Lettera di Trotskij a Monatte
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3 Ottobre 2015In questo articolo, scritto poco prima di morire, Trotskij controbatte efficacemente, delineando un bilancio della sconfitta della rivoluzione spagnola degli anni Trenta, alle argomentazioni dei riformisti e dei settari sul “basso livello” di coscienza dei lavoratori come principale causa della disfatta.
di Lev Trotskij
La misura di quanto il movimento operaio sia stato rigettato all’indietro, si può valutare non solo in base alla situazione delle organizzazioni di massa, ma anche in base ai raggruppamenti ideologici, e alla ricerca teorica cui si sono dedicate molteplici formazioni. A Parigi si pubblica una rivista, Que faire?, che per qualche suo motivo si reputa marxista, pur restando nell’ambito dell’empirismo degli intellettuali borghesi e di questi operai isolati che hanno assimilato tutti i vizi degli intellettuali.
Come tutti i gruppi privi di fondamenta scientifiche, senza programma e tradizioni, questa rivistina ha cercato di aggrapparsi alle sottane del Poum – il quale sembrava aprire la via più breve alle masse e alla vittoria. Ma il risultato di questi legami con la rivoluzione spagnola risulta del tutto inaspettato, in un primo momento: invece di andare avanti, la rivista è andata indietro. In realtà, il fatto rientra pienamente nella natura delle cose. Le contraddizioni tra il conservatorismo della piccola borghesia e le esigenze della rivoluzione proletaria si sono sviluppate fino in fondo. È del tutto naturale che i difensori e gli interpreti della politica del Poum si trovino respinti molto indietro, tanto in campo politico, che teorico.
La rivista Que faire? non ha alcuna importanza in sé e per sé. Ma riveste un interesse come sintomo. È perciò riteniamo utile trattare le valutazioni di questo giornale circa le cause della sconfitta della rivoluzione spagnola, nella misura in cui tali valutazioni evidenziando in modo grafico i tratti principali prevalenti oggigiorno nell’ala di sinistra dello pseudo-marxismo.
Que faire? spiega
Cominciamo con una citazione testuale tratta da una recensione [in Que faire?] dell’opuscolo “La Spagna tradita” del compagno Casanova:
Perché la rivoluzione spagnola è stata schiacciata? “Perché – risponde l’autore – il partito comunista ha condotto una politica errata, che è stata purtroppo seguita dalle masse rivoluzionarie”. Ma, per tutti i diavoli, perché le masse rivoluzionarie che avevano abbandonato i loro vecchi dirigenti, si sono inchinate dinanzi alla bandiera del partito comunista? “Perché non esisteva un autentico partito rivoluzionario”. Ci viene offerta una tautologia pura. Una politica erronea delle masse, un partito immaturo, o esprimono determinate condizioni delle forze sociali (immaturità della classe operaia, mancanza d’indipendenza dei contadini), che vanno spiegate partendo dai fatti presentati anche dallo stesso Casanova – oppure vengono concepiti come prodotto dell’azione di alcuni individui o gruppi di individui malvagi e astuti, azioni che si contrappongono agli sforzi degli “elementi sinceri”, i soli capaci di salvare la rivoluzione. Dopo aver imboccato come per caso la prima via, quella marxista, Casanova si sposta sulla seconda, portandoci così nel campo della demonologia: il criminale responsabile delle sconfitte è il diavolo in campo, Stalin, col concorso degli anarchici e di tutti gli altri diavoli minori, e purtroppo il dio dei rivoluzionari non ha mandato in Spagna un Lenin o un Trotskij, come aveva fatto per la Russia del 1917.
Ne deriva la conclusione: “Questo succede quando si vogliono a tutti i costi costringere i fatti nel quadro di un’ortodossia ossificata”. Questa alterigia teorica è tanto più significativa, perché è difficile immaginarsi come si possano inserire in così poche righe tante banalità, volgarità ed errori, specificatamente del tipo filisteo conservatore.
L’autore della citazione si esime dal fornire qualsiasi spiegazione della sconfitta della rivoluzione spagnola: indica solo la necessità di profonde spiegazioni, del tipo “le condizioni delle forze sociali”. Questo rifiuto di ogni spiegazioni non è casuale. Codesti critici del bolscevismo sono tutti dei vigliacchi sul piano teorico, per il semplice motivo che non hanno niente di solido sotto i piedi. Per non rivelare la propria bancarotta, fanno giochi di prestigio con i fatti e giocherellano con le opinioni altrui. Si limitano ad illusioni e mezze frasi, quasi non avessero il tempo di mostrare tutta la loro sapienza. In realtà, di sapienza non ne hanno proprio niente. La loro alterigia è fatta di ciarlataneria intellettuale.
Analizziamo passo per passo le allusioni e i pensieri appena abbozzati del nostro autore. A suo parere, una politica sbagliata delle masse si può spiegare soltanto come “manifestazioni di certe condizioni delle forze sociali”, ossia dell’immaturità del proletariato e della non indipendenza dei contadini. Ad andare in cerca di tautologie, non se ne potrebbe trovare una più insulsa. Una “politica sbagliata delle masse” si spiega con l’”immaturità delle masse”. Ma cos’è l’”immaturità delle masse”? Evidentemente, la loro predisposizione a seguire una politica sbagliata. In che cosa consiste questa politica sbagliata, chi ne sia l’artefice – le masse oppure i dirigenti – questo il nostro autore lo passa sotto silenzio. Giovandosi di una tautologia, scarica la responsabilità sulle masse. Questo classico trucco di tutti i traditori e i disertori, e dei loro avvocati difensori, è specialmente ripugnante nei confronti del proletariato spagnolo.
La sofistica dei traditori
Nel luglio del 1936 – per non parlare di un periodo precedente – gli operai spagnoli respinsero l’attacco degli ufficiali, che avevano preparato la loro cospirazione sotto la protezione del Fronte Popolare. Le masse improvvisarono milizie e crearono comitati operai, bastioni della loro futura dittatura. Dal canto loro, i vertici delle organizzazioni del proletariato aiutarono la borghesia a distruggere tali comitati, a liquidare gli attacchi degli operai contro la proprietà privata e a sottomettere le milizie operaie al comando della borghesia: il Poum, d’altronde, faceva parte del governo e si assunse una diretta responsabilità di questo lavoro controrivoluzionario. In cosa consiste in un caso del genere “l’immaturità” del proletariato? Evidentemente che nonostante la giusta linea politica seguita dalle masse, non sono stati capaci di rompere la coalizione dei socialisti, stalinisti, anarchici e Poum con la borghesia.
Questo campionario di sofistica, parte dal concetto di immaturità assoluta, ossia di una condizione di perfezione delle masse, in cui le masse non hanno bisogno di una direzione, anzi sono addirittura in grado di vincere contro la loro stessa direzione. Tale maturità non esiste, non può esistere.
I nostri sapientoni obbietteranno: e perché mai gli operai che danno prova di un istinto rivoluzionario così giusto e di qualità di combattenti così straordinarie, si sottomettono a una direzione che li tradisce? La nostra risposta è: non c’è stata neanche un accenno di sottomissione. La linea seguita dagli operai è sempre stata in conflitto con quella della direzione, e le due linee nei momenti più critici risono divaricate fino a 180 gradi: ed in questi momenti la direzione ha cooperato, direttamente o indirettamente, alla repressione degli operai con la forza armata.
Nel maggio 1937, gli operai catalani insorsero non solo indipendentemente dalla loro direzione, ma contro di essa. I dirigenti anarchici – borghesi patetici e spregevoli, camuffati a buon mercato da rivoluzionari – hanno ripetuto centinaia di volte nella loro stampa che se la Cnt avesse voluto prendere il potere e instaurare la propria dittatura a maggio, avrebbero potuto farlo senza difficoltà. Una volta tanto i dirigenti anarchici dicono la pura verità. La direzione del Poum di fatto si mise alla coda della Cnt, limitandosi a coprirne la politica con una diversa fraseologia. Grazie a ciò e solo a ciò, la borghesia riuscì a schiacciare l’insurrezione di maggio del proletariato “immaturo”. Bisogna proprio non capire niente dei rapporti tra classe e partito, tra masse e direzione per ripetere la vuota affermazione che le masse spagnole hanno semplicemente seguito i loro dirigenti. La sola cosa che si può dire è che le masse che hanno costantemente cercato di aprirsi la strada nella direzione giusta, non hanno trovato una nuova direzione che corrispondesse alle domande poste dalla rivoluzione. Abbiamo di fronte a noi un processo profondamente dinamico, con le varie tappe della rivoluzione che si succedono rapidamente, con una direzione o varie sezioni della direzione che passano rapidamente dalla parte del nemico di classe, e i nostri sapientoni impostano la discussione in maniera puramente statica: perché la classe operaia nel suo insieme ha seguito una cattiva direzione?
L’approccio dialettico
C’è un vecchio aforisma evoluzionista liberale: ogni popolo ha il governo che si merita. Tuttavia la storia dimostra che uno stesso popolo può avere governi molto diversi nel corso di un periodo relativamente breve (Russia, Italia, Germania, Spagna, ecc.), e inoltre, che l’ordine di questi governi non va costantemente nello stesso senso – dal dispotismo alla libertà – come si immaginavano gli evoluzionisti liberali. Il segreto consiste nel fatto che un popolo è composto di classi ostili, e che le classi stesse sono formate di strati diversi e in parte antagonistici, che rispondono a direzioni diverse; inoltre ogni popolo è sotto l’influenza di altri popoli, anch’essi composti di classi. I governi non esprimono la “maturità”, costantemente crescente, di un “popolo”, ma sono il prodotto della lotta tra le varie classi o tra diversi strati all’interno di una stessa classe, nonché dell’azione di forze esterne; alleanze, conflitti, guerre, ecc. A ciò si aggiunga che un governo costituito può rimanere più a lungo del rapporto di forze che lo ha prodotto: proprio da questa contraddizione storica sorgono le rivoluzioni, i colpi di Stato, le controrivoluzioni, ecc.
Allo stesso modo, dialetticamente, va affrontata la questione della direzione di una classe. I nostri sapientoni, sull’esempio dei liberali, accettano tacitamente l’assioma che ogni classe ha la direzione che si merita. In realtà, la direzione non è affatto un mero “riflesso” di una classe, o il prodotto della propria libera creazione. Una direzione si forgia in tutto un processo di scontri tra le varie classi o di frizioni tra i vari strati all’interno di una data classe. Una volta costituitasi, la direzione si eleva invariabilmente al di sopra della propria classe, e in tal modo diventa soggetta alla pressione e all’influenza delle altre classi. Il proletariato può “tollerare” a lungo una direzione che abbia già subito una completa degenerazione interna, ma non abbia ancora avuto occasione di rivelare tale degenerazione di fronte a grandi eventi. Ci vogliono grandi sconvolgimenti storici per mettere a nudo con asprezza la contraddizione tra la direzione e la classe. Gli sconvolgimenti più forti della storia sono guerre e rivoluzioni, e proprio per questo la classe operaia è spesso presa alla sprovvista dalle guerre e dalle rivoluzioni. Ma anche nei casi in cui la vecchia direzione abbia rivelato la propria corruzione interna, la classe non può improvvisare immediatamente una nuova direzione, soprattutto se non ha ereditato, dal periodo precedente, solidi quadri rivoluzionari, capaci di sfruttare il crollo di credibilità del vecchia direzione del partito. L’interpretazione marxista, e cioè dialettica e non scolastica, del rapporto tra classe e direzione della classe non lascia pietra su pietra dell’edificio dei sofismi avvocateschi del nostro autore.
Come sono maturati gli operai russi
Quest’ultimo considera la maturità del proletariato come qualcosa di puramente statico. Eppure durante una rivoluzione la coscienza di una classe è il processo più dinamico, e determina direttamente il corso di una rivoluzione. Era possibile dare risposta nel gennaio 1917, o anche nel marzo 1917, dopo il rovesciamento dello zarismo, al quesito se il proletariato russo fosse abbastanza “maturo” da prendere il potere nello spazio di otto, nove mesi? La classe operaia di allora era estremamente eterogenea dal punto di vista sociale e politico. Negli anni della guerra si era rinnovata dal trenta al quaranta percento, con l’ingresso nelle sue fila di piccoli borghesi spesso reazionari, di contadini, di donne e di giovani. Nel marzo 1917 il partito bolscevico era seguito da una minoranza insignificante della classe operaia, e inoltre non mancavano i dissensi nel partito stesso. La stragrande maggioranza degli operai sosteneva i menscevichi e i “socialrivoluzionari”, cioè i socialpatrioti conservatori. Le cose stavano ancora peggio per quanto riguardava l’esercito e i contadini; a ciò vanno aggiunti il basso livello culturale generale nelle campagne, la mancanza di esperienza politica tra gli strati più ampi del proletariato, soprattutto in provincia, il che lasciò isolati contadini e soldati.
Cosa aveva il bolscevismo “in più” rispetto agli altri? All’inizio della rivoluzione soltanto Lenin possedeva una concezione rivoluzionaria chiara e profondamente meditata; i quadri russi del partito erano dispersi e in gran parte disorientati. Ma il partito godeva di autorità presso gli operai avanzati. Lenin godeva di grande autorità presso i quadri del partito. La concezione politica di Lenin corrispondeva allo sviluppo effettivo della rivoluzione, e ogni nuovo avvenimento la corroborava. Questo elemento “in più” produsse meraviglie in una situazione rivoluzionaria, cioè in condizioni di acutizzazione della lotta di classe. Il partito allineò rapidamente la sua politica in conformità con la concezione di Lenin, che corrispondeva al corso effettivo della rivoluzione. Grazie a ciò, trovò un saldo sostegno in decine di migliaia di operai avanzati. Nello spazio di pochi mesi, basandosi sullo sviluppo della rivoluzione, il partito fu in grado di convincere la maggioranza degli operai della giustezza delle sue parole d’ordine. Questa maggioranza, organizzata nei soviet, fu a sua volta in grado di attrarre i soldati e i contadini. Come si può racchiudere ed esaurire questo processo dinamico, dialettico, in una formula sulla maturità o immaturità del proletariato? Un fattore importantissimo della maturità del proletariato russo nel febbraio e marzo 1917 fu Lenin. E Lenin non cadde dal cielo: impersonava la tradizione rivoluzionaria della classe operaia. Perché le direttive di Lenin si facessero strada verso le masse, bisognava che ci fossero dei quadri, anche se pochi numericamente all’inizio, e bisognava che questi quadri avessero fiducia nella direzione, una fiducia basata su tutta l’esperienza del passato. Escludere dal calcolo questi elementi significa semplicemente ignorare la rivoluzione vivente, e sostituirvi un’astrazione, il “rapporto di forze”, dato che lo sviluppo della rivoluzione consiste proprio nel fatto che i rapporti di forza cambiano continuamente e velocemente sotto la pressione dei mutamenti che si producono nella coscienza del proletariato, dell’attrazione esercitata dagli strati più avanzati su quelli arretrati, dalla crescente sicurezza della classe nelle proprie forze. La molla vitale in questo processo è il partito, così come la molla vitale del partito è la direzione. Il ruolo e la responsabilità della direzione in una fase rivoluzionaria sono enormi.
Relatività della “maturità”
La vittoria dell’ottobre è stata una valida prova di “maturità” del proletariato. Ma questa maturità è relativa. Pochi anni dopo, quello stesso proletariato ha permesso che la rivoluzione fosse strangolata da una burocrazia scaturita delle sue stesse fila. La vittoria non è affatto il frutto maturo della “maturità” del proletariato. La vittoria è un compito strategico. È necessario sfruttare le condizioni propizie di una crisi rivoluzionaria per mobilitare le masse: partendo dal livello dato della loro “maturità”, bisogna spingerle avanti, far capire loro che il nemico non è affatto onnipotente, che è lacerato da contraddizioni, che dietro l’imponente facciata regna il panico. Se i bolscevichi non avessero fatto questo lavoro non si sarebbe nemmeno potuto parlare della rivoluzione proletaria. I soviet sarebbero stati schiacciati dalla controrivoluzione, e i sapientoni di tutti i paesi avrebbero scritto articoli e libri sul leit-motiv che solo dei visionari senza legami con la realtà potevano sognare in Russia una dittatura del proletariato, così esiguo numericamente e così immaturo.
Il ruolo ausiliario dei contadini
È altrettanto astratto, pedante e falso invocare la “mancanza di indipendenza” dei contadini. Dove e quando il nostro saggio ha mai osservato nella società capitalista dei contadini dotati di in programma rivoluzionario indipendente o capaci di un’iniziativa rivoluzionaria indipendente? I contadini possono giocare un ruolo enorme nella rivoluzione, ma un ruolo esclusivamente ausiliario.
In parecchi casi i contadini spagnoli hanno agito con audacia e si sono battuti con coraggio. Ma per sollevare tutta la massa contadina il proletariato doveva dare l’esempio per mezzo di un’insurrezione decisiva contro la borghesia, e infondere ai contadini la necessaria fiducia nella possibilità di vittoria. Invece l’iniziativa rivoluzionaria del proletariato stesso è stata od ogni istante paralizzata della sue stesse organizzazioni.
“L’immaturità” del proletariato, la “mancanza di indipendenza dei contadini”, non sono fattori decisivi né fondamentali negli avvenimenti storici. Alla base della coscienza delle classi ci sono le classi stesse, la loro forza numerica, il loro ruolo nella vita economica. Alla base delle classi c’è uno specifico sistema di produzione, a sua volta determinato dal livello di sviluppo delle forze produttive. Perché non dire, allora, che la sconfitta del proletariato spagnolo è stata determinata del basso livello tecnologico?
Il ruolo della personalità
Il nostro autore sostituisce un determinismo meccanicistico all’azione dialettica del processo storico. Di qui le facili ironie sul ruolo degli individui, buoni e cattivi. La storia è un processo di lotta di classe, ma le classi non gettano tutto il loro peso sul piatto della bilancia in maniera automatica e simultaneamente. Nel processo della lotta di classe, e classi formano diversi organi che svolgono un ruolo rilevante e indipendente, e sono soggetti a deformazioni. E su questo si basa anche la funzione della personalità nella storia. Certo, ci sono grandi cause obbiettive che hanno prodotto il potere autocratico di Hitler, ma soltanto degli sciocchi pedanti del “determinismo” possono negare oggi l’enorme ruolo storico giocato da Hitler. L’arrivo di Lenin a Pietrogrado il 3 aprile 1917 modificò al tempo giusto l’orientamento del partito bolscevico, e gli consentì di condurre alla vittoria la rivoluzione. I nostri sapientoni potrebbero dire che se Lenin fosse morto all’estero all’inizio del 1917 la rivoluzione d’ottobre si sarebbe prodotta “esattamente allo stesso modo”. Ma non è vero: Lenin rappresentava uno degli elementi viventi del processo storico. Impersonava l’esperienza e la perspicacia del settore più attivo del proletariato. La sua apparizione tempestiva sulla scena della rivoluzione era necessaria a mobilitare l’avanguardia e darle la possibilità di conquistare la classe operaia e le masse contadine. La direzione politica, nei momenti cruciali delle svolte storiche, può diventare un fattore tanto decisivo quanto la funzione di comando supremo nei momenti critici di una guerra. La storia non è un processo automatico. Altrimenti, perché dei dirigenti? Perché dei programmi? Perché tante lotte teoriche?
Lo stalinismo in Spagna
“Ma per tutti i diavoli – chiede, come si è visto, l’autore – perché le masse rivoluzionarie che avevano abbandonato i loro vecchi dirigenti si sono inchinate davanti alle bandiere del partito comunista?”. Il quesito è mal posto. Non è vero che le masse rivoluzionarie avessero abbandonato tutti i loro vecchi dirigenti. Gli operai legati in precedenza a determinate organizzazioni continuarono ad aderirvi, pur osservandone e vagliandone l’atteggiamento. In genere gli operai non rompono tanto facilmente col partito che li ha risvegliati a vita cosciente. Inoltre l’esistenza di un patto di copertura reciproca vigente nell’ambito del Fronte popolare addormentava i lavoratori: dato che tutti andavano d’accordo, tutto sarebbe andato per il meglio. Le masse nuove e fresche, naturalmente si rivolgevano verso il Comintern, quale partito realizzatore della sola rivoluzione proletaria vittoriosa e che, si sperava, sarebbe stato capace di assicurare armi alla Spagna. Inoltre il Comintern era il paladino più fervente dell’idea del Fronte popolare; e ciò infondeva fiducia agli strati operai privi di esperienza. In seno al Fronte popolare, il Comintern era il paladino più fervente del carattere borghese della rivoluzione; e ciò infondeva fiducia alla piccola, e in parte anche alla media borghesia. Ecco perché le masse “si sono inchinate davanti alle bandiere del partito comunista”.
Il nostro autore descrive le cose come se il proletariato si trovasse in un negozio di scarpe ben fornito, a scegliere un nuovo paio di stivali. Ma, come si sa, anche questa semplice operazione non sempre riesce bene. Quanto ad una nuova direzione, la scelta è molto ridotta. Solo gradualmente, in base alla propria esperienza attraverso varie tappe, ampi strati delle masse possono convincersi che una nuova direzione è più salda, più sicura, più leale della vecchia. Indubbiamente durante una rivoluzione, cioè quando gli eventi mutano con rapidità, un partito debole può rapidamente diventare forte, purché capisca chiaramente il corso della rivoluzione e possieda dei quadri solidi che non si ubriachino di frasi vuote e non si lascino spaventare dalla repressione. Ma tale partito deve esistere prima della rivoluzione, perché il processo di formazione dei quadri richiede un periodo di tempo considerevole che la rivoluzione non concede.
Il tradimento del Poum
A sinistra di tutti gli altri partiti in Spagna c’era il Poum, che senza dubbio riuniva gli elementi proletari rivoluzionari, in precedenza non strettamente legati all’anarchismo. Ma fu proprio questo partito che giocò un ruolo fatale nello sviluppo della rivoluzione spagnola. Non potè diventare un partito di massa, perché a tal fine bisognava prima rovesciare i vecchi partiti, e li si poteva rovesciare solo con una lotta spietata, denunciandone senza tregua il carattere borghese. Invece il Poum, pur criticando i vecchi partiti, vi si sottomise in tutte le questioni fondamentali. Partecipò al blocco elettorale “del popolo”; entrò nel governo che liquidò i comitati operai; intraprese una lotta per la ricostruzione di quella coalizione governativa; capitolò più e più volte di fronte alla direzione anarchica; condusse insieme con essa una politica sindacale sbagliata; assunse un atteggiamento esitante e non rivoluzionario nei confronti dell’insurrezione del 1937. In generale, da un punto di vista determinista si può certo riconoscere che la politica del Poum non fosse fortuita. A questo mondo tutto ha la sua causa. Tuttavia, la serie di cause che produssero il centrismo del Poum non era affatto il semplice riflesso delle condizioni del proletariato spagnolo o catalano. Due causalità hanno operato, convergendo l’una verso l’altra, e ad un certo punto sono entrate in conflitto. Tenendo conto della precedente esperienza internazionale, dell’influenza di Mosca, dell’effetto di una serie di sconfitte, ecc. si può spiegare politicamente e psicologicamente perché il Poum si rivelò essere un partito centrista. Ma questo non cambia il suo carattere centrista, e non cambia il fatto che un partito centrista opera inevitabilmente come un freno sulla rivoluzione, ci sbatta ogni volta la testa contro e possa provocare la sconfitta della rivoluzione stessa. Ciò non cambia il fatto che le masse catalane fossero molto più rivoluzionarie del Poum. Scaricare, in tali condizioni, la responsabilità di una politica falsa sull’ “immaturità” delle masse, vuol dire abbandonarsi ad un ciarlatanismo puro, cosa che i falliti della politica fanno di frequente.
La responsabilità della direzione
La falsificazione storica consiste nel far ricadere la responsabilità della sconfitta delle masse spagnole sulle masse stesse, e non sui partiti che hanno paralizzato, o semplicemente e puramente schiacciato, il movimento rivoluzionario di massa. Gli avvocati difensori del Poum negano semplicemente la responsabilità dei dirigenti per evitare di assumersi le proprie responsabilità. Questa filosofia impotente, che cerca di riconciliare le sconfitte come un anello necessario nella catena dell’evoluzione cosmica, è del tutto incapace di concepire – e si rifiuta di farlo – che fatto concreti quali programmi, partiti, personalità, sono stati gli organizzatori della sconfitta. Questa filosofia del fatalismo e della prostrazione è diametralmente opposta al marxismo, che è la teoria dell’azione rivoluzionaria.
La guerra civile è un processo in cui i compiti politici si risolvono con mezzi militari. Se il risultato di una tal guerra fosse determinato dalle “condizioni dei rapporti di forza fra le classi”, la guerra stessa non sarebbe necessaria. La guerra ha la propria organizzazione, la propria politica, i propri metodi, la propria direzione, a determinarne direttamente l’esito. Naturalmente le “condizioni dei rapporti di forza fra le classi” stanno alla base di tutti gli altri fattori politici, ma così come le fondamenta di un edificio non riducono l’importanza delle pareti, delle finestre, delle porte, dei tetti, ecc., così le “condizioni dei rapporti di forza fra le classi” non infirmano l’importanza dei partiti, della loro strategia, della loro direzione. Dissolvendo il concreto nell’astratto, i nostri sapientoni si fermano a metà strada. La soluzione più “profonda” del problema sarebbe quella di proclamare che la sconfitta del proletariato spagnolo è dovuta allo sviluppo inadeguato delle forze produttive – una chiave di interpretazione che è accessibile ad ogni scemo. Nel ridurre a zero il significato del partito e della direzione, questi sapientoni negano in generale la possibilità della vittoria rivoluzionaria. Non esiste infatti la minima ragione per aspettarsi delle condizioni più favorevoli. Il capitalismo ha cessato di avanzare, il proletariato non cresce numericamente, anzi è l’esercito di disoccupati che cresce, il che non aumenta ma riduce la forza combattiva del proletariato e ha anche un effetto negativo sulla sua coscienza.
Allo stesso modo, non c’è nemmeno una ragione per credere che all’interno di un regime capitalista i contadini siano in grado di acquistare una coscienza rivoluzionaria più elevata. La conclusione che emerge dall’analisi del nostro autore è quindi un pessimismo completo e un allontanarsi dalle prospettive rivoluzionarie. Per rendere loro giustizia, bisogna pur dire che nemmeno loro capiscono quello che dicono.
In effetti le pretese che avanzano nei confronti della coscienza delle masse sono del tutto fantastiche. Gli operai spagnoli, così come i contadini spagnoli, hanno dato il massimo di quello che può dare una classe in una situazione rivoluzionaria. E dicendo classe, pensiamo in termini di milioni e decine di milioni.
Que faire? Rappresenta semplicemente una di quelle scuole, sette o chiesuole che, spaventate dal corso della lotta di classe e dall’infuriare della reazione, pubblicano in un cantuccio i loro giornalini e i loro studi teorici, tenendosi al margine dello sviluppo reale del pensiero rivoluzionario, per non parlare del movimento di massa.
La repressione della rivoluzione spagnola
Il proletariato spagnolo è caduto vittima di una coalizione composta da imperialisti, repubblicani spagnoli, socialisti, anarchici, stalinisti e, sul fianco sinistro, il Poum. Tutti costoro hanno paralizzato la rivoluzione socialista che il proletariato spagnolo aveva realmente cominciato ad attuare. Non è facile liquidare la rivoluzione socialista. Nessuno finora ha trovato metodi diversi dalla repressione spietata, dal massacro dell’avanguardia, dall’assassinio dei dirigenti, ecc. Certo il Poum non voleva tutto questo. Voleva da un lato partecipare al governo repubblicano, ed entrare come opposizione leale e pacifica, nel blocco dei partiti al governo; dall’altro lato, desiderava conservare rapporti amichevoli fra compagni, mentre si stava scatenando una guerra civile implacabile. Per questo motivo il Poum è caduto vittima delle contraddizioni della propria politica. La politica più conseguente nel blocco dirigente è stata quella degli stalinisti: sono stati l’avanguardia militare della controrivoluzione borghese repubblicana. Volevano eliminare la necessità del fascismo, provando alla borghesia spagnola e mondiale che loro stessi erano capaci di strangolare la rivoluzione proletaria sotto la bandiera della “democrazia”. Era questa l’essenza della loro politica. I bancarottieri del Fronte popolare spagnolo adesso cercano di far ricadere la colpa sulla Gpu. Ritengo che non possiamo essere sospettati di indulgenza verso i criminali della Gpu. Ma vediamo chiaramente e lo diciamo agli operai, che la Gpu in questa occasione ha agito soltanto come distaccamento più risoluto al servizio del Fronte popolare. È stata questa la forza della Gpu. È stato questo il ruolo storico di Stalin. Solo dei filistei ignoranti possono mettere da parte tutto ciò e fare delle battute imbecilli su Lucifero, il principe dei demoni.
Questi signori non si preoccupano nemmeno della questione del carattere sociale della rivoluzione. I lacchè di Mosca, a beneficio dell’Inghilterra e della Francia, hanno proclamato che la rivoluzione spagnola era borghese, e su questa frode hanno eretto la politica traditrice del Fronte popolare, una politica che sarebbe stata completamente false anche se la rivoluzione spagnola fosse stata davvero borghese; ma fin dall’inizio la rivoluzione manifestò il proprio carattere proletario assai più chiaramente che non la rivoluzione del 1917 in Russia. Oggi alla direzione del Poum si trovano dei signori che ritengono che la politica di Andrès Nin fosse troppo “di sinistra”, e che la sola cosa giusta sarebbe stata rimanere l’ala sinistra del Fronte popolare. La vera disgrazia fu che Nin, coprendosi con l’autorità di Lenin e della rivoluzione d’ottobre, non volle rompere col Fronte popolare. Victor Serge, che ha premura di compromettersi con un atteggiamento leggero nei confronti delle questioni serie, scrive che Nin non si volle sottomettere agli ordini di Oslo o di Coyoacàn. Ma è possibile che una persona seria riduca a squallide battute il problema della natura di classe della rivoluzione? I sapientoni del Que faire? Non hanno alcuna risposta da dare a questa questione, anzi non capiscono nemmeno la domanda. Che importa infatti che il proletariato “ancora immaturo” abbia costituito i propri organi di potere, si sia impossessato delle fabbriche, abbia cercato di regolamentare la produzione, mentre il Poum cercava non tutte le sue forze di evitare la rottura con gli anarchici borghesi, i quali in alleanza con i borghesi repubblicani e coi meno borghesi socialisti e stalinisti, hanno assaltato e strangolato la rivoluziona proletaria?
Simili “inezie” evidentemente sono di elusivo interesse dei rappresentanti dell’“ortodossia ossificata”. I sapientoni di Que faire? invece possiedono un apparecchio speciale che misura la maturità del proletariato e i rapporti di forza, indipendentemente da tutte le questioni di strategia rivoluzionaria.
(Coyòcan, Agosto 1940 – articolo non completato)