102° anniversario della Rivoluzione russa – L’Ottobre fu un colpo di stato?
7 Novembre 2019
Napoli – Alan Woods replica il successo di Milano e Bologna!
8 Novembre 2019
102° anniversario della Rivoluzione russa – L’Ottobre fu un colpo di stato?
7 Novembre 2019
Napoli – Alan Woods replica il successo di Milano e Bologna!
8 Novembre 2019
Mostra tutto

Da dove ripartire dopo la fine del Rojava?

di Franco Bavila

L’incontro tra Putin ed Erdogan, il 22 ottobre a Sochi, ha sancito la spartizione della Siria nord-orientale tra il regime di Assad e la Turchia, sotto la supervisione della Russia. I turchi hanno ottenuto una zona cuscinetto lungo il confine, da dove le milizie curde sono state costrette a ritirarsi; le forze di Assad hanno invece ripreso il controllo di tutto il resto della regione; la Russia ha aumentato il proprio peso in Medio Oriente, espandendo la sua presenza militare e svolgendo il ruolo di mediatore tra Siria e Turchia. In questo accordo non c’è ovviamente alcuno spazio per i curdi siriani che, sotto la minaccia delle armi turche, sono stati costretti a sottomettersi al regime di Damasco, ponendo di fatto fine all’esperienza di governo autonomo del Rojava.

 

Mappa della situazione al confine turco siriano all’inizio del l’offensiva turca (da “Internazionale”)

 

L’avvicinamento tra Russia e Turchia

L’incontro del 22 ottobre a Sochi non rappresenta che l’ultima tappa di un percorso che negli ultimi anni ha portato il regime di Ankara ad allontanarsi dall’orbita degli Stati Uniti per avvicinarsi progressivamente a Mosca. Durante la guerra in Siria, Russia e Turchia si sono trovate su fronti contrapposti. Putin, assieme all’Iran, si è schierato con il regime di Assad, poiché in Siria si trova l’unica base navale russa nel Mediterraneo. Erdogan ha invece sostenuto i cosiddetti ribelli siriani, composti in massima parte da milizie jihadiste di fondamentalisti sunniti, accarezzando l’idea di rovesciare Assad ed espandersi in territorio siriano. Il culmine del contrasto tra i due paesi si è avuto nel 2015, quando l’aviazione turca ha abbattuto un aereo russo.

Da allora la situazione è però profondamente cambiata. Innanzitutto la Russia, assieme ai suoi alleati, è emersa come la potenza vincitrice della guerra siriana: grazie all’aiuto russo e iraniano, il regime di Damasco è infatti riuscito a sconfiggere i ribelli jihadisti foraggiati dalla Turchia, riconquistando il controllo di gran parte del paese e mandando a monte i sogni di gloria di Erdogan. In secondo luogo i rapporti tra la Turchia e gli USA si sono progressivamente deteriorati. Il primo motivo di attrito è legato proprio alla questione curda. Mentre Washington ha sostenuto militarmente le milizie curde siriane (YPG, Unità di Protezione Popolare) contro l’ISIS, il governo di Ankara, da sempre impegnato nella repressione del PKK (il Partito dei lavoratori del Kurdistan), ha visto come il fumo negli occhi la creazione di un’entità autonoma curda appena al di là del proprio confine, tanto più che il principale partito dei curdi siriani, il PYD (Partito dell’Unione Democratica), è strettamente legato al PKK.

Un secondo elemento di tensione è stato il fallito golpe militare del 2016 in Turchia, condotto da ufficiali legati alle strutture della NATO. Peraltro gli Stati Uniti ospitano tuttora sul loro territorio Fethullah Gulen, considerato dalle autorità turche l’ispiratore del colpo di Stato. È un aspetto non certo secondario per il regime di Erdogan: basti pensare che la grande maggioranza dei prigionieri politici nelle carceri turche, più di 34.000, sono classificati come “gulenisti”, una cifra di gran lunga superiore a quella già impressionante dei 10.000 prigionieri politici collegati al PKK.

È proprio a causa di questi contrasti con Washington che, per realizzare i propri obiettivi, Erdogan ha cominciato a guardare sempre di più in direzione di Mosca. E ha trovato un Putin assai ben disposto a superare i contrasti del passato, pur di staccare la Turchia dagli USA e farla entrare nella sfera di influenza russa. Così, a partire dal 2017, la Turchia è stata coinvolta, assieme a Russia e Iran, nei cosiddetti “colloqui di Astana” (dal nome della capitale del Kazakistan in cui si svolgono), voluti da Putin per stabilire i futuri assetti della Siria. Questi negoziati hanno rappresentato una svolta epocale, dal momento che per la prima volta il destino di un paese mediorientale è stato deciso sulla base di trattative tra potenze regionali (Iran e Turchia), sotto la regia della Russia e lasciando completamente ai margini le potenze occidentali.

I colloqui di Astana sono stati solo il primo passo. Nel gennaio del 2018 la Russia ha dato il via libera all’invasione turca del distretto di Afrin, un territorio curdo nella Siria nord-occidentale. Nel settembre dello stesso anno Putin ed Erdogan hanno siglato gli “accordi di Sochi”, che hanno congelato la situazione a Idlib, l’ultima roccaforte rimasta in mano ai ribelli siriani sostenuti dalla Turchia: proprio quando sembrava che Idlib fosse sul punto di cadere sotto la spinta delle truppe di Damasco, Mosca ha evitato un’umiliazione turca, acconsentendo ad un accordo per la creazione di una zona demilitarizzata. Ancora più clamoroso, nel luglio di quest’anno la Turchia, pur essendo un membro della NATO, ha acquistato i propri sistemi di difesa anti-missile dalla Russia.

Alla luce di tutto questo, è estremamente improbabile che Erdogan si sia imbarcato nella sua offensiva contro il Rojava, senza prima ottenere il consenso di Putin. Dopotutto i vincitori della guerra in Siria – Russia, Iran e regime di Damasco – avevano di fronte solo un ultimo ostacolo prima di assicurarsi il completo controllo del territorio: le milizie YPG, appoggiate dagli americani, nella Siria settentrionale. L’offensiva turca ha permesso loro di rimuovere questo ostacolo. Alcune fonti siriane riferiscono addirittura di un accordo sottobanco, in base al quale Putin ha lasciato ai turchi mano libera contro i curdi e in cambio Erdogan lascerà ad Assad altrettanta mano libera contro i ribelli di Idlib.

Il gioco di sponda è emerso chiaramente fin da subito nelle dichiarazioni pubbliche dei rispettivi governi. Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha definito “unità armate illegali” le milizie curde YPG, mentre il portavoce del Cremlino Peskov ha riconosciuto “il diritto della Turchia a garantire la propria sicurezza”, a patto di non minacciare l’integrità territoriale della Siria e compromettere il processo di pace avviato con i colloqui di Astana. Da parte sua Erdogan ha dichiarato che non avrebbe visto in modo negativo se la città di confine di Manbij fosse stata occupata dalle truppe di Assad, purché ne fossero allontanati i combattenti dell’YPG. Non bisogna nemmeno dimenticare che, quando alcuni paesi europei hanno presentato una risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di condanna contro l’offensiva turca, non sono stati solo gli USA a porre il veto, ma anche la Russia.

Anche le operazioni militari sembrano aver seguito una tabella di marcia in gran parte concordata. La frontiera turco-siriana è lunga 440 chilometri, ma l’offensiva turca si è concentrata essenzialmente su un settore limitato, di circa 120 chilometri, tra le località di Tal Abyad e Ras al Ain (in curdo Sere Kanye). Le truppe di Damasco hanno invece occupato tutti i principali centri attorno a questo settore: Kobane a ovest, Qamishli a est e Raqqua più a sud. L’incontro tra Putin ed Erdogan del 22 ottobre non ha dunque fatto altro che formalizzare la situazione delineatasi sul campo.

Il Cremlino ha ufficialmente dichiarato che il suo obiettivo è un ritorno agli “accordi di Adana”, siglati tra Siria e Turchia nel 1998, in cui il regime di Damasco cessava ogni forma di sostegno al PKK e consentiva alla forze armate turche di oltrepassare il confine durante le operazioni repressive contro i curdi. Fu proprio a causa di questi accordi che Ocalan, il leader del PKK, dovette lasciare la Siria e iniziare quelle peregrinazioni che lo avrebbero portato prima in Italia e poi alla cattura in Kenya nel 1999. Riportando in vigore questo vecchio trattato, Putin spera di normalizzare le relazioni tra Siria e Turchia, in modo che i due paesi possano bilanciarsi a vicenda, rendendo il ruolo di arbitro della Russia indispensabile per entrambe.

L’obiettivo di Putin è ora quello di stabilizzare la regione, in modo da consolidare gli avanzamenti ottenuti dalla Russia. Lo dimostra il fatto che lo scorso settembre il presidente russo ha compiuto un viaggio in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi, in cui, oltre a discutere di sostanziosi affari commerciali, ha esercitato pressioni sulle monarchie del Golfo perché la Siria venga riammessa nella Lega Araba, in modo da evitare l’isolamento economico e politico del suo alleato Assad.

Tuttavia non sarà così semplice imporre la “pax russa” in Medio Oriente e sono numerosi gli elementi che possono farla saltare. Innanzitutto la convivenza tra due nemici storici come Siria e Turchia è tutt’altro che scontata. Il 28 ottobre ci sono stati i primi scontri tra le forze regolari turche e siriane a sud di Tal Abyad e incidenti del genere potrebbero ripetersi. D’altronde quando dei banditi si spartiscono il bottino, ci scappa sempre qualche litigio…

C’è poi il problema dei milioni di profughi siriani fuggiti dalla guerra, la cui sistemazione sarà fonte di gravi tensioni, e il problema ancora più grande rappresentato dai miliziani islamisti presenti in Siria. Non si tratta solo dei prigionieri dell’ISIS tenuti in custodia nei campi di prigionia curdi, che potrebbero approfittare della situazione per fuggire e tornare in azione. Nell’offensiva lanciata da Erdogan, le forze armate turche hanno impiegato soprattutto aviazione, artiglieria e servizi logistici, ma le truppe d’assalto in prima linea erano costituite da mercenari jihadisti siriani. Forze di questo tipo sono state insediate dalla Turchia anche ad Afrin, dopo l’occupazione del 2018, mentre a Idlib è presente Al Nusra, un gruppo legato ad Al Quaeda. Queste bande di fanatici e tagliagole non sono facilmente controllabili; sebbene siano state sconfitte nella guerra civile dalla coalizione pro-Assad, ora sull’onda dei successi turchi potrebbero rialzare la testa e, con le loro azioni brutali e sconsiderate, riaccendere il conflitto in qualsiasi momento.

Il fattore che però può davvero sparigliare le carte, è senza dubbio la sollevazione dei popoli mediorientali, sulla pelle dei quali viene condotto il “grande gioco” tra le diverse potenze. Non abbiamo qui lo spazio per entrare nel dettaglio dei movimenti di massa che hanno scosso il Libano e l’Iraq, o della ripresa delle mobilitazioni in Egitto e Tunisia. Ci basti dire che, dopo la sconfitta delle primavere arabe del 2011, una nuova ondata rivoluzionaria sta attraversando il Medio Oriente. Il premier libanese Hariri è stato costretto a dimettersi, il suo omologo iracheno Mahdi lo seguirà presto e il processo contagerà inevitabilmente altri paesi afflitti dai medesimi problemi. Una simile precipitazione potrebbe davvero trasformare radicalmente i rapporti di forza nella regione, mandando in fumo tutti i calcoli di Putin e dei suoi alleati.

 

La folla radunata nel centro di Beruit (Libano) durante una delle proteste di Ottobre.

La partita di Erdogan

Erdogan ha lanciato l’offensiva contro i curdi per ragioni sostanzialmente interne. È significativo che negli anni della sua ascesa, quando l’economia turca cresceva e il sostegno popolare era forte, Erdogan fosse fautore di una politica di “dialogo” con i curdi. Dopo diciassette anni di potere incontrastato, invece, il “Sultano” deve ricorrere al nazionalismo più esasperato per dirottare il malcontento popolare contro i curdi. Una politica resa ancora più necessaria dopo l’emergere, tra le principali forze di opposizione, dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli), un partito di sinistra e filo-curdo, che ha ottenuto un exploit alle elezioni del 2015, superando il 13%.

A partire dalla fine del 2018 la Turchia è stata colpita da una pesante crisi economica, con la svalutazione della lira turca e un’inflazione arrivata al 25%. Questi problemi economici hanno determinato un calo dei consensi per il regime, come è emerso nelle elezioni amministrative svoltesi lo scorso giugno. Il partito di Erdogan, l’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), è stato sconfitto a Istanbul dall’opposizione del CHP (Partito Popolare Repubblicano). Si tratta di una sconfitta pesante, non solo perché ha riguardato la città più grande e importante del paese, ma soprattutto perché Erdogan ha cominciato la sua carriera politica proprio come sindaco di Istanbul, negli anni ’90.

La riduzione della base d’appoggio del regime è dimostrata dalla sua evoluzione in senso sempre più autoritario. Le ultime elezioni, nel 2018, si sono tenute mentre era in vigore lo stato d’emergenza e il candidato presidente dell’HDP, Selahattin Demirtas, era in prigione. In realtà, a partire dal fallito colpo di stato del 2016, in Turchia vige una sorta di stato d’emergenza permanente, con l’introduzione di leggi speciali contro il terrorismo, che assegnano all’esecutivo e alle autorità amministrative locali poteri speciali, tra cui quello di rimuovere funzionari pubblici (giudici compresi), limitare il diritto di assemblea e trattenere in stato di fermo i sospetti fino a dodici giorni senza la convalida di un magistrato. Si calcola che almeno 130.000 funzionari pubblici siano stati rimossi dai loro incarichi, mentre i prigionieri politici sono quasi 50.000. Queste cifre sono precedenti all’offensiva di ottobre e da allora c’è stata un’ulteriore stretta contro gli oppositori.

Una delle maggiori fonti di preoccupazione per il regime è la questione dei profughi siriani. Si dice che in Turchia siano presenti ben 3,5 milioni di profughi: la cifra probabilmente è esagerata, ma si tratta comunque di numeri giganteschi. Il problema dei profughi è stato sfruttato da Erdgogan per estorcere cospicui finanziamenti all’Unione Europea, ma sul fronte interno è stato utilizzato contro di lui. Il principale partito dell’opposizione, il CHP, nell’ultimo periodo si è spostato molto a destra e, per attirare l’elettorato conservatore dell’AKP, ha fatto ricorso alla demagogia xenofoba contro i profughi siriani.

La questione dei profughi è dunque scottante e, quando Erdogan afferma di volerli ricollocare nei territori sottratti ai curdi, non sta facendo mera propaganda e va preso sul serio. Basti pensare che ad Afrin, dopo l’occupazione turca nel 2018, sono stati insediati ben 300.000 profughi siriani. Ora Erdogan cercherà di fare lo stesso, su scala ancora più vasta, con la fascia di territorio che ha occupato lungo il confine siriano. Il suo scopo, oltre a quello di sbarazzarsi dei profughi, è quello di modificare la composizione etnica nella Siria settentrionale, sostituendo la popolazione curda con una popolazione araba, priva di alcun legame con i curdi all’interno della Turchia. I rimpatri sono già cominciati, ma molti profughi non provengono affatto dal Rojava e vi vengono condotti contro la loro volontà, forzatamente, nel corso di vere e proprie deportazioni.

_x000D_

Per il momento il calcolo politico di Erdogan sembra aver funzionato. L’isteria nazionalista attorno alla guerra ha tagliato le gambe all’opposizione, con il CHP che si è accodato al governo e l’HDP messo sempre più ai margini. Si tratta, tuttavia, di un successo effimero. Sotto la coltre di retorica nazionalista, tutte le contraddizioni che hanno portato alla crisi di consenso del regime sono ancora ben presenti; e una politica di avventure militari, per quanto redditizia nell’immediato sul piano propagandistico, alla lunga può esacerbare i problemi anziché risolverli.

La Turchia si ritrova oggi impelagata in Siria, al fianco di alleati scomodi come Russia e Iran, e la situazione potrebbe rapidamente sfuggirle di mano. Una volta eliminato il nemico comune (i curdi), la presenza turca nella Siria settentrionale non sarà accettata in maniera così pacifica. Nel tentativo di risolvere le sue difficoltà interne, Erdogan potrebbe fare il passo più lungo della gamba e trovarsi invischiato in un conflitto che non può controllare, in un contesto in cui anche il minimo rovescio in politica estera potrebbe risultargli fatale sul fronte interno.

Le difficoltà maggiori rimangono comunque quelle sul terreno economico. Ultimamente ci sono stati segnali di ripresa dell’economia turca, con una parziale riduzione dell’inflazione e il PIL che è tornato a crescere. I problemi più strutturali dell’economia turca non sono però stati risolti. La domanda interna è crollata e lo stesso ministro delle finanze Berat Albayrak (che guarda caso è il genero di Erdogan) ha dovuto ridurre le ottimistiche previsioni di crescita del governo per il 2019 dal 2,3% allo 0,5%, un dato preoccupante per un’economia che fino a due anni fa cresceva del 7,4%.

E’ vero che le sanzioni economiche dei paesi occidentali sono state ben poca cosa. Addirittura il giorno in cui Trump ha annunciato le sanzioni, la borsa di Instanbul è salita e la lira turca ha avuto un rialzo; d’altra parte dopo pochi giorni quelle sanzioni sono state ritirate. L’embargo sulla vendita di armi alla Turchia, deciso da alcuni paesi europei, è stato ancora più ipocrita e ridicolo, visto che ha avuto effetti insignificanti sulla macchina bellica turca ed è stato disposto da governi che in precedenza avevano fatto ottimi affari con Erdogan. Eppure a lungo andare la politica estera filo-russa e avventurista di Erdogan, che porta la Turchia in rotta di collisione con i principali paesi occidentali e crea una situazione di continua tensione internazionale, potrebbe avere effetti deleteri per un’economia già precaria, che dipende in larga misura dagli investimenti stranieri. Nei giorni dell’offensiva, ad esempio, la Volkswagen ha congelato un investimento di 1,3 miliardi per la costruzione di uno stabilimento in Turchia e potrebbe decidere di spostare la produzione in Bulgaria o in Slovacchia. Casi simili potrebbero ripetersi.

In questo contesto di conflitto all’esterno e di peggioramento delle condizioni economiche all’interno, è probabile che anche in Turchia ci saranno esplosioni sociali, come quelle cui stiamo assistendo in Libano o in Iraq. Quello che è accaduto nel 2013, con il movimento di massa di Gezi Park contro Erdogan, si ripeterà con dimensioni ancora maggiori.

Il metodo nella follia di Trump

La decisione di Trump di abbandonare i curdi e ritirare le truppe americane dalla Siria settentrionale, lasciando campo libero all’avanzata turca, è stata unanimemente criticata sia negli Stati Uniti che nei paesi europei. Il Congresso americano ha addirittura votato una risoluzione bipartisan di condanna contro la politica di Trump sulla Siria, un problema non da poco visto che il presidente è sottoposto a una procedura di impeachment e per salvarsi avrà bisogno almeno del voto del Senato a maggioranza repubblicana.

Al di là delle polemiche, la perdita di prestigio e di credibilità per l’imperialismo americano, e più in generale per l’Occidente, è stata effettivamente pesante. Il ritiro americano ha lasciato la Russia padrona della situazione. Le truppe russe hanno letteralmente soppiantato quelle americane nel nord-est della Siria. Se fino a poche settimane fa la frontiera turco-siriana era sorvegliata da pattuglie congiunte di soldati americani e turchi, ora è presidiata da contingenti turchi e russi. Ha fatto un certo effetto vedere le immagini della popolazione curda che lanciava pietre e pomodori contro le colonne americane in ritirata, mentre i militari russi occupavano le basi americane abbandonate. Soprattutto la scelta di Trump ha reso una politica filo-americana assai poco allettante per tutti gli attori sulla scena mediorientale: se essere alleati americani vuol dire fare la fine dei curdi, è decisamente preferibile guardare altrove, magari in direzione di Mosca (o meglio, di Sochi), tanto più che gli alleati di Putin sembrano passarsela decisamente meglio.

Dopodiché a ben guardare, per quanto le conseguenze della politica di Trump siano disastrose, nemmeno l’alternativa – aumentare la presenza militare in Siria ed esasperare ulteriormente le relazioni con la Turchia – sembrava così geniale. Non è un caso che i governi europei, pur criticando aspramente Trump, alla fine si siano comportati esattamente come lui. Anche Francia e Gran Bretagna avevano truppe in Siria, ma si sono ben guardate da impiegarle – o rafforzarle – per difendere i curdi e, dopo il ritiro degli americani, si sono affrettati a fare altrettanto.

La verità è che la mossa di Trump, a differenza di come la presentano i mass media, non è stata dettata da stupidità o pazzia. E’ stata piuttosto il tassello di una linea politica ben precisa di disimpegno degli USA dalle missioni militari all’estero. Come ha dichiarato più volte e fin dalla sua prima campagna elettorale, Trump vuole davvero ritirare le truppe americane, allo scopo di accrescere il suo consenso e vincere le elezioni nel 2020. E al di là delle sue stravaganze, sta perseguendo questa linea con una certa coerenza.

In Afghanistan gli Stati Uniti hanno avviato da tempo negoziati con i Talebani, con l’obiettivo di completare il ritiro dal paese: se ad oggi le trattative sono a un punto morto, non è certo per la mancanza di buona volontà degli inviati americani, ma sostanzialmente perché i Talebani hanno dato vita ad una nuova campagna di attacchi per negoziare da una posizione di maggior forza. A giugno Trump ha cancellato all’ultimo momento un attacco programmato contro l’Iran e a settembre ha licenziato il suo consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, fautore di una vera e propria guerra contro il regime di Teheran.

Anche per quanto riguarda la Siria, Trump aveva espresso la volontà di ritirarsi già nel dicembre 2018, il che aveva portato alle dimissioni il segretario alla Difesa, l’ex generale Jim Mattis, contrario alla politica di disimpegno. Da allora il presidente ha dovuto condurre un vero e proprio braccio di ferro con il Pentagono e probabilmente ha colto l’iniziativa di Erdogan per imporre la propria decisione. In realtà il tira e molla con i militari è proseguito anche dopo l’annuncio del ritiro dal Rojava. Dapprima, mentre Trump parlava di un’evacuazione totale, il Pentagono sosteneva che la maggior parte dei soldati fosse rimasta sul campo; poi il grosso delle forze è stato fatto ripiegare in Iraq, ma un piccolo contingente è comunque rimasto in Siria; successivamente una parte delle truppe è stata fatta ritornare indietro dall’Iraq…

Alla fine sembra essere stato raggiunto un accordo tra il presidente e i vertici militari, per cui alcune centinaia di soldati americani rimarranno in Siria, dislocati presso la base di Tanf, al confine con la Giordania, e nella zona di Deir Ez-Zor, dove si trovano i principali giacimenti petroliferi del paese. Dal suo punto di vista, Trump è ben lieto di lasciare a Putin tutte le gatte da pelare e di accaparrarsi il petrolio siriano per le imprese americane, ma va detto che la presenza di un contingente americano così esiguo e isolato in un territorio ostile, rischia di essere più una fonte di problemi che di opportunità.

Ad ogni modo la politica di Trump non è così peregrina come potrebbe sembrare. Il bilancio di quasi un ventennio di interventi militari americani, dall’era Bush in avanti, è impietoso. Le guerre in Afghanistan e Iraq, con i loro enormi costi economici e politici, invece di rafforzare la posizione degli USA a livello mondiale, l’hanno indebolita a tutto vantaggio dei loro nemici. In Afghanistan gli americani sono oggi costretti a trattare con i Talebani da una posizione di debolezza. Della guerra in Iraq si è avvantaggiato soprattutto l’Iran, che oggi controlla la gran parte del territorio iracheno. In Siria è la Russia a dettar legge… Da questo punto di vista lo slogan “porre fine alle guerre infinite”, ribadito in tutti i tweet presidenziali, può fare molta presa non solo sugli elettori americani, ma anche su un settore della classe dominante, stanco di sostenere il fardello di un impegno militare sempre più dispendioso e controproducente.

In fin dei conti la linea di Trump ha il pregio di riconoscere la fase di declino che sta attraversando l’imperialismo americano e trarne le dovute conseguenze. Prima di lui, lo stesso Obama era dovuto scendere a patti con questa spiacevole realtà: l’accordo sul nucleare con l’Iran del 2015 era finalizzato soprattutto a coinvolgere il vecchio nemico iraniano in un processo di stabilizzazione delle regione e consentire così di ridurre lo sforzo bellico americano. La politica estera di Obama era – forse – un po’ più raffinata di quella di Trump, ma partiva dalle medesime premesse.

Naturalmente il declino americano è relativo: gli USA rimangono una grande potenza e nemmeno Trump pensa davvero di smantellare interamente la presenza ramificata delle forze armate americane in Medio Oriente, che hanno basi in un gran numero di paesi. Su questo ci basti far notare che, mentre annunciava il ritiro delle truppe in Siria, la Casa Bianca autorizzava l’invio di altri 1.500 soldati americani in Arabia Saudita. Ciò non toglie che Trump si voglia sbarazzare, senza troppi complimenti e senza preoccuparsi troppo delle conseguenze a lungo termine, di tutti quegli impegni militari che non ritiene in linea con gli interessi immediati degli USA. Su questo è molto selettivo e sembra interessato quasi esclusivamente a consolidare l’alleanza con Israele e Arabia Saudita, due tradizionali alleati degli USA, i cui rapporti con Washington si erano però molto logorati durante la presidenza di Obama, a causa delle aperture di quest’ultimo nei confronti del loro arci-nemico, l’Iran.

I due punti d’appoggio scelti da Trump non sembrano però così solidi. In Israele Nethanyau, con cui Trump aveva costruito un rapporto privilegiato, ha dovuto rinunciare al mandato di formare un nuovo governo, dopo che le ultime elezioni non sono andate come aveva sperato. L’Arabia Saudita è invece impantanata da anni in una guerra in Yemen che non riesce a vincere contro i ribelli Houthi filo-iraniani e proprio recentemente ha dimostrato tutta la sua vulnerabilità: a settembre forze collegate all’Iran sono riuscite a bombardare Abqaiq, il più importante stabilimento petrolifero del paese, dimezzando momentaneamente la produzione saudita di greggio. Peraltro né l’Arabia Saudita né Israele hanno gradito la strategia di Trump in Siria, dal momento che entrambi sostenevano i curdi in funzione anti-iraniana.

La leadership curda e l’abbraccio mortale con l’imperialismo

L’eroica resistenza dei curdi a Kobane nel 2014 contro l’assedio dell’ISIS ha suscitato grandi simpatie in tutto il mondo. Da allora il carattere popolare, laico e democratico delle milizie YPG, così come il ruolo delle donne curde combattenti nelle Unità di Protezione delle Donne (YPJ), hanno colpito l’immaginario delle forze di sinistra e dei movimenti giovanili in molti paesi. La lotta nel Rojava sembrava davvero l’unico elemento progressista in tutto il Medio Oriente.

Ora tutto questo è venuto meno. I curdi siriani, stritolati tra l’occupazione turca e la “protezione” di Assad, hanno perduto ogni autonomia. Si tratta di un pesante passo indietro e non solo per il Rojava, ma per tutta la Siria: ora che il regime ha ripreso il controllo di gran parte del territorio, avrà gioco fin troppo facile, dopo anni di sanguinosa guerra civile, nel presentarsi come l’unico elemento di stabilità e nello screditare qualsiasi opposizione come portatrice di caos, violenza e fondamentalismo religioso.

Se è dovere di ogni internazionalista mobilitarsi contro l’aggressione turca contro il popolo curdo, è altrettanto necessario comprendere le ragioni di questa sconfitta. Delle responsabilità di Erdogan, Putin e Trump abbiamo già detto, così come dell’ipocrisia dei governi europei, ma questo non può farci chiudere gli occhi sui gravi errori commessi dalla direzione del PYD.

L’errore principale è stato quello di affidarsi all’imperialismo americano. Da sempre le grandi potenze sfruttano le piccole nazioni e i diritti delle minoranze nazionali come pedine della loro politica estera, per poi sacrificarle e svenderle alla prima occasione utile. Ed è esattamente quello che è accaduto anche questa volta. Gli USA hanno prima impiegato le YPG e YPJ come truppe sul campo per debellare l’ISIS, dopodiché le hanno abbandonate alla mercé dei loro peggiori nemici.

I curdi non hanno davvero ottenuto nulla dagli americani. Anche la tregua di cinque giorni concordata tra il vice-presidente americano Pence e Erdogan, presentata come un “favore” fatto ai curdi, in realtà è stata a tutto vantaggio dei turchi. Dopo otto giorni di combattimenti, le milizie curde erano riuscite a tenere la città di Ras al Ain, respingendo tutti gli attacchi dei miliziani jihadisti al servizio della Turchia. Ebbene, grazie alla tregua negoziata da Pence, i curdi hanno dovuto evacuare Ras al Ain e così Erdogan ha ottenuto per via diplomatica quello che non era riuscito ancora a conquistare militarmente.

Il tradimento di Trump è stato tanto clamoroso quanto prevedibile. Già lo scorso dicembre il presidente americano aveva dichiarato di volersi ritirare dalla Siria a seguito della sconfitta dell’ISIS e solo un anno prima aveva lasciato che l’esercito turco invadesse il cantone curdo di Afrin senza battere ciglio. Nonostante tutti questi segnali rivelatori, la leadership curda ha ostinatamente proseguito nella sua linea filo-americana.

Il problema è che il PYD non si è limitato a ricevere armi dagli americani o a stabilire una qualche forma di cooperazione militare contro un nemico comune, ma si è spinto molto più in là, perseguendo una vera e propria alleanza politica con l’imperialismo USA e subordinandosi alle direttive provenienti da Washington. I dirigenti curdi hanno accettato che gli USA installassero basi militari in Rojava e, quando nel 2017 Trump ha lanciato un attacco missilistico contro la Siria, lo hanno appoggiato pubblicamente, non certo la mossa più saggia per suscitare solidarietà verso la causa curda nel resto della popolazione siriana.

Su pressione degli americani, le YPG hanno dato vita alle “Forze democratiche siriane”, un fronte militare in cui sono confluite varie milizie tribali sunnite e turkmene, composte in gran parte da elementi reazionari e fondamentalisti legati al clan locali, che nel corso della guerra civile hanno cambiato schieramento più di una volta. Va da sé che una coalizione con simile forze non poteva che essere in aperta contraddizione con gli intenti progressisti dell’esperienza del Rojava.

E non è tutto. I curdi siriani si sono trovati di fatto ad essere parte integrante della coalizione di Trump contro l’Iran. L’aviazione israeliana ha utilizzato basi in Rojava per condurre bombardamenti contro le milizie filo-iraniane in Iraq. I leader del PYD hanno persino ricevuto finanziamenti e intrattenuto rapporti amichevoli con l’Arabia Saudita, il bastione della contro-rivoluzione in tutto il Medio Oriente e a lungo uno dei principali finanziatori dell’ISIS.

Le concessioni nei confronti degli USA sono arrivate al punto che, prima dell’offensiva turca, le YPG hanno accettato di ritirarsi dalla frontiera con la Turchia, lasciando che il confine fosse pattugliato esclusivamente da truppe americane e turche. Un cedimento che sarebbe dovuto servire ad evitare un’invasione turca e invece non ha fatto altro che facilitare il lavoro delle truppe di Erdogan.

Più in generale l’alleanza con gli USA ha rappresentato un grosso fardello, perché ha screditato la lotta dei curdi agli occhi dei popoli del Medio Oriente, che ben conoscono i crimini dell’imperialismo americano nelle loro terre. Un problema decisamente serio visto che i curdi rappresentano solo il 10% della popolazione del Medio Oriente, sono divisi in quattro Stati diversi e dunque non potranno mai ottenere l’indipendenza senza prima conquistarsi la simpatia e il sostegno degli altri popoli mediorientali.

La questione nazionale curda

Non è lo scopo di questo testo sottoporre ad un’analisi approfondita la teoria del “confederalismo democratico” di Ocalan, che ispira la linea tanto del PYD in Siria che del PKK in Turchia. Per questo rimandiamo all’articolo di Andrea Davolo La rivoluzione democratica nel Rojava. Limiti, potenzialità e prospettive delle lotte del popolo curdo. Quello che qui ci interessa sono le conseguenze immediatamente pratiche di questa teoria, che si pone come obiettivo la creazione di spazi di auto-governo democratico all’interno degli Stati esistenti e non la creazione di nuove forme statali. Adottando questa linea, le organizzazioni curde hanno di fatto limitato il loro orizzonte politico al federalismo e all’autonomia, rinunciando alla lotta per l’autodeterminazione e per la creazione di un Kurdistan indipendente. E questo è stato un altro errore gravido di conseguenze.

La creazione di un Kurdistan indipendente avrebbe un carattere estremamente progressista, in quanto rappresenterebbe un colpo mortale per tutti i regimi reazionari che opprimono le minoranze curde – Turchia, Iraq, Siria e Iran – e trasformerebbe radicalmente il volto di tutto il Medio Oriente. Negli scorsi anni sono esistite condizioni favorevoli per realizzare questo obiettivo, in quanto il Rojava non era l’unico governo autonomo curdo nella regione. Fin dal 2005 esiste infatti una regione autonoma curda anche nell’Iraq settentrionale, il Governo Regionale del Kurdistan (KGR). Se il Rojava e il KGR si fossero uniti tra loro, avrebbero costituito una prima base per costruire un nuovo Stato curdo, che a sua volta sarebbe stato un importante punto d’appoggio per la lotta delle minoranze curde in Turchia e Iran.

Eppure non un solo passo è stato mosso in questa direzione. Il PYD si è accontentato di tentare di costruire il suo esperimento di autogoverno nella Siria settentrionale sotto la protezione dell’imperialismo americano, con gli esiti che conosciamo. Ancora più nefasto è stato il ruolo dei dirigenti dei curdi iracheni. Il KGR è di fatto un feudo del clan Barzani: per dodici anni il presidente è stato Masud Barzani, che ha ereditato la sua posizione di leader del PDK (Partito Democratico del Kurdistan) dal padre Mustafa (morto nel 1979); nel 2017 Masud è stato costretto a dimettersi, ma a succedergli è stato suo nipote, Nechrivan Barzani, mentre suo figlio Masrour è diventato primo ministro. Il governo dei Barzani si è caratterizzato per la corruzione e il clientelismo, ha condotto attacchi contro le condizioni di vita dei ceti popolari e non ha esitato a fare ricorso alla repressione contro le lotte dei lavoratori. Nel 2017, allo scopo di stornare il malcontento delle masse verso il governo centrale di Baghdad, il KGR ha indetto un referendum. La popolazione ha votato a stragrande maggioranza (92,73%) a favore dell’indipendenza dall’Iraq, ma il referendum è rimasto lettera morta: il KGR non aveva alcuna intenzione di condurre una lotta seria per l’indipendenza e si è affrettato a “congelare” il risultato referendario.

Da anni il PDK e gli altri principali partiti curdi iracheni hanno adottato una politica di aperta collaborazione con l’imperialismo americano: è significativo che, dopo l’invasione del 2003, il Kurdistan sia stato l’unica parte dell’Iraq in cui non si è sviluppato un movimento di resistenza contro le truppe d’occupazione americane. Quel che è ancora più scandaloso è che i Barzani sono alleati di vecchia data della Turchia di Erdogan! La prima azione del nuovo presidente Nechirvan Barzani, insediatosi lo scorso giugno, è stata quella di recarsi in visita a Istanbul per discutere con Erdogan delle relazioni commerciali tra la Turchia e il KGR. Alla luce di questo, non stupisce certo che le milizie curde irachene, i peshmerga, non abbiano mosso un dito per aiutare i curdi siriani sotto attacco.

Dunque vediamo come sia in Siria che in Iraq i gruppi dirigenti curdi abbiano preferito condurre una politica di piccolo cabotaggio, ritagliandosi spazi di autonomia sotto l’ala degli americani, piuttosto che farsi carico dei diritti e delle aspirazioni del popolo curdo nel suo insieme. Anche il PKK turco non è stato esente da questa impostazione di corte vedute. Basterà ricordare che nel 2013 i curdi non hanno partecipato al movimento di massa di Gezi Park contro Erdogan, poiché in quel periodo Ocalan era impegnato nei negoziati di pace con il governo turco. Il PKK ha perso così un’occasione d’oro per collegare la lotta per i diritti dei curdi alla mobilitazione più generale delle masse turche, senza peraltro ottenere nulla dai negoziati: il processo di pace è rapidamente finito in un vicolo cieco e nel 2015 Erdogan ha scatenato una vasta operazione militare contro le aree curde all’interno della Turchia.

Questa politica di corte vedute ha prodotto talvolta effetti davvero paradossali. Ad esempio esiste una branca del PKK attiva anche in Iraq, che si contrappone al KGR ed è alleata con le Unità di Mobilitazione Popolare, le milizie scite filo-iraniane, e con l’Iran. Un’alleanza davvero scellerata, se pensiamo che il regime di Teheran è un arci-nemico dei curdi, non meno di quello di Ankara: l’Iran infatti non solo opprime la minoranza curda all’interno dei propri confini, ma sostiene anche il regime di Assad e si adopera per mantenere il Kurdistan iracheno assoggettato al governo centrale (filo-iraniano) di Baghdad. Si è così arrivati all’assurdo di vedere, nello scontro tra Iran e Arabia Saudita per la preminenza regionale, il PKK iracheno schierato su un fronte (quello iraniano) contrapposto rispetto a quello della sua organizzazione gemella, il PYD siriano, allineato invece con i nemici dell’Iran (Israele e Arabia Saudita).

Lo scontro tra la diverse fazioni curde non fa altro che agevolare la repressione nei diversi paesi. Ad esempio, nel mese di maggio il KGR ha vergognosamente appoggiato un’operazione militare delle forze armate turche in territorio iracheno, volta a colpire il PKK. D’altra parte il PKK iracheno, in cambio dell’appoggio di Teheran, ha negato ogni forma di sostegno alla lotta delle organizzazioni curde iraniane, accusandole anzi di essere al servizio di potenze straniere: un’accusa non completamente priva di fondamento, visto che i curdi iraniani sono effettivamente finanziati dall’Arabia Saudita, nemica irriducibile del regime degli Ayatollah.

Da tutto questo emerge uno scenario davvero avvilente, in cui il movimento curdo è dilaniato dagli scontri interni e le minoranze curde sono ridotte a pedine nello scontro tra le diverse potenze regionali. Non stupisce che Erdogan sia riuscito a concentrare le sue forze di volta in volta contro solo una porzione del popolo curdo – nel 2015-2016 contro il PKK in Turchia, nel 2018-2019 contro il Rojava – senza essere disturbato su altri fronti. Sembra incredibile ma la coalizione sciita filo-iraniana ha dimostrato maggior coesione e solidarietà al suo interno, rispetto a quella curda: dopotutto le milizie libanesi Hezbollah hanno oltrepassato il confine per andare in soccorso del loro alleato Assad e aiutarlo a vincere la guerra civile, mentre i peshmerga iracheni non sono mai andati in soccorso dei loro fratelli in Turchia o in Rojava.

Questa situazione deplorevole rende la rivendicazione di un Kurdistan indipendente e unito ancora più centrale, perché è l’unica che può superare le attuali divisioni e unificare realmente il popolo curdo, facendo piazza pulita di tutte le politiche miopi e opportuniste portate avanti dei ceti curdi locali in lotta tra loro.

La questione del socialismo

Sia il PYD che il PKK, pur avendo un retroterra di sinistra, nei loro programmi hanno abbandonato qualsiasi ipotesi di costruzione di una società socialista. Nella teoria del “confederalismo democratico”, così come non si va oltre i confini degli attuali Stati nazionali, allo stesso modo non si va oltre i confini dell’attuale economia capitalista.

Si tratta anche in questo caso di un passo indietro, perché con la rinuncia alla lotta per il socialismo, il movimento curdo si priva dell’unico strumento politico in grado di costruire un legame con le classi oppresse dei paesi mediorientali. I regimi reazionari che opprimono i curdi sono infatti gli stessi che costringono la stragrande maggioranza della loro popolazione a vivere in condizioni terribili di povertà e arretratezza. La chiave per la vittoria è una battaglia comune. La macchina militare di Erdogan non può essere fermata né dalle sanzioni di Trump, né dalle dichiarazioni ipocrite dell’Unione Europea, ma solo da un movimento rivoluzionario della classe lavoratrice turca. È in quest’ambito che il popolo curdo deve costruire le sue alleanze, non nella “comunità internazionale”.

Questo scoglio non può essere facilmente aggirato. Il carattere multi-etnico del Rojava è stato molto celebrato, ma anche esagerato. Se è vero che nella Siria settentrionale i curdi non sono caduti nella violenza settaria contro la popolazione cristiana o araba, la diffidenza tra le diverse comunità non è comunque venuta meno. Le comunità cristiane sono per esempio rimaste legate al regime di Assad, che storicamente le ha protette, e quando le truppe di Damasco sono entrate nella città curda di Qamishli, i cristiani sono scesi in strada a festeggiare. E quando le YPG, nel corso della lotta contro l’ISIS, hanno conquistato diverse aree in cui la popolazione era in maggioranza araba, non sono mancati i momenti di tensione e contrasto con le comunità locali. Perché per quanto fossero popolari, progressiste e tolleranti, le YPG venivano comunque viste come una forza nazionale curda, un corpo estraneo rispetto alla popolazione araba. Il che ha contribuito non poco a rendere precaria la posizione del Rojava davanti ai suoi nemici esterni.

Non è un caso che invece i più grandi avanzamenti ottenuti dai curdi siano stati conquistati sulla base di lotte più generali. La stesso governo autonomo del Rojava è nato a seguito della rivoluzione in Siria del 2011, che prima di venir egemonizzata dalle forze fondamentaliste è stata un autentico movimento popolare, che ha coinvolto una parte della popolazione siriana ben più ambia rispetto a quella curda. Anche l’HDP in Turchia ha ottenuto i suoi migliori risultati quando è riuscito a raccogliere consensi non solo nelle tradizionali aree curde, ma anche nel resto del paese, sulla base di un programma che univa la lotta per i diritti dei curdi con una serie di rivendicazioni a favore della classe lavoratrice turca nel suo complesso.

Una prospettiva rivoluzionaria e socialista è l’unica che può unire le masse oppresse in Medio Oriente, superando tutte le barriere religiose, etniche e nazionali. Questo è ancora più vero se guardiamo alle sollevazioni dell’ultimo periodo: in Libano le mobilitazioni di massa hanno fatto venire meno le storiche differenze tra sciiti, sunniti, cristiani e drusi, che sono scesi in piazza assieme, e portato invece alla ribalta le differenze di classe, tra la grande maggioranza di giovani, lavoratori e poveri da una parte e l’élite corrotta al potere dall’altra. Lo stesso processo si sta verificando in Iraq, dove le proteste hanno toccato sia le zone a maggioranza sunnita che quelle a maggioranza sciita.

Lo sbocco naturale di questi movimenti non può che essere quello di espropriare le ricchezze delle classi dominanti per metterle a disposizione di tutta la popolazione; di sostituire alla vecchie istituzioni anti-democratiche nuovi organismi di potere popolare, che rappresentino effettivamente i giovani, gli operai, i disoccupati e i contadini; di affermare il controllo democratico dei lavoratori sulle risorse economiche, in modo che siano gestite davvero nell’interesse della collettività; di liberare la regione dalla presenza economica e militare dell’imperialismo e riconoscere il diritto all’autodeterminazione per le minoranze nazionali oppresse; di avviare un processo di integrazione e federazione tra i diversi paesi mediorientali, in modo da spazzare via quelle barriere nazionali create dagli accordi di spartizione delle potenze occidentali.

Senza queste misure rivoluzionarie ci saranno solo cambiamenti di facciata e questi processi deraglieranno esattamente come le primavere arabe del 2011, facendo tornare a galla tutti i vecchi problemi: violenza settaria, fondamentalismo religioso, oppressione nazionale, intervento dell’imperialismo straniero, etc. La rivendicazione di un Kurdistan indipendente e socialista, inteso come primo passo verso una federazione socialista del Medio Oriente, non è dunque una frase astratta, ma il ponte indispensabile per unire la battaglia del popolo curdo a quella della classe lavoratrice mediorientale e garantire la vittoria di entrambe.

La rivendicazione di un Kurdistan indipendente e socialista, inteso come primo passo verso una federazione socialista del Medio Oriente, non è dunque una frase astratta, ma il ponte indispensabile per unire la battaglia del popolo curdo a quella della classe lavoratrice mediorientale e garantire la vittoria di entrambe.

Condividi sui social