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Bruno Bauer e il cristianesimo primitivo

di Friedrich Engels

 

Il 13 aprile è morto a Berlino un uomo che aveva esercitato un tempo una certa influenza come filosofo e teologo, ma che da anni, quasi dimenticato, aveva attirato su di sé l’attenzione del pubblico solo di tanto in tanto, come uno «stravagante delle lettere». I teologi ufficiali, e tra essi anche il Renan, lo copiavano e perciò, unanimi, non parlavano affatto di lui. Eppure egli valeva più di tutti loro e più di tutti loro ha lasciato la sua traccia in una questione che interessa anche noi socialisti: la questione dell’origine storica del cristianesimo.

Prendiamo occasione dalla sua morte per descrivere brevemente lo stato attuale di questa questione e il contributo dato dal Bauer alla sua soluzione.

L’opinione che aveva prevalso dal tempo dei liberi pensatori del medioevo sino agli illuministi del XVIII secolo, secondo la quale tutte le religioni, compreso il cristianesimo, non erano altro che opera di impostori, non bastava più, da quando Hegel aveva assegnato alla filosofia il compito di dimostrare uno sviluppo razionale nella storia universale.

Ora è evidente che se le religioni naturali, come il feticismo dei negri o la religione primitiva comune ai popoli arii, sorgono senza che l’impostura vi abbia alcuna parte, nella loro successiva elaborazione però la mistificazione sacerdotale diventa ben presto inevitabile. Ma le religioni sorte artificialmente, a parte ogni sincera forma di esaltazione, non possono fare a meno, sin dalla, loro fondazione, dell’impostura e della falsificazione della storia; e a questo proposito anche il cristianesimo, sin dai suoi inizi, ce ne fa vedere delle belle, come ha mostrato il Bauer nella critica del Nuovo Testamento. Con ciò tuttavia non si fa che constatare un fenomeno generale, senza spiegare il caso particolare, del quale proprio si tratta.

Una religione che ha sottomesso a sé l’impero mondiale romano, e che ha dominato per 1.800 anni la massima parte dell’umanità civile, non si liquida spiegandola puramente e semplicemente come un insieme di assurdità originate da impostori. Si liquida, semmai, solo quando se ne sappia spiegare l’origine e lo sviluppo dalle condizioni storiche nelle quali è sorta ed è giunta a dominare. Ciò vale in modo speciale per il cristianesimo. Si tratta precisamente di risolvere la questione di come accadde che le masse popolari dell’impero romano preferirono questa assurdità, per di più predicata da schiavi e da oppressi, a tutte le altre religioni, tanto che alla fine l’ambizioso Costantino poté vedere nell’adozione di questa assurda religione il mezzo migliore per affermarsi come unico dominatore del mondo romano.

A dare una risposta a questa questione, Bruno Bauer ha contribuito molto più di chiunque altro. La successione cronologica e la stretta dipendenza dei Vangeli l’uno dall’altro, dimostrata dal Wilke da un punto di vista puramente linguistico, è stata anche da lui provata in modo inconfutabile, sulla base del loro contenuto, sin dal 1849, a dispetto dell’opposizione sollevata dai teologi semicredenti del tempo della reazione. Egli mise a nudo, in tutta la sua mancanza di scientificità, la confusa teoria dei miti dello Strauss, in virtù della quale ciascuno può considerare storico, nelle narrazioni evangeliche, tutto quel che gli piace. E poiché di tutto il contenuto dei Vangeli quasi assolutamente nulla si presentava come storicamente dimostrabile, tanto che si può dichiarare problematica la stessa esistenza storica di un Gesù Cristo, il Bauer riusciva per primo a sbarazzare il terreno sul quale deve essere risolta la questione: di dove provengono le idee e i pensieri che sono stati fusi nel cristianesimo in una specie di sistema, e come sono arrivati a dominare il mondo?

Di questo si occupò il Bauer, sino ai suoi ultimi giorni. Le sue ricerche hanno portato alla conclusione che l’ebreo alessandrino Filone, che viveva ancora, ma in età avanzata, nell’anno 40 della nostra èra, è il vero padre del cristianesimo, e lo stoico romano Seneca, per così dire, lo zio. I numerosi scritti a noi tramandati sotto il nome di Filone sono di fatto sorti da una fusione di tradizioni allegorico-razionalistiche ebraiche con la filosofia greca, in specie stoica. Questa conciliazione di concezioni occidentali e orientali contiene già in sé tutte le idee essenzialmente cristiane: la innata peccabilità dell’uomo; il logos, la parola, che è presso Dio ed è Dio stesso, che fa da intermediario fra Dio e l’uomo; la penitenza raggiunta non con sacrifici di animali, ma con l’offerta del proprio cuore a Dio; infine il dato essenziale, che la nuova filosofia capovolge l’ordinamento del mondo sino allora esistente, cerca i suoi apostoli fra i poveri, i miseri, gli schiavi e gli abietti, e disprezza i ricchi, i potenti, i privilegiati, ponendo al centro della sua dottrina il disprezzo di tutti i godimenti mondani e la mortificazione della carne.

D’altra parte, già Augusto aveva fatto si che non soltanto l’uomo-dio, ma anche la cosiddetta immacolata concezione diventassero formule prescritte in nome dell’impero. Non soltanto egli decretò onori divini a Cesare e a se stesso, ma fece anche diffondere la voce che lui, Augusto Cesare Divus, il divino, non era figlio di un padre mortale, ma sua madre lo aveva concepito dal dio Apollo. Purché questo dio Apollo non fosse parente di quello cantato da Heine!

Come si vede, manca soltanto la chiave di volta e l’intero cristianesimo nei suoi tratti fondamentali è completo: l’incarnazione del logos fatto uomo in una determinata persona e il suo sacrificio espiatorio sulla croce per la redenzione dell’umanità peccatrice.

Sul modo come questa chiave di volta, storicamente, è stata inserita nelle dottrine stoico-filoniane, le fonti realmente attendibili non ci dicono niente. Ma è certo che essa non è stata inserita da filosofi, scolari di Filone o della Stoà. Le religioni vengono fondate da gente che avverte essa stessa un bisogno religioso e s’interessa dei bisogni religiosi delle masse, e questo di regola non è il caso dei filosofi di scuola. Invece, in tempi di generale dissoluzione – come anche oggi, per esempio – noi troviamo filosofia e dogmatica religiosa appaiate in una forma volgarizzata e generalmente diffusa. Se la filosofia greca classica, nelle sue ultime forme – specialmente nella scuola epicurea – portava al materialismo ateistico, la filosofia volgare greca portava alla dottrina del dio unico e dell’anima umana immortale. Allo stesso modo l’ebraismo, volgarizzato razionalisticamente nella mescolanza e nei rapporti con stranieri semiebrei, era giunto a trascurare le cerimonie della legge, a trasformare l’antico dio nazionale esclusivo ebraico Jahveh1 nell’unico vero dio, creatore del cielo e della terra, e ad accettare l’immortalità dell’anima, originariamente estranea all’ebraismo. Così la filosofia volgare monoteistica s’incontrò con la religione volgare, che le presentava bell’e pronto l’unico dio.

Ecco preparato il terreno sul quale, presso gli ebrei, l’elaborazione delle concezioni filoniane, altrettanto volgarizzate, poteva generare il cristianesimo e questo, una volta generato, trovare accoglienza presso i greci e i romani. Che il cristianesimo sia derivato dalle concezioni filoniane popolarizzate, e non direttamente dagli scritti di Filone, lo dimostra il fatto che il Nuovo Testamento trascura quasi completamente la parte fondamentale di questi scritti, cioè l’interpretazione allegorico-filosofica delle narrazioni dell’Antico Testamento. E questo un aspetto che il Bauer non ha considerato a sufficienza.

Per farsi un’idea delle caratteristiche del cristianesimo, nella sua prima forma, basta leggere la cosiddetta Apocalisse di Giovanni. Un confuso intricato fanatismo, di dogmi solo alcuni accenni iniziali, della cosiddetta morale cristiana solo la mortificazione della carne e invece visioni e profezie in quantità. La completa elaborazione dei dogmi e dell’etica va attribuita ad un’epoca posteriore, alla quale appartiene la redazione dei Vangeli e delle cosiddette lettere apostoliche. E allora – almeno per la morale – venne utilizzata con disinvoltura la filosofia stoica, e in particolare Seneca. Che le lettere spesso lo copino letteralmente, lo ha dimostrato il Bauer; di fatto la cosa aveva già colpito i credenti, ma essi se la sbrigavano sostenendo che Seneca avrebbe copiato il Nuovo Testamento (che ai suoi tempi non era stato ancora scritto). La dogmatica si sviluppò da una parte in collegamento con la leggenda evangelica di Gesù, in via di formazione, dall’altra nella lotta fra cristiani giudaizzanti e cristiani pagani.

Anche sulle cause che hanno portato il cristianesimo alla vittoria e al dominio mondiale il Bauer fornisce dei dati di gran valore. Ma qui l’idealismo del filosofo tedesco gli è di ostacolo, gli impedisce di vedere chiaramente e di formulare con acutezza le sue idee. Al momento buono, la frase supplisce alla cosa. Ma, invece di esaminare nei particolari le concezioni del Bauer, diamo piuttosto la nostra opinione su questo punto. che è fondata, oltre che sugli scritti del Bauer, anche su studi indipendenti.

In tutti i paesi sottomessi, la conquista romana dissolse dapprima direttamente le precedenti istituzioni politiche e poi, indirettamente, anche le antiche condizioni di vita sociale. In primo luogo, in quanto essa poneva, al posto della precedente distribuzione per ceti (a parte la schiavitù), la semplice distinzione fra cittadini romani e non cittadini romani o sudditi. In secondo luogo, e principalmente, attraverso le estorsioni operate in nome dello Stato romano. Sotto l’impero alla frenesia di arricchimento dei governatori fu posto per quanto possibile un limite nell’interesse dello Stato; ma al posto di quella subentrò il torchio fiscale per il tesoro statale, che funzionava con sempre maggior forza, e in modo sempre più esoso; e questo dissanguamento ebbe un effetto spaventosamente dissolvente. In terzo luogo, infine, dappertutto si giudicava secondo il diritto romano, da giudici romani; quindi furono annullati quegli ordinamenti sociali locali che non si accordavano con l’ordinamento giuridico romano. Queste tre leve dovevano agire come un’immensa forza livellatrice, specialmente se applicate per un paio di secoli a popolazioni la parte più vigorosa delle quali era stata sterminata o condotta in schiavitù nelle lotte che avevano preceduto la conquista, che l’avevano accompagnata e che spesso ancora la seguivano. I rapporti sociali delle province si avvicinavano sempre più a quelli della capitale e dell’Italia. La popolazione si divideva sempre più in tre classi eterogenee, composte degli elementi e delle nazionalità più disparate: ricchi, tra, cui non pochi schiavi liberati (v. Petronio), grossi proprietari fondiari, usurai, o l’uno e l’altro insieme, come lo zio del cristianesimo, Seneca; liberi nullatenenti, che a Roma erano nutriti e divertiti dallo Stato e nelle province dovevano in qualche modo arrangiarsi; infine la grande massa: gli schiavi. Di fronte allo Stato, cioè all’imperatore, le prime due classi erano altrettanto prive di diritti che gli schiavi di fronte at loro padroni. Specialmente da Tiberio a Nerone, era di regola condannare a morte dei ricchi romani per confiscare i loro beni. Sostegno del governo era materialmente l’esercito, che assomigliava ormai molto di più a un’armata di lanzichenecchi che all’antico esercito romano di contadini, e moralmente la convinzione comune secondo cui questa situazione era senza vie d’uscita e che non certo questo o quell’imperatore, ma l’impero fondato sul dominio militare era una necessità immutabile. Non è questo il luogo di addentrarci nei fatti assai materiali sui quali si fondava questa convinzione.

Alla generale anarchia e alla disperata sfiducia nella possibilità di condizioni migliori corrispondeva un generale rilassamento e avvilimento. I pochi vecchi romani ancora superstiti, di modi e sentimenti patrizi, erano stati eliminati o si spegnevano; l’ultimo di loro è Tacito. Gli altri erano contenti se potevano tenersi del tutto lontani dalla vita pubblica; l’acquisto e il godimento delle ricchezze riempivano la loro esistenza, così come i pettegolezzi e gli intrighi privati. I liberi nullatenenti, che a Roma erano pensionati dello Stato, nelle province si trovavano invece in una condizione difficile. Dovevano lavorare, e per di più in dura concorrenza col lavoro degli schiavi. Ma essi erano limitati alle città. Accanto a loro, nelle province, c’erano ancora contadini, liberi proprietari del fondo (qua e là ancora con proprietà comune) o, come in Gallia, coloni asserviti per debiti ai grandi proprietari. Questa classe fu la meno toccata dal rivolgimento sociale; e anche al rivolgimento religioso oppose la più tenace resistenza2. Infine gli schiavi, senza diritti e senza volontà, nell’impossibilità di liberarsi, come aveva già dimostrato la sconfitta di Spartaco; ma essi stessi, in gran parte, ex liberi o figli di nati liberi. Fra loro, dunque, doveva regnare un odio più che mai vivo, anche se impotente, verso l’esterno, contro le proprie condizioni di vita.

Corrispondentemente a questa situazione troveremo che si erano conformati anche gli ideologi di quel tempo. I filosofi erano o semplici maestri di scuola che guadagnavano denaro o buffoni pagati da ricchi crapuloni. Parecchi erano persino schiavi. Il signor Seneca è un esempio di che cosa essi diventassero nella buona fortuna. Questo stoico, predicatore di virtù e di astinenze, era il primo degli intriganti alla corte di Nerone, e ciò significa che non poteva non esser servile: si faceva regalare denaro, poderi, orti, palazzi, e mentre predicava il povero Lazzaro del Vangelo, era in realtà l’uomo ricco della stessa parabola3. Solo quando Nerone volle la sua testa, pregò l’imperatore di riprendersi tutti i doni, ché la sua filosofia gli bastava. Soltanto pochi filosofi isolati, come Persio, brandivano la sferza della satira contro i degenerati contemporanei.

Quanto poi alla seconda specie di ideologi, i giuristi, essi erano entusiasti delle nuove condizioni, perché la scomparsa di ogni distinzione di ceti permetteva loro di elaborare in tutta la larghezza il loro diletto diritto privato, in cambio del quale regalarono poi all’imperatore il diritto pubblico più sfacciato che sia mai esistito.

Insieme con le particolari caratteristiche politiche e sociali dei popoli, l’impero romano aveva condannato al tramonto anche le loro particolari religioni. Tutte le religioni dell’antichità erano religioni naturali di tribù e, più tardi, nazionali, germogliate dalle condizioni sociali e politiche di ciascun popolo e con esse cresciute. Una volta distrutte queste loro basi e spezzate le forme sociali che si erano tramandate insieme con l’assetto politico tradizionale e con l’indipendenza nazionale, crollò, s’intende, la religione ad esse corrispondente. Gli dèi nazionali potevano tollerare altri dei nazionali accanto a sé, e questa era la regola generale nell’antichità: ma non sopra di sé. Il trasferirsi a Roma dei culti religiosi orientali nuoceva senza dubbio alla religione romana, ma non poteva arrestare la decadenza delle religioni orientali. Non appena gli dèi nazionali si rivelano incapaci di proteggere l’indipendenza e la libertà della loro nazione, si rompono la testa da sé. Così accadde dovunque (tranne che fra i contadini, specialmente sulle montagne). Quel che a Roma e in Grecia fece l’illuminismo della filosofia volgare – stavo per dire il volterrianesimo – nelle province fu il risultato dell’assoggettamento a Roma e della sostituzione di uomini fieri e liberi con sudditi disperati e straccioni egoisti.

Questa era la situazione materiale e morale. Il presente, intollerabile; il futuro, se possibile, ancora, più minaccioso. Nessuna via d’uscita. Disperazione o salvezza nel più ordinario piacere sensuale, per quelli almeno che potevano permetterselo, ed era una piccola minoranza. Altrimenti, non restava che la stanca rassegnazione all’inevitabile.

Ma in tutte le classi doveva trovarsi una quantità di gente che, disperando in una redenzione materiale, cercava come surrogato una redenzione spirituale: una consolazione della coscienza, che preservasse dalla completa disperazione. Questa consolazione non potevano offrirla la Stoà, e nemmeno la scuola di Epicuro, appunto perché queste filosofie non erano formulate per la coscienza comune, e poi perché la condotta dei loro seguaci gettava discredito sulle dottrine della scuola. La consolazione non doveva sostituire una filosofia perduta, ma la religione perduta; e questa consolazione doveva precisamente presentarsi sotto forma religiosa, come tutto ciò che allora, e poi ancora fino al XVII secolo, doveva commuovere le masse.

 

Note

1. Come ha già dimostrato Ewald, nei manoscritti punteggiati (provvisti di vocali e segni di lettura) gli ebrei scrivevano sotto le consonanti, del nome Jahveh, che era proibito pronunciare, le vocali della parola Adonai, letta in sua vece. Più tardi si finì col leggere Jehovah. Quest’ultima parola, dunque, non è il nome di un dio, ma semplicemente un grossolano errore grammaticale in ebraico e semplicemente impossibile (nota di Engels).

2. Secondo il Fallmeraver, nella Maina (Peloponneso) ancora nei IX secolo i contadini offrivano sacrifici a Zeus (nota di Engels).

3. Luca 16, 19-31.

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