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Critica della “teoria critica”. Il marxismo e la Scuola di Francoforte

di David R. Garcia Colìn Carrillo e Alessandro Giardiello

 

La “teoria critica” è stata una delle principali correnti del “marxismo occidentale”, rappresentata da un gruppo di intellettuali che a partire dalla metà degli anni ’20, ed in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, ha sviluppato posizioni critiche verso lo stalinismo e la socialdemocrazia.
Per quanto non seppero proporsi come “terza via”, né sul piano politico-filosofico né su quello metodologico, su cui concentreranno ossessivamente la loro attenzione, le loro idee ebbero grande diffusione e credito nelle università in Europa e America Latina, in particolare negli anni ’60 e ’70, quando i loro libri vennero pubblicati in centinaia di migliaia di copie.
Tra le figure più conosciute del “marxismo occidentale” possiamo annoverare Lukacs, Althusser, Korsch, Sartre, Della Volpe, Colletti ed i professori del celebre Istituto della ricerca sociale, meglio conosciuto come Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse, Benjamin, Habermas).
È su questi ultimi, sostenitori della “teoria critica” che concentreremo la nostra attenzione. Non c’è dubbio infatti che rappresentino la punta avanzata di una corrente filosofica, che pur nascendo nell’alveo del marxismo se ne è allontanata rapidamente riportando a galla vecchie concezioni idealistiche, contro cui si erano battuti Marx ed Engels in gioventù.1
Questo giudizio che può apparire drastico è tuttavia condiviso da storici come Martin Jay che, a differenza di chi scrive, non può essere accusato di non simpatizzare per le idee dell’Istituto.
Nella sua storia sulla Scuola di Francoforte (la cui l’introduzione è a opera di Horkheimer), Martin Jay si esprime in questi termini: “(…) non solo la Scuola di Francoforte non ha lasciato dietro di sé tracce di una teoria marxista ortodossa in campo ideologico, ma ha persino incluso Marx nella tradizione illuminista (…) in definitiva l’istituto ha prodotto una così sostanziale revisione del marxismo da perdere il diritto ad esserne considerato uno dei suoi numerosi seguaci”.2
Non sapremmo dirlo meglio di così.

Le origini

L’Istituto della ricerca sociale venne fondato il 3 febbraio del 1923, quando Lenin era ancora vivo, grazie a una donazione dell’impresario Hermann Weil, padre di Felix Weil che con Grunberg, Horkheimer e Pollock fu uno dei fondatori della Scuola di Francoforte.
All’inizio si occupava di ricercare ed archiviare testi e documenti della storia del movimento operaio con fini teorici ed accademici. Nel 1925 strinse un accordo con il direttore dell’Istituto Marx-Engels di Mosca, David Rjazanov, per collaborare alla pubblicazione delle opere complete di Marx-Engels.
Tuttavia nel 1938, tredici anni più tardi, quando Rjazanov venne fucilato nella terza purga di Stalin, solo 12 dei 42 tomi erano stati pubblicati.
Nonostante in origine l’Istituto fosse marxista, sotto la direzione di Horkheimer, che ne divenne presidente nel 1930, cambiò natura e salì su quella torre d’avorio, che lo separò dal movimento reale della classe operaia. Non ne sarebbe mai più disceso.
Horkheimer, a differenza del suo predecessore Grunberg, non aveva mai partecipato alla vita di un partito operaio. Sotto la sua direzione l’unità organica tra teoria e prassi che aveva caratterizzato gli intellettuali marxisti per almeno tre generazioni cadde nell’oblio.
Fin dal discorso inaugurale alla presidenza, tracciò una linea di rottura con il materialismo storico che avrebbe caratterizzato la Scuola di Francoforte negli anni a venire.
Quando Hitler giunse al potere, l’Istituto fu costretto a trasferirsi a New York, la qual cosa produsse un’ulteriore involuzione politica, dovuta all’adattamento verso i circoli intellettuali piccolo-borghesi delle università americane.
Durante la guerra Marcuse, seppure in un’ottica antinazista, sarà persino un collaboratore della Oss, l’antesignana della Cia.
Quando nel 1950 l’Istituto fece ritorno in Germania e il governo dell’Ovest avviava i preparativi per mettere fuori legge il Kpd (Partito comunista tedesco); la musica non cambiò di molto: Horkheimer, diverrà un sostenitore sempre più entusiasta del sistema capitalista,3 Adorno assumerà posizioni anti-studentesche,4 mentre il solo Marcuse si manterrà formalmente dalla parte del movimento del ’68.5

Il prodotto di un riflusso storico

Al di là delle caratteristiche politiche e personali dei singoli personaggi e delle differenze che pure esistevano tra di loro, la deriva dell’Istituto e più in generale dei “marxisti occidentali” ha precise ragioni storiche, politiche e sociali.
L’Urss dopo la morte di Lenin degenerò in una dittatura totalitaria, i rivoluzionari della prima ora furono deportati in Siberia o mandati al plotone d’esecuzione, i militanti dell’opposizione di sinistra perseguitati in ogni dove.
Con l’assassinio di Trotskij da parte di un sicario stalinista nell’agosto del 1940, si spezzava l’ultimo filo di continuità con l’Ottobre. Di tutti i membri del comitato centrale del partito bolscevico che aveva conquistato il potere nel 1917, ad eccezione di Stalin, nessuno era più in vita nel 1940.
Su 25 solo 7 erano morti per cause naturali, gli altri 17 erano stati assassinati o spinti al suicidio dal regime burocratico che si era insediato al Cremlino.6
Sebbene la crisi del ’29, avesse acutizzato lo scontro di classe generando nuovi fermenti rivoluzionari, il sabotaggio sistematico da parte degli stalinisti e della socialdemocrazia produsse nuove sconfitte del movimento operaio.
Alla vittoria di Hitler nel ’33, seguì quella dei fascisti austriaci nel febbraio del ’34 e di Franco nel 1939, che arrivò al potere sulle ceneri del proletariato spagnolo. Mussolini ebbe nuovi alleati in Europa e lo scoppio della Seconda guerra mondiale divenne inevitabile.
Sebbene la guerra finì con la sconfitta dei nazifascisti, il successivo tradimento dei movimenti rivoluzionari e partigiani da parte degli stalinisti,7 a cui seguì il piano Marshall e il boom economico del ’48-’73, permisero una fase di stabilizzazione del sistema capitalista e con essa un rafforzamento delle burocrazie dei partiti operai.
Se da una parte il boom economico dava nuovo ossigeno per politiche riformiste e keynesiane, dall’altra la vittoria dell’Armata rossa, rafforzava l’immagine dello stalinismo.8
Nonostante i gravi errori commessi dalla burocrazia sovietica nel condurre la guerra (a partire dal patto Molotov-Ribbentrop), la vittoria fu possibile grazie all’eroismo e al gigantesco tributo di sangue pagato dalla popolazione sovietica.9
L’effetto combinato disposto di questi fattori provocò una crisi verticale delle forze del marxismo rivoluzionario. La Quarta Internazionale formata da Trotskij nel 1938, alla pari delle altre tendenze antistaliniste, subì un notevole indebolimento e arretramento sul piano politico e teorico, che si tradusse in una deriva settaria.10
La teoria marxista finiva sotto la cappa di piombo dello stalinismo, che la svuotava di contenuto deformando a tal punto le idee di Marx, Engels e Lenin da renderle irriconoscibili.
In campo filosofico regnava il Diamat, che nella sua rigida e meccanica applicazione del marxismo, trasformò il materialismo dialettico in un dogma quasi religioso, imbalsamato e privo di vita.
Buona parte degli intellettuali di sinistra, che non erano omologati al regime di Mosca, vennero avvolti da una nube di cupo pessimismo, che produceva i suoi effetti nefasti in campo filosofico.

L’illuminismo all’origine di tutti i mali

È così che nel 1947, Max Horkheimer e Theodor Adorno pubblicarono Dialettica dell’illuminismo, un libro in cui venivano anticipati i temi di fondo che avrebbero caratterizzato la Scuola di Francoforte.
A differenza di Marx ed Engels che parlarono sempre con entusiasmo dei giganti del Rinascimento e degli illuministi francesi,11 Horkheimer e Adorno sostengono l’idea che l’illuminismo “ha negato se stesso, trasformandosi in dominio, mito e barbarie”.12
La tesi è che la filosofia dei lumi degenera nel dominio dell’uomo e nella sua alienazione. Di conseguenza nulla può salvarsi al cospetto della mercificazione e del dispotismo burocratico. Una visione apocalittica, a dir poco.
Invece di un’analisi oggettiva sulle cause dello sfruttamento capitalistico e della degenerazione del potere sovietico, Horkheimer e Adorno buttano tutto in un calderone propinandoci una sorta di terrorismo terminologico che attribuisce le cause dello sfruttamento al “potere delle idee”, piuttosto che alle sue basi oggettive.
Per gli autori della Dialettica dell’illuminismo la scienza è mito e di per sé è totalizzante: “Il concetto di immanenza, che considera ogni evento come ripetizione, che l’illuminismo sostiene di fronte all’immagine mitica, è al principio del mito stesso”.13
Un piccolo esempio è sufficiente per smontare l’argomento: se la scienza fosse pura mitologia per definizione non è applicabile alla produzione. Lo sfruttamento e l’estrazione di plusvalore, attraverso l’uso della scienza, sono fatti oggettivi. I miti possono essere utili per dominare le teste della gente e contribuire al rafforzamento del comando capitalistico, ma di per sé sono incapaci di estrarre anche un solo atomo di plusvalore.
Non a caso i due autori decisero di disfarsi della teoria del valore di Marx, sostenendo che nel sistema industriale moderno anch’essa ne uscirebbe “alterata”.14 Una tesi che anticipò di almeno quindici anni quella degli operaisti italiani e che sarebbe diventata molto popolare tra i teorici del “marxismo occidentale”.
La conclusione inevitabile è la negazione della conquista del potere e dell’abbattimento del sistema capitalista come obiettivi politici: “Non è tanto, e non è più, la proprietà privata dei mezzi di produzione a generare nuove forme di schiavitù, perché come si è visto nell’esperienza dell’Urss staliniana, l’abolizione della proprietà privata non porta ad alcun tipo di liberazione”.15
Cosa può condurci dunque alla liberazione? Nulla. Secondo i teorici della Scuola di Francoforte i proletari (e le masse in generale) non sono più in condizioni di fare una rivoluzione neanche volendolo: “La regressione delle masse consiste oggi nella loro incapacità ad ascoltare con il proprio udito quello che non è mai stato udito, di toccare con le proprie mani quello che non è stato ancora toccato: una nuova forma di cecità che sostituisce tutte le cecità mitiche sconfitte”.16
Marcuse qualche anno più tardi si spingerà a dire che: “(…) la società capitalista si fonda precisamente nella sua capacità di assorbire il potenziale rivoluzionario, di liquidare la negazione assoluta, e di soffocare la necessità di un cambiamento qualitativo del sistema; (…) siamo in una società classista nella quale la classe operaia non rappresenta la negazione dell’esistente. (…) Questa non è una tendenza solo dei paesi avanzati ma include anche i paesi arretrati: credo che si estenderà con relativa rapidità anche ai paesi industriali meno sviluppati”.17
Un quadro che dire disperante è dire poco.
Per buona pace di Marcuse e compagni, la realtà si incaricherà di smentirli sonoramente: di lì a poco si incendierà la rivoluzione nei paesi coloniali e in rapida successione esploderanno i grandi movimenti del proletariato europeo, il Maggio ’68, l’Autunno caldo, i processi che porteranno alla caduta delle dittature in Grecia, Spagna e Portogallo.

L’uomo a una dimensione

La principale opera di Marcuse, L’uomo a una dimensione venne pubblicata nel 1964. Si apriva con una frase che è tutto un programma: “Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico”.18
Il libro si dilunga in una critica al consumismo e alla sublimazione dei desideri nella società di mercato. Vengono ripresi concetti di psicologi come Freud e Wilhelm Reich con uno sforzo di applicarli in campo filosofico e politico, non senza innumerevoli forzature.
Marcuse sostiene la tesi che nell’inconscio si trovano i fondamenti biologici della libertà (si spinge fino al punto di individuare il fondamento biologico del socialismo) e di una moralità solidale, intesa come non repressione degli impulsi sessuali, che in una società egualitaria non verrebbero repressi ma orientati verso fini non distruttivi, artistici e umanistici. Quest’impulso di libertà, latente nella coscienza dell’uomo viene definito Eros.19
Secondo un tipico approccio idealista Marcuse identifica l’impulso sessuale di Freud con il concetto storico di libertà; trasformando l’idea di libertà in un concetto metafisico, che in quanto biologico è parte immanente della natura umana. Partendo da Freud, si spinge oltre Freud, parlandoci di un inconscio rigido che si basa su un contenuto monotematico (impulso sessuale) dato una volta per tutte.
Ma mentre la pulsione sessuale è un elemento permanente (e dunque biologico) della coscienza umana, tanto quanto lo è la sete o la fame, non possiamo trasformare la libertà in un concetto permanente e inalterabile della psiche, confondendo una necessità fisiologica con un concetto ideologico.
È certo che nella amigdala cerebrale (la parte più primitiva del cervello umano) si trovano impulsi ereditati dall’evoluzione biologica come la paura, l’impulso sessuale, la furia, ecc., ma possiamo essere assolutamente certi che non esiste alcun concetto aprioristico di libertà.
La psiche umana si manifesta e muta storicamente tanto nel contenuto come nella forma, non ci risulta infatti che l’uomo del paleolitico avesse nel suo inconscio alcun concetto di libertà.
Marcuse introduce furtivamente nell’inconscio delle persone, un concetto determinato storicamente. Trasformare un concetto ideologico che è il prodotto della rivoluzione borghese in elemento “biologico” della coscienza umana, equivale a trasformare l’ombra ideologica della società capitalistica in un contenuto naturale della psiche.
A tal proposito consideriamo pertinenti le osservazioni di Marx (nella polemica con Proudhon) contenute in una lettera ad Annenkov: “Egli ritiene che i prodotti della società borghese siano esseri spontanei, dotati di vita propria, eterna, poiché gli si presentano sotto la forma di categorie, di pensiero. Così egli non supera l’orizzonte borghese. Operando in tal modo sui pensieri borghesi come se fossero veri per l’eternità, egli cerca la sintesi di questi pensieri, il loro equilibrio, e non vede che il loro modo attuale di equilibrarsi è l’unico possibile”.20
Così come Hegel vede nello sviluppo storico l’implementazione di un’idea assoluta che si identifica con la libertà, così Marcuse vede nella civiltà tecnologica la repressione di una libertà biologica che è presente in natura.
Trotskij ci ricorda le conseguenze di un simile approccio e di una concezione metafisica applicata ai valori morali: “Posta al di sopra delle classi, la morale conduce inevitabilmente al riconoscimento di una sostanza particolare, di un senso morale assoluto che non è altro che timido pseudonimo filosofico di Dio. La morale indipendente dai ‘fini’, vale a dire dalla società – che la si deduca dalle verità eterne o dalla ‘natura umana’–, in fin dei conti non è che un aspetto della ‘teologia naturale’. I cieli rimangono la sola posizione fortificata da cui si possa muover guerra al materialismo dialettico”.21
Partendo da questi presupposti Marcuse oltre a vedere un abisso incolmabile tra il pensiero socialista e la prassi del proletariato nella società contemporanea, teorizza che il capitalismo è un sistema invincibile in quanto: “la società di altissimo sviluppo industriale è una società dove sono sparite le crisi di sovrapproduzione, una società nella quale quella che fu una libera società di mercato si è trasformata in una società pilotata dal profitto, dal carattere monopolista privato e dirigista statale, in un capitalismo organizzato. (… ) Tutte le opposizioni reali sono sul punto di scomparire (…) e tutto questo, nella società industriale altamente sviluppata, accade senza bisogno del terrore, nell’ambito della democrazia, sotto la forma del pluralismo democratico”.22
Già Horkheimer nella Critica della ragione strumentale aveva sostenuto l’idea che la tecnologia comportava di per sé dominio, Marcuse si spinge oltre affermando che “una continuità tecnologica tra il socialismo e il capitalismo più che una rottura costituirebbe un incatenamento nefasto, per la semplice ragione che le macchine da strumenti si sono trasformate in struttura stessa, in un apparato di schiavitù e di dominio”.23
Mentre per Marcuse l’ostacolo principale per il proletariato risiede nella tecnologia e la rivoluzione diventa “una rottura dell’apparato tecnico di produzione”, per Marx è una “rottura dei rapporti di proprietà esistenti”.
Un fenomeno (l’alienazione) che prodotto da determinati rapporti sociali diventa un aspetto strutturale delle macchine e della tecnologia per cui la tecnologia capitalista è nociva di per sé, il socialismo ha dunque bisogno di tecnologia rinnovata, esorcizzata e non contaminata. Questo concetto più che con il marxismo ha a che vedere con il luddismo.24
È indubbiamente vero che la scienza non sfugge all’ideologia e che nel capitalismo viene utilizzata e sviluppata per lo sfruttamento, ma questo non elimina i fattori oggettivi della scienza e il potenziale di emancipazione che i suoi frutti possono avere sotto differenti rapporti di produzione e di proprietà.
Tanto Marx, quanto Engels riscontrano nella prassi trasformatrice (inclusa la pratica scientifica) un criterio di verità. In una delle Tesi su Feuerbach (l’ottava) si afferma che: “La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nell’attività pratica umana e nella comprensione di questa prassi”.25

Il marxismo sovietico

Nel suo libro, Il marxismo sovietico, Marcuse dichiara di respingere il riformismo di Bernstein, in quanto (a differenza di Adorno) si definisce socialista. Un buon punto di partenza anche se nel testo non riconoscerà altro socialismo al di fuori di quello stalinista.
L’unica conclusione che si può trarre leggendo il libro è che non esisteva altro movimento comunista al di fuori di quello ufficiale.
Marcuse prende per buone diverse teorie staliniste. Sostiene ad esempio che la teoria del socialismo in un paese solo sia stata un’invenzione di Lenin e non di Stalin.26 Tutto il libro è permeato dall’idea dello stalinismo come figlio legittimo del leninismo.27
Così come Stalin aveva eliminato Trotskij sul piano fisico, Marcuse lo elimina sul piano intellettuale. Non si capisce altrimenti come in un saggio sul marxismo in Urss e il periodo post-rivoluzionario, riesca a menzionare Trotskij, capo dell’Armata rossa e principale oppositore dello stalinismo, solo una volta e per dire che era stato lui e non Lenin a teorizzare che il sistema capitalista poteva rompersi negli “anelli deboli”,28 senza per altro citare la teoria della Rivoluzione permanente, da cui può aver dedotto questa conclusione e che in effetti ebbe una brillante conferma nella Rivoluzione d’Ottobre.
Sarebbe come scrivere un saggio sulla rivoluzione messicana e non menzionare (o menzionare appena) Emiliano Zapata o Pancho Villa o scrivere sull’evoluzione della specie senza parlarci delle teorie di Darwin.
Tutta l’opera di Marcuse è nel fondo un’apologia velata del regime stalinista: la classe lavoratrice ad occidente si era imborghesita e l’isolamento della rivoluzione russa era inevitabile. Date queste condizioni il regime non poteva far altro che manovrare nelle contraddizioni interimperialistiche.29 Di conseguenza lo stalinismo rispondeva ai rapporti di forza reali. Si spinge persino a giustificare il terrore stalinista: “la situazione di coesistenza ostile può spiegare i lineamenti terroristici dell’industrializzazione stalinista”.30

La dialettica della natura

L’unico terreno di critica che Marcuse sviluppa nei confronti del regime stalinista è quello della filosofia e della dialettica, nel quale coinvolge Engels in modo del tutto inappropriato.
Nal capitolo La dialettica e le sue vicissitudini riprenderà un tema già affrontato dal giovane Lukacs, seppure da una visuale diversa, ripreso in seguito da molti altri, sulla non applicazione della dialettica alla natura.
Partendo dal suo concetto di alienazione, Marcuse definisce la dialettica, un metodo logico che si realizza solo nel processo di liberazione dell’umanità, il che equivale a dire che vige solo in contesti rivoluzionari. Non a caso definisce la dialettica una “logica della liberazione”.31
A partire dalla tesi che la dialettica si manifesta solo nelle fasi acute del conflitto di classe, deduce arbitrariamente che essa possa operare solo nella storia e non nella natura. Da false premesse, false conclusioni.
Una tesi, la cui unica conclusione possibile è che in una società senza classi, il comunismo, non esisterebbe alcuna contraddizione dialettica, cosa che non è mai stata affermata, né pensata da Marx, e che avrebbe fatto impallidire lo stesso Zdanov.32 Il comunismo, come ultimo stadio dell’evoluzione umana e come fine della storia.
Se qualcosa ha dimostrato la ricerca scientifica, anche alla luce delle scoperte più recenti, è che la natura è attraversata continuamente da contraddizioni dialettiche a prescindere dall’azione soggettiva dell’uomo.33
Marcuse cita Engels dall’Anti-Dühring quando definisce la dialettica “scienza delle leggi generali del moto e dello sviluppo della natura, della società umana e del pensiero” ma aggiunge che lo stesso Engels avrebbe notato che tanto la natura come la società sono “fasi dello sviluppo storico”. La società sì, ma dove Engels lo avrebbe affermato rispetto alla natura? Marcuse non lo dice.
Lasceremo che sia Marx a difendere il compagno di mille battaglie; in una lettera a Ludwig Kugelmann, su questo punto sarà lapidario: “Le leggi della natura non possono mai essere annullate. Ciò che può mutare in condizioni storiche diverse non è che la forma con cui quelle leggi si impongono (…)”.34
A quali leggi si riferisce Marx se non a quelle della dialettica? Marcuse e tutti coloro che hanno speculato su una presunta contraddizione tra Marx ed Engels nell’applicazione della dialettica alla natura o peggio hanno attribuito ad Engels e poi a Lenin (in Materialismo ed empiriocriticismo) delle responsabilità per le concezioni filosofiche sviluppate nell’Urss dalla burocrazia stalinista, hanno fatto una semplice operazione di contrabbando politico e filosofico.
Nel farlo non solo hanno legittimato lo stalinismo da un punto di vista storico ma hanno oscurato qualsiasi prospettiva rivoluzionaria per il futuro. Riconosciamo ai teorici della scuola di Francoforte, di essere stati in questo, i più conseguenti in assoluto.
Per quanto sia vero che le idee di Horkheimer, Adorno e Marcuse esprimevano la demoralizzazione della piccola borghesia intellettuale di fronte alle sconfitte del movimento operaio tra gli anni ’30 e ’50, è altrettanto vero che la teoria marxista ha tra i suoi scopi principali proprio quello di mantenersi ferma sui principi anche in epoche reazionarie.
Se qualcosa insegna la storia è che quando si perde la bussola, non la si recupera facilmente neanche quando la situazione oggettiva comincia a cambiare, come si è visto negli anni ’60 e ’70, quando i “marxisti occidentali” si sono mantenuti “coerenti” con le posizioni scorrette che avevano sviluppato nella fase precedente, contribuendo a confondere il movimento con concezioni antimaterialiste e antimarxiste.
Lasciamo che sia Trotskij a trarre le conclusioni politiche, definendo i compiti dei rivoluzionari e il significato più profondo della teoria marxista: “Le epoche reazionarie non solo disintegrano e indeboliscono la classe operaia e la sua avanguardia, ma abbassano anche il livello ideologico del movimento in generale e fanno ripiegare il pensiero politico su fasi da tempo superate. In queste condizioni il compito dell’avanguardia è soprattutto quello di non lasciarsi portare dal riflusso; deve nuotare contro la corrente. Se un rapporto di forza sfavorevole le impedisce di conservare le posizioni materiali che ha conquistato, deve per lo meno mantenere quelle ideologiche, perché in queste si esprime l’esperienza del passato, acquisita ad alto costo. Gli sciocchi considerano ‘settario’ questo atteggiamento, ma in realtà è l’unico strumento per prepararsi per il nuovo slancio in avanti che verrà quando tornerà a crescere la marea della storia”.35

 

Note

1. Il riferimento è alla Sacra famiglia e all’Ideologia tedesca, gli scritti che come commenterà Marx nel 1859, servirono a “fare i conti con la nostra anteriore coscienza filosofica”.

2. Citato da L’immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto per le ricerche sociali (1923-1950) di Martin Jay, Einaudi, Torino, 1979.

3. Si veda a tal proposito l’intervista rilasciata da Horkheimer a Der Spiegel, il 6 gennaio 1970.

4. Quando nell’estate del ’67 gli studenti occuparono un’aula dell’Istituto della ricerca sociale per chiedere loro sostegno alla loro mobilitazione, Adorno, che dirigeva l’Istituto, diede istruzione ad Habermas di chiamare la polizia, che intervenne sgomberando l’aula e arrestando gli studenti. L’episodio è citato in Adorno y lo politico di Silvia Schwarzbock, Prometeo, Buenos Aires, 2008, p. 118.

5. Marcuse in una lettera ad Adorno protestò per il suo atteggiamento contro gli studenti: “Se l’alternativa è tra la polizia e gli studenti dell’estrema sinistra mi schiero dalla parte degli studenti” ivi, p. 119 (la traduzione è nostra).

6. Si veda: Per una storia grafica del bolscevismo di L. Trotskij. https://www.marxists.org/italiano/trotsky/1936/6/7-storia.htm

7. Sul ruolo degli stalinisti nella resistenza italiana segnaliamo: La Guerra partigiana. Una lotta per il comunismo di Paolo Brini.

8. Sullo scenario post-bellico, le ragioni dello sviluppo economico e del rafforzamento dello stalinismo si raccomanda la lettura de Il lungo filo rosso, scritti scelti di Ted Grant, A.C. Editoriale, Milano, 2007, in particolare i seguenti articoli: Il cambiamento dei rapporti di forza in Europa e il ruolo della Quarta Internazionale (p. 294-318), Ci sarà una recessione? (p. 447-467).

9. Sulla condotta della burocrazia stalinista nella Seconda guerra mondiale e il patto Molotov-Ribbentrop: Russia dalla rivoluzione alla controrivoluzione, Ted Grant, A.C. Editoriale, Milano, 1998.

10. Sull’argomento si veda il Programma dell’Internazionale. Contenuto ne Il lungo filo rosso (op. cit., pp. 503-549).

11. Engels in particolare si pronuncerà in questi termini: “Fu il più grande rivolgimento progressivo che l’umanità avesse fino allora vissuto: un periodo che aveva bisogno di giganti: giganti per la forza del pensiero, le passioni, il carattere, per la versatilità e l’erudizione. Gli uomini che fondarono il moderno dominio della borghesia erano tutto, fuorchè limitati in senso borghese” (F. Engels, Dialettica della natura, Edizioni Rinascita, Roma, 1950, p. 14).

12. M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialèctica de la ilùstraciòn, Madrid, Trotta, 2005, p. 56 (traduzione nostra).

13. Ivi p. 67.

14. Ivi p. 18.

15. Ivi p. 73.

16. Ivi p. 89.

17. H. Marcuse, Discusìon con los marxistas, Proceso, Argentina, 1970, p.12 (traduzione nostra).

18. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1967, p. 21.

19. H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 1974, p. 62.

20. Lettera di K. Marx a P.V. Annenkov, 28 dicembre 1846, in Marx-Engels, Opere complete, Editori riuniti, Torino, 1972, XXXVIII volume, pagg. 466-7.

21. L. Trotskij, La loro morale e la nostra, Nuove edizioni internazionali, Milano, 1995, pag. 49.

22. H. Marcuse, Discusìon con los marxistas, Proceso, Argentina, 1970, pp.13-14 (traduzione nostra).

23. H. Marcuse, S. Mallet, A. Gorz Reexamen del concepto de revolucion in Marcuse antes sus criticos, Mexìco, Grijalbo, 1970, p.48 (traduzione nostra).

24. Movimento di protesta sorto agli inizi dell’800 in Inghilterra in cui gli operai sabotavano e distruggevano i macchinari industriali. Si era nella preistoria del movimento operaio e gli operai individuavano ingenuamente nell’introduzione di nuove tecnologie come il telaio meccanico la causa della disoccupazione e dei bassi salari.

25. K. Marx, Tesi su Feuerbach, 1945, rintracciabile su: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1845/3/tesi-f.htm

26. In H. Marcuse, Il marxismo sovietico, Guanda, Parma, 1968, p. 38, Marcuse prova a confondere le idee del lettore quando cita Lenin: “la vittoria del socialismo all’inizio è possibile in alcuni paesi capitalisti soltanto”. Nell’articolo Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, Lenin non dice che sia possibile costruire il socialismo in un paese solo, ma constata semplicemente che una rivoluzione simultanea a livello mondiale è un processo molto improbabile, se non impossibile, dunque necessariamente il proletariato deve prendere il potere in un un paese per poi estenderlo ad altri.

27. Ivi, p. 11: “… e innegabile che anche la ricostruzione stalinista della società sovietica si fondò sul leninismo”.

28. Ivi p. 27: “Per la verità, l’idea che la catena capitalistica dovesse venir spezzata nel suo ‘anello più debole’, concetto che, dopo la rivoluzione, venne ulteriormente ribadito da Stalin, va originariamente attribuita a Trotskij piuttosto che a Lenin”.

29. Ivi p. 44.

30. Ivi p. 41.

31. Ivi p. 120.

32. Andrej Aleksandrovic Zdanov, nel periodo staliniano fu censore e arbitro della linea culturale del Pcus e presidente del Presidium dell’Unione Sovietica (1946-47).

33.  Sull’applicazione della dialettica nel campo delle scienze naturali si raccomanda La rivolta della ragione, A. Woods, T. Grant, A.C. Editoriale, Milano, 1996.

34. Lettera di K. Marx a L. Kugelmann, 11 luglio 1868, in Marx-Engels, Opere complete, Editori riuniti, Torino, 1972, XLIII volume, p. 598.

35. L. Trotskij, Stalinismo e bolscevismo, 29 agosto 1937, opuscoli FalceMartello, A.C. Editoriale, Milano, 2013.

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