaganda a seconda della condizione di vita generale della classe.

Oltre alla crescita, l’attenzione dell’organizzazione va rivolta alla formazione e responsabilizzazione dei compagni a tutti i livelli. Questo riguarda i nuovi compagni ma anche chi si pone in prima fila dopo un periodo di minore attività. Dobbiamo sempre chiederci in che direzione possa evolvere un compagno, che ruolo possa ricoprire nella costruzione collettiva, che strumenti fornire per favorire questa crescita. Solo se sapremo fare questo collettivamente eviteremo il sovraccarico e costruiremo la struttura per accogliere sempre più reclute, creare nuovi gruppi di base, costruire in zone nuove, avere quadri nei posti di lavoro e di studio, rafforzare gli organismi dirigenti.

La formazione teorica è una parte essenziale di questo lavoro, e ogni compagno deve essere inserito in un piano di formazione dai propri responsabili.

Oggi il carattere internazionale dei processi politici è più marcato che mai, e deve essere regolarmente discusso, così come i compagni devono seguire gli sviluppi del lavoro internazionale. La crescita della sezione italiana si colloca nel quadro degli avanzamenti generali dell’internazionale e siamo certi che i prossimi anni ci riserveranno sviluppi su un livello senza precedenti per la nostra organizzazione.

 

Bozza stilata dal Comitato centrale di SCR del 24-25 ottobre 2020 e approvata all’unanimità (con un astenuto) dal Congresso nazionale del 5-6-7 dicembre 2020.

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