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Contro la legittimazione del sex work, una prospettiva di classe

 di Silvia Forcelloni

Vista la delicatezza dei temi trattati nel presente articolo, chiariamo subito che respingiamo con forza quelle posizioni che cercano di mettere sullo stesso piano il nostro rifiuto della prostituzione, dettato da motivazioni di classe, con quello mosso da un moralismo bacchettone e reazionario.

Il nostro punto di vista parte da premesse completamente diverse da quelle della Chiesa e della classe dominante. Crediamo fermamente che tutte le persone dovrebbero godere, nella società, di pari diritti e della possibilità di esprimere la propria sessualità e i propri sentimenti in piena libertà. Condanniamo qualsiasi forma di emarginazione, violenza fisica e psicologica dettata dalla morale imperante. Una morale che dipinge la donna come angelo del focolare, che proclama il rapporto tra uomo e donna, secondo le sacre scritture, come l’unico rapporto “naturale”, finalizzando la sessualità esclusivamente alla procreazione.

La condizione di oppressione della donna e i cardini di questa morale bigotta però, diversamente da quanto si crede, pur essendo stati significativamente influenzati dalle religioni monoteistiche, hanno origini ben più antiche. L’oppressione della donna e il patriarcato non sono sempre esistiti e non esisteranno per sempre. Anche la diffusa idea secondo cui la prostituzione sarebbe il più antico mestiere nel mondo è una falsità storica.

Ne “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato”, Engels mostra come, nel lungo sviluppo della storia dell’umanità, la famiglia si sia modificata, ma soprattutto evidenzia il cambiamento radicale della posizione della donna nella società.

Tutte le società organizzate sono verosimilmente partite da un primo stadio in cui vigeva promiscuità tra uomini e donne di ogni età e i bambini venivano cresciuti come figli della comunità tutta. Viene da sé che in questo tipo di comunità soltanto la discendenza da parte di madre era verificabile e per un lungo tempo il diritto materno rappresentò la base dei rapporti ereditari. Sia in famiglia che nella vita pubblica, la donna godeva di una posizione di grande rispetto.

Scrive Bebel: “La donna era il capo della famiglia, godeva di una grande reputazione nella casa e negli affari, era arbitro e giudice ma anche sacerdotessa.”1

Con il tempo i legami familiari si modificarono, restringendosi progressivamente. Il motore di questo processo è da individuarsi nello sviluppo delle forze produttive che permette all’uomo un dominio sempre maggiore sulla natura.

Con lo sviluppo della produzione, la divisione del lavoro tra uomini e donne si fece più marcata, ma fu la nascita della proprietà privata a segnare un cambiamento qualitativo nei rapporti sociali: il lavoro degli uomini divenne produttivo, in quanto poteva essere scambiato come merce, mentre il lavoro della donna, sempre più relegata a mansioni domestiche, divenne improduttivo, in quanto non poteva essere mercificato.

La nascita della proprietà privata poneva la questione della trasmissione della stessa. Per evitare che la proprietà privata (di terre, mandrie e schiavi) tornasse secondo il diritto matriarcale alle donne della gens di appartenenza dell’uomo, divenne fondamentale affermare un nuovo criterio di discendenza in linea paterna. Ciò avrebbe garantito ai figli di lui di ereditare la ricchezza accumulata dal padre, ma perché la paternità fosse certa fu indispensabile imporre la monogamia. Questa fu una monogamia imposta nella pratica unicamente alla donna.

La donna diventò un bene dell’uomo, uno strumento atto alla procreazione di figli legittimi e una merce, poteva essere venduta come schiava dal marito o dal padre, e da quest’ultimo anche come sposa all’uomo che se ne fosse invaghito.

Il diffondersi del cristianesimo, lo sviluppo delle arti, del commercio, il mescolarsi dei popoli trasformeranno profondamente le società e le condizioni di vita delle donne continuarono a peggiorare. Le donne delle classi sociali più svantaggiate erano costrette a vendere il proprio corpo in cambio di denaro. Questo commercio fioriva anche a Roma, sede del papato, tra quel clero che aveva giurato castità e si sollazzava a discutere riguardo la malvagità della donna. Poi ancora nel medioevo poteva essere svolto senza regole determinate, così anche la prostituzione fu organizzata secondo il sistema delle corporazioni.

In seguito alla scoperta delle Americhe, con lo sviluppo del commercio mondiale, sorse la manifattura, dalla quale si sviluppò la grande industria. L’accelerazione enorme del processo produttivo, sospinto dallo sviluppo delle scienze e della tecnologia, richiedeva una grande quantità di forza lavoro e le donne iniziarono ad essere impiegate nell’industria.

In questo periodo vengono sancite la libertà di iniziativa economica privata, di domicilio, di matrimonio e tutta la legislazione “liberale” borghese.

Pur crescendo l’occupazione industriale femminile degli Stati moderni, Bebel racconta che nella Germania di fine ‘800 la maggior parte delle prostitute si reclutavano fra le operaie sottopagate delle industrie. Soprattutto le operaie dell’industria tessile percepivano salari così bassi da costringerle a prostituirsi per poter sopravvivere.

Nonostante lo sviluppo tecnologico, l’ingresso nel mondo del lavoro di milioni di donne e roboanti dichiarazioni dei diritti umani per cui la prostituzione è riconosciuta come “incompatibile con la dignità e il valore delle persone umane”2, la prostituzione si è oggi diffusa ovunque.

Nonostante la legiferazione della prostituzione sia sempre andata di pari passo con quella che accresceva il grado di oppressione della donna, una parte del femminismo contemporaneo porta avanti oggi una battaglia per i diritti dei “sex workers” (lavoratori del sesso). Per “lavoratore del sesso” si indica una persona impiegata nell’industria del sesso, incluso chi offre servizi sessuali diretti. Questo termine nasce negli anni ’70 per intendere la prostituzione non come sfruttamento delle donne da parte degli uomini, ma come una forma legittima di occupazione eliminandone ogni connotato negativo. Combattiamo fermamente qualsiasi forma di discriminazione perpetrata ai danni di chi è costretto a offrire il proprio corpo in cambio di denaro, ma continueremo ad utilizzare l’espressione “prostituzione” perché riteniamo che in un sistema di sfruttamento, come quello nel quale viviamo, prostituirsi non sia mai una libera scelta. Cercare di offuscare la condizione di vittima porta con sé “una visione di società per cui ogni individuo è responsabile della propria condizione, qualsiasi essa sia. Negare il termine ‘vittima’ significherebbe negare un sistema di ingiustizie e annullare le differenze di potere: ‘facendo della vittima un tabù, si possono legittimare le disuguaglianze di classe e la discriminazione di genere, perché senza vittima, non c’è colpevole’.”3

Ad ogni modo, il più recente manifesto per i diritti dei sex workers considera il “sex work” un servizio come qualunque altro. Essendo la prostituzione considerata al pari di un qualsiasi altro lavoro salariato, la piattaforma avanza la proposta di formare associazioni professionali, l’iscrizione ai sindacati e rivendica misure di welfare e contratti di lavoro subordinato.

L’elemento discriminante tra violenza sessuale o schiavitù e sex work viene identificato nella consensualità del rapporto.

L’essere consensuali non equivale peró affatto ad operare una scelta realmente libera. Il presupposto secondo il quale si sarebbe liberi di scegliere il lavoro che si preferisce svolgere e che la prostituzione sia uno di questi è una pia illusione.

Nel sistema economico capitalista non siamo affatto tutti uguali, né tutti abbiamo gli stessi mezzi. Quella in cui viviamo è una società divisa in classi: da una parte c’è chi detiene i mezzi di produzione e vive del lavoro altrui, dall’altra la massa di coloro che detengono solo la propria forza lavoro. La maggioranza delle persone rientra nella seconda categoria e non è affatto libera di scegliere se lavorare o meno, ma è costretta a vendere la propria forza lavoro in cambio del salario, che costituisce solo una parte della ricchezza che produce, mentre l’altra gli viene rubata sotto forma di profitto.

Ogni forma di lavoro salariato è per noi una forma di sfruttamento, ma la prostituzione in particolare, diversamente dal lavoro salariato non richiede solo di mettere in gioco le proprie capacità fisiche o intellettuali ma di rendere disponibile il proprio corpo. Negli altri lavori si usa il corpo, nella prostituzione si vende a tempo la persona stessa. Si può considerare il corpo di una donna un luogo di lavoro? Se il sesso è considerabile lavoro, allora lo stupro è da considerarsi un furto? Qual è il limite tra “sex work” e lo stupro?

Condizioni di indigenza e difficoltà economica, non sono mai considerabili il presupposto di una libera scelta. Senza libertà di scelta, la legalizzazione della prostituzione legittimerebbe quindi la possibilità che una transazione economica possa giustificare e ripulire una violenza sessuale.

Alcune femministe sostengono che il patriarcato finanzierebbe la sua autodistruzione attraverso il sex work, perché questo incentiverebbe la libertà sessuale delle donne… ma quanti uomini pensano di dovere essere remunerati per esercitare liberamente la loro?

Costoro considerano la prostituzione come vero e proprio mezzo di emancipazione per queste donne. La cruda verità però è che la prostituta e lo sfruttatore-cliente non sono sullo stesso piano.

Colui che è in posizione dominante ed esercita il potere è l’uomo, che può richiedere e ordinare ciò che preferisce alla prostituta dietro versamento di denaro o altre regalie, prezzo per la sottomissione della donna in questione, che lui è in grado di elargire e di cui l’altra parte necessita.

Si potrebbe dire che la prostituta è comunque libera di rifiutare richieste che considera degradanti o che la mettono a disagio, ma questa libertà non esiste. In primo luogo perché il rifiuto potrebbe far scaturire una reazione violenta da parte dello sfruttatore, in secondo luogo perché, in un’economia di mercato, vige la regola della concorrenza che porta a soddisfare qualsiasi richiesta per timore della competizione altrui che, preferita, significherebbe la perdita del proprio sostentamento.

Il “sex work” non dà alcun potere alle donne (empowerment), né le rende più libere. La prostituzione è “nemica della liberazione sessuale, del desiderio reciproco, del piacere condiviso”,4 quel femminismo convinto che la prostituzione coinciderebbe con il raggiungimento di una maggiore libertà del proprio corpo vuole combinare l’idea di rivolta (gli oppressi e le oppresse contro il potere) con il capitalismo (la libertà di vendere). La prostituzione è circondata da miti che ci impediscono di vedere la tragedia che suppone che un essere umano ne compri un altro, un essere umano che riduce l’altro in uno stato di oggetto, di merce.5

È ora di confutare questi miti, anche con l’ausilio di statistiche, considerando che quelle disponibili sul tema sono scarse e i numeri probabilmente sottostimati, essendo la prostituzione, nella maggior parte dei paesi, un fenomeno del tutto sommerso. Senza ombra di dubbio, tuttavia, quella del sesso è la terza industria illegale al mondo per fatturato, dopo quella delle armi e della droga.

Per esaminarlo cominciamo dalla tratta. Nel mondo si stima che siano circa 40 milioni le persone vittime di traffico di essere umani, reclutate con la forza o con false promesse per essere sfruttate lavorativamente, sessualmente, per matrimoni forzati o prelievo di organi. Questo è un fenomeno che non solo residualmente interessa la prostituzione.

Secondo il Global Report on Trafficking in Persons 2018 delle Nazioni Unite, le vittime di tratta in tutto il mondo sono per il 70% donne.

Le vittime a scopo di sfruttamento sessuale costituiscono il 59% del totale con forte prevalenza per le donne. L’83% delle donne vittime di tratta è trafficata a scopo di sfruttamento sessuale. La legalizzazione della prostituzione non cancella questo fenomeno, anzi lo facilita permettendo ai trafficanti di esporre le proprie vittime alla luce del sole. Nei bordelli tedeschi e olandesi si stima che il 75 e l’80% delle prostitute sia stata vittima di tratta.6

In Italia, la metà delle vittime di tratta è costituita da minori, in prevalenza sono donne e la principale forma di sfruttamento a cui sono destinate è anche nel bel paese lo sfruttamento sessuale.

Anche se nel 1958 la legge Merlin ha reso illegali le case di tolleranza o cosiddette case chiuse, riducendo la visibilità dello sfruttamento della prostituzione, questo non è mai scomparso ed è riesploso più veementemente a partire dagli anni ’90, con la crescita dei flussi migratori.

Secondo stime del Codacons, nel 2018 la prostituzione in Italia “valeva” 3,9 miliardi di euro e contava 3 milioni di clienti e 90mila operatrici.

Il 55% delle prostitute è costituito da giovani donne provenienti principalmente dall’Europa dell’Est (in particolare Romania, Bulgaria e Ucraina), ma anche dall’Africa, Nigeria in testa, con forte crescita di prostitute cinesi.

Tra le prostitute prevalgono condizioni di indigenza e ci chiediamo dunque come sia possibile, in tali situazioni di difficoltà, ritenere libera e consapevole la “scelta” di prostituirsi.

Il legame tra peggioramento delle condizioni di vita e la scelta di entrare in questo settore è lampante secondo i dati greci, che registrano un incremento del 7% delle donne costrette ad entrare nel commercio del sesso legale in seguito alla crisi del 2008.7

Comunque, si obietta spesso che accada che persone agiate entrino in questo commercio, non costrette dall’indigenza ma attratte per una naturale inclinazione e che quindi bisognerebbe difendere la loro libertà di scelta e tutelare la loro professione.

Se già benestanti, queste persone non necessitano allora di particolari tutele o ammortizzatori sociali, sono in una zona grigia per cui praticano promiscuità sessuale senza necessità di remunerazione, per cui le loro abitudini sessuali rientrano nella loro sfera personale e non ci debbono interessare.

Persone in condizioni agiate costituiscono un’esigua minoranza nella nostra società e come abbiamo dimostrato un’insignificante fetta di coloro che si prostituiscono.

Questa argomentazione, come una foglia di fico, tenta di nascondere la drammaticità del fenomeno della prostituzione, che coinvolge il pagliaio, concentrandosi sulle pretese dell’ago, che come è noto è quasi impossibile da trovare.

Si usa poi distinguere tra le prostitute autonome, le vere e proprie sex workers, da coloro che operano alle dipendenze o sotto la protezione di altri. Sembra però che il 90% delle prostitute dipenda da “papponi”,8 protettori o intermediari, veri e propri criminali che pretendono percentuali esorbitanti alle loro vittime, pena violenza fisica o psicologica.

Le autonome sono quindi una minoranza, comunque vittime di un sistema di oppressione con limitate vie d’uscita autonome da questo commercio, qualora lo desiderino.

Pure il mito della “prostituta ricca e felice” non esiste nella realtà, infatti il parlamento europeo riconosce che l’80-95% delle prostitute ha subito forme di violenza prima di iniziare a prostituirsi, che il 62% di esse riferisce di avere subito uno stupro e il 68% soffre di un disturbo post-traumatico da stress (percentuale analoga alle vittime di tortura).9

Queste statistiche basterebbero da sole a svelare l’ipocrisia di chi sventola la bandiera della libera scelta. Sotto il capitalismo non esiste libertà di scelta.

Esiste poi il fenomeno della prostituzione via web, esploso dopo la crisi economica del 2008. Spopolano, grazie all’ulteriore spinta della crisi pandemica, chatroom, profili onlyfans (un Instagram osé a pagamento), annunci di lavoro come camgirl (ragazze che si offrono nude dietro una webcam).

Il tenore degli annunci che circolano in rete è del tipo: “Sei stufa di lavorare a tempo pieno per 500 euro al mese? Sei una studentessa fuorisede che deve pagarsi l’affitto? O una mamma che non sa come pagare le bollette? Con poche ore potresti guadagnare entrate dignitose”, ciò dà la misura di quanto il fenomeno sia strettamente connesso alla necessità di sostentarsi economicamente e non certo ad un desiderio di autodeterminazione. Alcune femministe liberali sostengono che se una donna non ha voglia di lavorare in queste condizioni di sfruttamento, per bassi salari e preferisce prostituirsi per ottenere un “guadagno facile”, la sua sarebbe una scelta insindacabile. Quindi se la paga di un lavoro salariato non è sufficiente ai propri bisogni la risposta è passare da un tipo di sfruttamento (il lavoro salariato) ad un altro!

La prostituzione è nata e si è sviluppata con l’approfondirsi dell’oppressione della donna, con l’affievolirsi della sua libertà personale e di autodeterminazione, è ancora oggi subordinata all’uomo, per questo le donne sono la stragrande maggioranza di chi si prostituisce.

Le donne sono le principali vittime ma anche persone transessuali, ad esempio, sono costrette a prostituirsi per vivere. Non è un caso che le richieste di riconoscimento del sex work siano strettamente collegate all’avanzamento delle lotte per i diritti delle persone transessuali nel tentativo di legalizzare l’attività che molte di queste persone sono spinte a svolgere, a causa di uno stigma che le vorrebbe particolarmente promiscue e per tale motivo naturalmente inclini a prostituirsi. Queste concezioni andrebbero strenuamente combattute e non assecondate, aggravando la profonda marginalizzazione che queste persone subiscono.

La tratta di esseri umani e lo sfruttamento sessuale si basano sull’assunto che le persone siano niente altro che merci, dei meri oggetti di scambio. Proprio sullo sfruttamento delle persone, in tutte le possibili e atroci sue forme, si erge il sistema capitalista.

Questo sfruttamento è aggravato dalla diseguaglianza tra i sessi, dalla condizione economica, dall’origine etnica e dai conflitti armati.

Nessuna legge escogitata anche dalle più progressiste democrazie liberali ha annientato le forme più turpi di questo fenomeno, condannate a parole dagli stessi apologeti del capitalismo.

Se fosse offerto a tutti coloro che vengono prostituiti sostegno finanziario, alloggio, supporto psicologico e formazione professionale per una collocazione alternativa nella società, sceglierebbero di continuare a prostituirsi per amore della “professione”?

Molti potrebbero obiettare che realizzare tutto ciò sarebbe impossibile. In effetti, sotto il capitalismo, lo è. Non tanto perché non esista abbastanza ricchezza per realizzarlo, ma perché questo sistema considera la mercificazione del corpo femminile come necessario a far fronte al diritto naturale dell’uomo di soddisfare le proprie pulsioni sessuali. La prostituzione è necessaria al capitalismo, per soddisfare le voglie di coloro che non riescono ad ottenere consensualmente o continuativamente i favori di una donna, o che sono insoddisfatti dalle costrizioni del matrimonio e dalle incombenze della famiglia, per evitare che questa insoddisfazione si tramuti in violenza verso le donne “per bene”.

Esistono misure concrete che si potrebbero attuare fin da subito, come quelle che vennero messe in atto nei primi anni della Russia sovietica. La lotta alla prostituzione consisteva nell’organizzare servizi di assistenza per le donne disoccupate, come soluzione provvisoria prima di assegnarle un’occupazione, asili nido pubblici, dormitori per le donne senzatetto e nell’educazione delle masse. Una rete di consultori pubblici offriva cure per malattie sessualmente trasmissibili, ma mise anche in piedi una campagna di sensibilizzazione in cui si spiegava la relazione tra diffusione della prostituzione e quella delle malattie sessualmente trasmissibili. Collaborando poi con organizzazioni principalmente di donne si offrivano assistenza sociale ed opportunità per abbandonare il commercio di sé.10

Ogni forma di irreggimentazione della prostituzione era proibita, l’attenzione era posta sui complici della prostituzione, infatti il codice penale non puniva le prostitute, ma riservava le pene più severe a padroni di bordelli e magnaccia. Ciò portò all’importante riduzione della prostituzione fino alla controrivoluzione stalinista che produsse una rapida involuzione della condizione femminile fino al punto di vietare l’aborto e il divorzio.

Difendiamo queste misure democratiche e ci battiamo per realizzarle anche in questo sistema ma siamo consapevoli che nessuno Stato capitalista avanzato ha intenzione di attuare misure simili anche solo per attenuare il problema. Per questo ci muoviamo in un’ottica rivoluzionaria.

La legalizzazione non elimina la criminalità, né nobilita o rende sicura la prostituzione, anzi ne favorisce lo sfruttamento incentivando una grande industria del sesso con bordelli della dimensione di hotel.11

Per i marxisti, la lotta contro la prostituzione è strettamente legata a quella contro il capitalismo. La prostituzione si basa sull’oppressione della donna e sulla miseria che la società divisa in classi genera. Fintanto che il capitalismo non sarà abbattuto, nessuna scelta sarà realmente libera e la violenza, lo sfruttamento delle donne non sarà mai completamente sradicato.

 

Note

    1. August Bebel, La donna e il socialismo, 1879
    2. Convenzione dell’Organizzazione delle nazioni unite del 1949.
    3. Kajsa Ekis Ekman, cit. in Arianna Pasqualini, Feminist sex wars
    4. ibidem
    5. La prostituzione è la nemica della liberazione sessuale, intervista a Kajsa Ekis Ekman
    6. La prostituzione è legale in molti Paesi Ue, ma questo non l’ha resa più sicura, Business insider Italia
    7. ibidem
    8. Fonte: Caritas
    9. Relazione del febbraio 2014
    10. Elisabetta Rossi, L’emancipazione femminile in Russia prima e dopo la rivoluzione
    11. Business insider Italia, op. cit.

 

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