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1 Aprile 2017Ripubblichiamo questo articolo scritto nel 2011 da Serena Capodicasa e Paolo Grassi sui movimenti autoconvocati negli anni ’80 e ’90.
di Serena Capodicasa e Paolo Grassi
Lezioni dai movimenti autoconvocati negli anni ’80 e ’90
È soprattutto nei periodi di acuta crisi economica come quello che stiamo attraversando, che si manifesta l’inadeguatezza sindacale nel contrastare gli attacchi di governi e padroni. La storia del movimento operaio è ricca di esperienze in cui i lavoratori hanno dovuto sopperire all’immobilismo dei dirigenti, prendendo l’iniziativa della lotta autorganizzandosi e senza aspettare che fossero le direzioni a “dare il là”. I movimenti autoconvocati nel 1984 e 1992-93 sono degli esempi di questo: movimenti che hanno fatto saltare il tappo imposto da apparati burocratici pachidermici, sollecitando un dibattito all’interno dei sindacati sulle forme di rappresentanza e di controllo dal basso delle mobilitazioni.
1984 – Autoconvocati contro il taglio della scala mobile
La recessione economica del 1974-75, la svolta dell’Eur e la sconfitta alla Fiat del 1980 segnarono, dopo le lotte degli anni ’60-’70, l’inizio di un nuovo ciclo in cui i padroni si apprestavano a riprendersi tutto quello che erano stati costretti a concedere al movimento operaio, con la dichiarata disponibilità delle burocrazie sindacali. È in questo contesto che si inserisce l’accordo del 14 febbraio 1984, con cui il governo Craxi tagliò di quattro punti la scala mobile (il meccanismo col quale i salari venivano agganciati automaticamente all’inflazione).
Ancora di fronte al primo attacco alla scala mobile sferrato il 22 gennaio 1983 con un accordo che tagliava i decimali dal calcolo degli scatti, i tre sindacati confederali erano compatti nel difendere la scelta di firmare. La risposta dei lavoratori non si fece però attendere: in molte fabbriche (da Genova a Palermo, da Asti a Pontedera) partirono infatti scioperi spontanei. Con queste premesse il segretario nazionale della Cgil Luciano Lama si vide costretto a non firmare l’accordo di San Valentino un anno dopo, rompendo per la prima volta dal 1972 l’unità dei sindacati confederali. Una svolta dettata dalla pressione montante dal basso che esplose sotto forma di manifestazioni e scioperi spontanei indetti da consigli di fabbrica autoconvocati. Già la mattina del 14 febbraio, 310 consigli di fabbrica convocarono a Bologna una manifestazione con più di 60mila persone, in 18mila scesero in piazza a Reggio Emilia, nel napoletano una riunione di 13 consigli di fabbrica alla Italsider di Bagnoli proclamò quattro ore di sciopero. La stessa cosa accadde a Verona dove, il 17 febbraio, uno sciopero indetto da 15 consigli di fabbrica vide l’adesione di una cinquantina di aziende e a Brescia dove all’appello del consiglio di fabbrica autoconvocato della Atb risposero centinaia di fabbriche. La modalità fu dunque la medesima: singoli consigli di fabbrica o coordinamenti di consigli che si autoconvocavano, proclamavano scioperi con manifestazioni e aggregavano così rapidamente i lavoratori delle fabbriche vicine. La Cgil si ritrovò quindi a dover appoggiare scioperi e mobilitazioni completamente al di fuori del controllo dell’apparato.
Chi erano gli autoconvocati?
Di fronte ad una Cgil che, pur non avendo firmato l’accordo, rimaneva immobile anzichè contrastarlo sul terreno della mobilitazione, i lavoratori trovarono il canale di espressione della loro rabbia nei consigli di fabbrica. Nonostante avessero perso molte delle caratteristiche democratiche con cui erano nati durante l’Autunno caldo, i consigli vennero usati come strumento non solo per lanciare le mobilitazioni, ma anche per esprimere la critica nei confronti dei vertici e la richiesta di maggiore democrazia nel sindacato.
In questo processo un ruolo da catalizzatore fu giocato dalla presenza in molte delle fabbriche in prima linea nel movimento di una organizzazione politica come Democrazia proletaria che, per quanto non fosse un partito di massa, aveva un radicamento operaio di centinaia di quadri in importanti insediamenti (Pirelli, Fiat, Alfa Lancia, Ansaldo, Italsider, ferrovie, pubblico impiego).
Questi rappresentarono la spina dorsale del movimento e più tardi, nel novembre 1984, diedero vita a Democrazia consiliare, un’area di sinistra all’interno della Cgil che si identificava con il movimento dei consigli.
Nella relazione introduttiva dell’assemblea nazionale dei consigli che si tenne il 6 marzo a Milano, Evaristo Agnelli, operaio della Same di Treviglio, parlò dell’esistenza di un “doppio sindacato, quello burocratico e quello dei consigli, dai quali è necessario adesso ripartire per ricostituire unità e forza delle organizzazioni dei lavoratori, le quali non si possono sciogliere per decreto”.
Il Manifesto per la democrazia approvato dalla stessa assemblea recita: “La Cgil-Cisl-Uil hanno il compito di direzione politica e proposta nei confronti dei Consigli e dei lavoratori. Pertanto è necessario un profondo rinnovamento della loro vita e del loro funzionamento interno, con maggiore trasparenza e decentramento nella formazione delle decisioni, riducendo il ruolo ed il peso dell’apparato a tempo pieno e rivalutando quello della militanza e delle competenze tecniche e scientifiche”. L’orientamento del movimento era dunque rivolto all’interno delle organizzazioni sindacali tradizionali, rispetto alle quali si proponeva di scardinare il fardello dell’apparato burocratico a favore del ruolo protagonista dei delegati e dei lavoratori in prima linea nelle mobilitazioni. Purtroppo anzichè avanzare la necessità di una direzione alternativa, l’assemblea manteneva un atteggiamento di pungolo e pressione nei confronti di quella esistente senza metterla in discussione. Ciò lasciava lo spazio a settori di apparato locali e successivamente alla direzione nazionale della Cgil per potersi mettere alla testa del movimento e farlo rifluire. Non a caso, proprio durante l’assemblea di Milano del 6 marzo, in cui veniva avanzata la proposta di una grande manifestazione nazionale per il 24 dello stesso mese, si riuniva la segreteria nazionale della Cgil che decise di convocare una manifestazione per lo stesso giorno.
Quella che viene ricordata come una giornata storica per il movimento operaio italiano, con un milione di persone a Roma, fu dunque il risultato di uno “scippo” con cui la burocrazia cavalcò il movimento per tirarne il freno: “Oggi è una giornata straordinaria per i lavoratori e per la Cgil, ma è una manifestazione che non si dovrà più ripetere”, disse Lama durante il comizio conclusivo. L’iniziativa fu quindi deviata sul piano istituzionale, dapprima con l’ostruzionismo parlamentare del Partito comunista, poi con la proposta del referendum abrogativo del decreto, spostandola dal piano delle lotte nelle fabbriche. Considerando la passività dei vertici sindacali nella campagna, il risultato di 46% di Sì (superiore alla somma dei partiti che l’avevano sostenuto) era dunque lì a dimostrare il potenziale che era stato dissipato dalle direzioni delle organizzazioni operaie.
É sulla base di questa sconfitta e della profonda sfiducia accumulata dai lavoratori verso i sindacati tradizionali che assistiamo alla fine degli anni ’80 alla nascita di esperienze di base. Tra le esperienze che riuscirono a mettere in campo le mobilitazioni più importanti, ci fu quella del Comu (Coordinamento dei macchinisti uniti) che, nato come coordinamento che raccoglieva anche tanti iscritti della Cgil, riuscì con un appoggio di massa a paralizzare in più occasioni il paese con gli scioperi, mettendo in grosse difficoltà la macchina burocratica confederale e conquistando il diritto a essere riconosciuto ai tavoli di trattativa nazionale. Purtroppo però, il Comu rinunciò alla lotta per estendere anche nelle altre categorie i propri metodi di coordinamento e alla conseguente battaglia per la democratizzazione dei sindacati, isolandosi così dal movimento e facilitando una sua sconfitta.
La sinistra sindacale in Cgil
La svolta degli anni ’80 produsse anche nella Cgil un riposizionamento dell’apparato. Al congresso del 1991 per la prima volta venne presentato un documento alternativo, Essere sindacato, il cui principale dirigente era Fausto Bertinotti. Questo documento nasceva dall’aggregazione del gruppo dei 39, nato nell’89 con l’autoconvocazione promossa da Bertinotti di un settore di dirigenti sindacali, e Charta ’90, che vedeva l’adesione di alcuni settori che con lo scioglimento del Pci aderirono al Movimento per la rifondazione comunista e Democrazia consiliare. Nell’area tuttavia prevalse rapidamente una logica di internità negli apparati e negli organismi dirigenti che impedì di proseguire una battaglia conseguente nel sindacato, per estendere l’esperienza degli autoconvocati e distinguersi con una mozione alternativa al congresso del 1986.
Nonostante Essere sindacato nascesse come opposizione di vertice, fin dai suoi primi mesi di vita raccolse ampi sostegni nella base organizzata della Cgil, raccogliendo al congresso circa il 18% dei consensi, in particolare nei metalmeccanici, e vincendo il congresso nella Camera del lavoro di Brescia e in diverse importanti fabbriche. Ciononostante, l’ampio consenso ricevuto nei settori più determinati tra i militanti della Cgil non venne mai realmente organizzato in una vera opposizione, riducendosi a una semplice contrapposizione negli organismi dirigenti, come si sarebbe visto durante il movimento dell’autunno 1992.
1992 – Bulloni contro il sindacato concertativo
L’attacco alla scala mobile sferrato dal governo Craxi nel 1984 non sarebbe stato l’ultimo: con il primo dei famigerati accordi di luglio, quello del ’92, sfruttando vigliaccamente la chiusura estiva delle fabbriche, Cgil, Cisl e Uil, governo Amato e Confindustria ne sancirono l’abolizione con l’introduzione della politica dei redditi. Il contesto precedente il movimento del 1992 è dunque simile a quello da cui era nato quello del 1984, con una Cgil, questa volta guidata da Bruno Trentin, completamente disponibile ad accettare arretramenti storici delle condizioni dei lavoratori. Di fronte alla maxi manovra da 93mila miliardi di lire di metà settembre, seguita ad una crisi finanziaria che aveva costretto l’Italia ad uscire dal Sistema monetario europeo, i sindacati risposero convocando scioperi regionali nell’arco di due settimane, evitando in questo modo di dare un’eccessiva prova di forza e sperando di far scemare la mobilitazione con tante piccole valvole di sfogo. I lavoratori appena rientrati nelle fabbriche presero invece l’occasione al volo: quegli scioperi andarono ben oltre la contestazione della manovra e misero sotto accusa le burocrazie sindacali per la scellerata firma dell’accordo del 31 luglio.
Fu proprio in quelle manifestazioni che infatti partirono le contestazioni, i famosi lanci di bulloni, contro i dirigenti di Cgil, Cisl e Uil; Trentin venne pesantemente contestato a Firenze il 22 settembre.
“Non possiamo solo aspettare che i dirigenti del sindacato si sveglino, dobbiamo prendere l’iniziativa in prima persona”, queste le parole d’ordine con cui 250 delegati di Torino si autoconvocarono per criticare lo “sciopero a metà” di quattro ore proclamato dai sindacati per il 13 ottobre. In diverse fabbriche metalmeccaniche (Fiat Mirafiori, Aeritalia, Alenia, Furlan, Sapa, Elbi, Sandretto, Pianelli & Traversa, Sicmat solo per citarne alcune) ci furono scioperi autoconvocati articolati.
Nel frattempo il consiglio di fabbrica del Corriere della sera pubblicò un appello a cui nel giro di pochi giorni risposero centinaia di consigli di fabbrica, che il 20 ottobre si riunirono a Milano e lanciarono una giornata di mobilitazione nazionale da svolgersi entro metà novembre. Ma l’immobilismo delle direzioni sindacali di fronte alla decisione del governo di porre la fiducia sul decreto della manovra spinse il “coordinamento dei consigli unitari” a convocare lo sciopero generale per il 29 ottobre, giorno in cui si sarebbe svolto lo sciopero dei chimici. Anche in questo caso l’iniziativa dal basso, rappresentando la combattività e la “rabbia schiumante” dei lavoratori nelle fabbriche, mise i dirigenti con le spalle al muro: la Cgil prese atto e appoggiò lo sciopero. D’altronde di fronte alla prospettiva di essere travolta dalla tigre, la burocrazia poteva evitare solo così di essere completamente delegittimata. In alcuni casi, come quello della Camera del lavoro di Milano e del suo segretario Ghezzi, venne addirittura offerto un appoggio economico e logistico. Dopo il successo del 29 ottobre (con 50mila manifestanti a Milano) il movimento si riunì in altre due assemblee nazionali: il 9 e il 27 novembre, ma qui emersero i suoi limiti. Tanto per cominciare, il diritto di voto venne concesso solo ai delegati rappresentanti “consigli unitari”, quelli cioè in cui i delegati di tutti i sindacati avevano aderito alle autoconvocazioni, esautorando l’iniziativa di singoli delegati. Anche sul piano delle proposte si giunse ad un impasse quando, tra forti critiche tra la platea, si optò per “una settimana di mobilitazione, aperta da una giornata nazionale di lotta l’11 dicembre”, abbandonando la parola d’ordine dello sciopero generale nazionale.
Il ruolo di Essere sindacato
Le parole con cui Fausto Bertinotti commentò le divisioni nel movimento, rivelano un atteggiamento più da osservatore che da diretto interessato: “[il movimento dei consigli, Ndr] anche nella sua dialettica interna conferma di non essere un semplice episodio, ma lo specchio sociale dell’Italia” (La Stampa, 10 novembre 1992), confermando di rappresentare una sinistra sindacale che, pur rappresentando posizioni corrette, ad esempio contro l’accordo di luglio, in base alle quali aveva guadagnato appoggio e radicamento tra importanti settori di lavoratori, si organizzava più in base alle posizioni conquistate negli organismi che al suo radicamento nei posti di lavoro, e non metteva questo al centro della strategia per rovesciare la maggioranza concertativa e porsi come direzione alternativa.
Anzichè lavorare per estendere il movimento a partire dalla promozione dell’elezione di nuovi consigli laddove questi non erano rappresentativi e ridare così impulso alla mobilitazione, il coordinamento dei consigli unitari e Essere sindacato incanalarono il movimento sullo stesso binario che nel 1985 aveva portato alla sconfitta sulla scala mobile: un referendum sulla rappresentanza per abrogare l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, che la garantiva solo ai sindacati maggiormente rappresentativi o firmatari di contratti nazionali.
La lezione del 1985 non era servita: negli stessi mesi in cui si raccoglievano le firme, governo, Confindustria e maggioranza del sindacato marciavano verso la firma del secondo degli accordi di luglio, quello che, oltre a ratificare la politica dei redditi, poneva condizioni di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro ben peggiori di quelle contenute nell’articolo 19, con la nascita delle Rsu, organi con un terzo dei delegati deciso dagli apparati.
Ancora il 27 febbraio 1993 il movimento degli autoconvocati dimostrò la sua forza con una manifestazione di 300mila persone a Roma, in cui tra l’altro si evidenziò come questo movimento trovasse un riferimento naturale in un partito come Rifondazione comunista, che esprimeva delegati e lavoratori in prima linea nelle mobilitazioni e come questo fattore fosse decisivo nel dare fiducia al movimento: “‘Siamo felici di essere sopravvissuti agli anni ’80’ grida una delegata di fabbrica del bergamasco prima di ricominciare a cantare Bella ciao” (La Stampa, 28 febbraio 1993).
Le esperienze dei movimenti autoconvocati di questi ultimi trent’anni ci insegnano in primo luogo che non esistono apparati burocratici, per quanto pachidermici, che possano scalfire il ruolo che solo la classe operaia può giocare nel confronto con la classe dominante e i governi che la rappresentano.
Anche in un contesto difficile come quello segnato dal peso della sconfitta della Fiat del 1980, gli autoconvocati espressero la capacità della classe di prendere in mano l’iniziativa in assenza di una direzione all’altezza, riuscendo a far tremare i polsi a burocrazie apparentemente invincibili, aprendo al loro interno contraddizioni che solo, per responsabilità dei dirigenti delle correnti di sinistra del sindacato, si ricomposero nell’ambito di una dialettica tra settori di burocrazia.
Sarebbe però riduttivo, confinare all’interno del sindacato lo scossone scatenato da movimenti di massa che hanno avuto un impatto sull’intera società. Questo non sarebbe stato possibile, nè nel 1984 nè nel 1992, se non ci fossero stati attivisti di organizzazioni politiche come Democrazia proletaria e Rifondazione comunista, ma anche tanti militanti operai del Pci, che negli anni avevano conquistato autorevolezza tra i lavoratori all’interno delle fabbriche.
La presenza di militanti politici in grado di dare una visione ampia e una prospettiva politica alla rabbia che spontaneamente si sviluppò nei luoghi di lavoro fu un elemento decisivo per coordinare ed estendere la lotta non solo ad altri posti di lavoro ma all’intera società, ai giovani, agli studenti, ai movimenti. Da quelle esperienze dobbiamo trarre ispirazione per ricostruire oggi.