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Brigantaggio e lotta di classe nel Risorgimento italiano

di Antonio Erpice

 

Banditi, criminali comuni, partigiani, giustizieri, vendicatori sanguinari, simbolo del ribellismo e dell’identità meridionale o della sua arretratezza, i briganti sono stati definiti nei modi più disparati. Abbiamo già avuto modo di descrivere le cause e gli episodi decisivi del brigantaggio post-unitario1, lo scopo di questo articolo è quello di definirne più puntualmente la natura. Ai poli opposti troviamo le due tesi principali, quella liberale, per cui i briganti non furono altro che criminali e reazionari al soldo dei Borbone,2 e quella borbonica (e neoborbonica) per cui i briganti furono i più fieri partigiani di Francesco II,3 un esercito popolare che combatté l’invasione piemontese e difese col proprio sangue l’onore del meridione. Nell’opinione di chi scrive, il brigantaggio, che fu un fenomeno articolato e muoveva da diverse cause,4 si caratterizzò per essere una rivolta contadina, espressa tanto attraverso la guerriglia delle bande, quanto attraverso le reazioni, cioè le insurrezioni di massa nei centri abitati, alla cui origine vi era l’estremo immiserimento dei contadini meridionali. È su questa condizione sociale, che fece da sfondo all’intero processo risorgimentale, che i Borbone e il papato provarono a indirizzare politicamente la reazione contadina contro lo Stato unitario, al fine di provocare una sollevazione che riportasse i vecchi regnanti al potere. Se la politica legittimista5 ebbe uno spazio, questo non fu dovuto ad un’adesione delle masse meridionali alla reazione, ma al modo in cui la borghesia italiana, compresa quella meridionale, portò a compimento l’unità del Paese.

Risorgimento e rivoluzione

Nella vulgata dominante, l’unificazione fu una grande ed eroica epopea nazionale, un miracolo che sancì la volontà comune di un popolo che per anni era stato diviso e oppresso dalle potenze straniere. Ma diversamente da come ci è stato raccontato, il Risorgimento più che un movimento di liberazione nazionale fu il compimento di un disegno guidato dai liberali, sotto l’ombrello dei Savoia, su cui conversero le principali forze unitarie della penisola.6 Un processo guidato dall’alto in cui le spinte rivoluzionarie, che pure erano presenti, furono tradite e soffocate. La “rivoluzione liberale”, a ben vedere, ebbe molti più elementi di continuità che di rottura con i regimi precedenti. Per il Mezzogiorno questo significò una generale condizione di subalternità, ma anche, in riferimento al tema che ci riguarda, l’eccidio dei contadini e la repressione delle loro lotte (che sarà una costante anche negli anni a venire), le fucilazioni sommarie per coloro che erano coinvolti nelle azioni di brigantaggio o che semplicemente aiutavano le bande.
Proprio in scia di questa interpretazione del Risorgimento, Gramsci sottolineò come l’unificazione italiana fosse avvenuta non attraverso un processo rivoluzionario che coinvolgesse gli strati popolari e i contadini, ma attraverso l’unità tra la borghesia industriale settentrionale e i grandi possidenti agrari del Sud.
Nel campo liberale, fu l’egemonia dei moderati, guidati da Cavour, in qualità di rappresentanti più coscienti del capitalismo in ascesa, a garantire all’unificazione un tratto marcatamente conservatore. Ma responsabili di questo esito furono anche i democratici, che non furono in grado di dare concretezza alla rivoluzione italiana. L’evanescenza di Mazzini – più volte bersaglio di critiche da parte di Marx7 – e i limiti di Garibaldi, che ebbe indubbie doti militari ma fu politicamente subalterno al re sabaudo e agli stessi moderati, fecero sì che in Italia venisse a mancare una direzione politica rivoluzionaria, il cui effetto fu drammatico soprattutto al Sud, dove avvenne lo scontro decisivo tra moderati e democratici, ma anche tra rivoluzione e reazione. Soprattutto, da queste premesse derivò l’incapacità di dare risposta, attraverso una riforma agraria, alle condizioni di vita dei contadini del Meridione, che pure avevano guardato con grandi aspettative al processo unitario, finendo poi per rimanerne delusi.
La borghesia italiana era nell’insieme in ritardo rispetto a quanto avvenuto in altri paesi europei come la Francia o la Gran Bretagna: era economicamente debole e politicamente divisa. Lo Stato unitario fu un passaggio decisivo per lo sviluppo delle forze produttive, la formazione di un mercato nazionale e in generale per l’affermazione e lo sviluppo della borghesia come classe dominante, con la piena conquista del potere politico ed economico. La debolezza della borghesia fece sì che l’unificazione si sviluppasse senza che la lotta venisse portata avanti fino alle estreme conseguenze, così come avvenne nella Rivoluzione francese sotto la direzione giacobina. Il risultato fu che in Italia, differentemente dai paesi che erano stati attraversati da una rivoluzione vittoriosa, gli obiettivi fondamentali di una rivoluzione democratico-borghese (indipendenza nazionale, riforma agraria, ecc.) non furono pienamente raggiunti, con elementi di debolezza del capitalismo italiano che permangono ancora oggi.
È su questa base, cioè sullo scarto tra quello che la “rivoluzione liberale” prometteva e quello che effettivamente dimostrava di essere, che i Borbone poterono portare avanti le loro incursioni nelle province meridionali, al fine di utilizzare i contadini contro la borghesia liberale. Le masse meridionali entrarono nel processo risorgimentale rivendicando la divisione delle terre demaniali, in conflitto con gli usurpatori, cioè i grandi proprietari terrieri che nel passaggio dell’economia meridionale dal feudalesimo al capitalismo si erano appropriati delle terre ex feudali. I contadini, specie i braccianti e i giornalieri, erano usciti da questo processo di trasformazione in condizioni peggiori, perdendo il legame che prima avevano avuto con la terra e la possibilità degli usi civici, cioè di pascolo, raccolta della legna e semina sulle terre.8 La situazione era grave anche per la piccola proprietà che in alcune aree del Mezzogiorno era molto diffusa. I contadini spesso possedevano piccole particelle di terra senza avere i capitali sufficienti per portare avanti la produzione, finendo strozzati dai debiti. In alcuni casi il risultato inevitabilmente era il riassorbimento e la concentrazione della terra nelle mani di proprietari più grandi.

La borghesia meridionale e i moti contadini

Nella rivoluzione napoletana del 1799 i contadini furono la chiave per la reazione sanfedista del cardinale Ruffo e il ritorno al potere dei Borbone9 ma nell’ottocento le cose andarono diversamente. Nel ’20-’21 il mondo agrario fu più compatto e non ci furono moti reazionari tra i contadini, mentre il ’48 segnò nel Mezzogiorno la frattura tra la borghesia liberale, che aveva preso coscienza di sé e ora lottava per il potere politico, e le masse contadine. Il cuore dei moti del ’48 era ovviamente nei centri urbani, ma questi non avrebbero mai potuto vincere senza trascinarsi dietro le campagne, che a loro volta furono scosse dalle agitazioni contadine. Il rafforzamento della borghesia tra il ’20 e il ’48 fece sì che questa si separasse dagli interessi delle masse, rifiutando di appoggiare il movimento di occupazione delle terre del ’48, fondamentalmente perché i contadini, a differenza dal ’20-’21, occuparono non solo le terre comuni, ma anche terre che da tempo erano state chiuse, minacciando quindi la proprietà.10 La borghesia meridionale tentò ancora e fino all’ultimo la conciliazione col re affinché portasse avanti la politica liberale. Già nel ’48 quindi i moti contadini non ebbero una vera direzione politica e in alcuni casi sfociarono nel sanfedismo. Alla fine furono in particolare i settori della piccola borghesia che provarono ad indirizzare i moti. La paura della borghesia dei moti contadini, così come dei primi moti operai, fu emblematica di una fase in cui, ad un livello diverso, in altri paesi d’Europa e in particolare in Francia, si produsse la prima profonda spaccatura tra gli interessi della borghesia dominante e quelli del proletariato.11
La sconfitta del ’48 e l’incapacità di estendere la mobilitazione alle masse nella stessa città di Napoli segnò la fine della via democratica e rivoluzionaria all’unificazione,12 spalancò le porte ai moderati e garantì il passaggio dal protagonismo delle masse a quello delle diplomazie europee, forti della sconfitta della rivoluzione a livello continentale.13
Il ’48, col suo lascito di repressione, carcere ed esilio, fece maturare in gran parte della borghesia meridionale la conclusione che non fosse possibile cambiare la propria condizione da sola o con i Borbone, questa si avvicinò alla borghesia settentrionale e aderì all’idea unitaria, con la fondamentale subalternità al re sabaudo. Il risultato fu, com’è noto, l’unificazione per annessione e l’estensione dell’architrave istituzionale piemontese all’intera Italia, la così detta “piemontesizzazione”.
Un filo conduttore unì l’intero processo: la paura della rivoluzione. Come vedremo questo sarà un elemento decisivo anche nel ’60, quando si espresse tanto nella necessità di liquidare l’esperienza garibaldina, che nonostante i suoi limiti fu percepita come un pericolo, quanto nella repressione del brigantaggio e nel compattare la classe dominante nell’odio contro i cafoni. Il risultato decisivo fu che questi avrebbero individuato lo Stato unitario come lo Stato dei signori, lo Stato era dei e per i galantuomini e alla rivoluzione liberale non erano stati invitati.

Revisionismo e nazione napoletana

Dagli anni ’80 in poi, e in particolare attorno alle celebrazioni del centocinquantenario dell’unità d’Italia, si è fatta avanti una storiografia revisionista che a ragione viene definita neoborbonica.14 Non è compito di questo articolo affrontare l’insieme delle loro tesi sul Risorgimento, ma vale la pena richiamare il punto essenziale perché costituisce la premessa per la caratterizzazione politica del brigantaggio. Eliminando qualsiasi lettura di classe del processo unitario, i revisionisti meridionalisti leggono l’unificazione italiana esclusivamente come guerra di conquista.15 Nelle loro tesi ci sono ovviamente elementi di verità, ma sono annegati nella retorica legittimista. L’approdo è ovviamente la mitizzazione del regno delle Due Sicilie, innalzato a simbolo di un passato d’oro, che compattamente sosteneva i Borbone, sconfitto per l’utilizzo di cospirazioni e raggiri e per il tradimento di pochi. La lotta dei briganti è quindi la lotta partigiana dei difensori della nazione napoletana, di chi si opponeva all’invasore piemontese, e in alcuni casi addirittura diventa il simbolo della lotta per la difesa dell’identità meridionale. Nel brigantaggio ovviamente non mancarono elementi di fedeltà dinastica e di patriottismo borbonico, si pensi al ruolo degli ex soldati borbonici che furono una componente importante del brigantaggio. Briganti come il sergente Romano in Puglia o Antonio Franco sul Pollino tra Calabria e Lucania si considerarono soldati di Francesco II. Importante fu pure il sentimento religioso e la fedeltà all’altare, ma da qui a individuare il brigantaggio come una guerra di resistenza per la difesa della nazione napoletana ce ne passa. L’idea del brigantaggio come lotta popolare a difesa del regno16 risulta inadeguata ancora di più in un contesto in cui l’ideologia dominante fu, al Sud come al Nord, in gran parte orientata alla formazione dell’identità italiana.17

La crisi del Regno delle Due Sicilie

Il punto decisivo è che il Mezzogiorno d’Italia, come abbiamo in parte già visto, fu attraversato da una successione di avvenimenti che aprirono lo scontro di classe all’interno del regno delle Due Sicilie ben prima del processo di unificazione, tanto da essere considerato dai liberali la polveriera d’Italia, proprio per le contraddizioni che il regno andò accumulando. Un processo che tra l’altro è pienamente inserito nel generale clima rivoluzionario europeo.
Proprio per questo, un conto è criticare, anche ferocemente, il modo in cui il processo unitario venne effettivamente portato avanti, un altro è negare che al Nord come al Sud la lotta per l’unificazione, e quindi della rivoluzione liberale e borghese, avesse un’aspirazione progressista, legata all’idea della lotta contro la dominazione straniera, ma anche contro la tirannia e, per gli strati popolari urbani come per i contadini, anche di migliori condizioni, a cui si orientarono in modo diverso migliaia di meridionali. Questo aspetto è da sottolineare perché, differentemente da quanto avviene nella lettura “nazionalista” neoborbonica, permette anche di individuare le effettive responsabilità delle classi che portarono avanti il processo di unificazione al Nord come al Sud del Paese. Di fronte alle trasformazioni a livello europeo tra Settecento e Ottocento i Borbone non affrontarono fino in fondo il potere baronale, preferendo agevolare il processo di trasformazione del baronato in grandi proprietari borghesi, con una politica volta a contenere il malcontento delle masse ma evitando qualsiasi riforma radicale. Il risultato fu una politica di riforme fatte di continui ripensamenti, come dimostra il ’48 con la Costituzione concessa e poi ritirata poco dopo, e un uso massiccio della repressione.
Ferdinando II18 fu il primo a passare apertamente alla reazione,19 tanto da guadagnarsi il soprannome di Re bomba. In Sicilia il regno si manteneva in piedi solo sull’uso della forza e degli odiati sorci, i soldati borbonici. A Palermo il 12 gennaio il popolo insorse,20 fu il primo a farlo a livello europeo, e lo fece anche contro Napoli e per l’autonomia dell’isola, la monarchia borbonica venne dichiarata decaduta. La repressione borbonica non riguardò solo la Sicilia, a Napoli il 15 maggio del ’48 vennero uccise 500 persone dagli svizzeri inquadrati nell’esercito borbonico. Ma al di là della repressione il regno non poté fare molto altro.
Quando nel ’60 si riaprì la partita i Borbone non avevano più veri punti di appoggio nella società, e di fronte all’impresa garibaldina il regime borbonico collassò su se stesso. I volontari garibaldini risalirono l’Italia nonostante sulla carta si sarebbero dovuti scontrare con un esercito notevolmente superiore (95mila tra ufficiali e soldati).21 A niente servì riesumare la Costituzione del ’48, che ormai appariva come una manovra disperata. La Sicilia rimaneva però il tallone d’Achille del regno, non a caso scelta per la spedizione garibaldina. Nel ’60 Palermo insorse di nuovo, con barricate e nuove squadre che affluirono dai paesi circostanti. I borbonici non rischiarono gli uomini di cui disponevano nei combattimenti di strada ma alla fine furono rinvenuti 600 civili.22 Fu il contesto insurrezionale a rendere impraticabile la repressione borbonica, i cui comandanti siglarono un accordo per il ritiro delle truppe dalla città con Garibaldi. Non fu solo Palermo ma anche le campagne ad essere in fibrillazione, per via della promessa, che lo stesso Garibaldi aveva fatto, con un decreto il 2 giugno, di distribuire la terra a chi avesse combattuto per la causa unitaria. Nell’isola un ruolo attivo fu giocato anche dai galantuomini che sostennero Garibaldi e gli fornirono i loro picciotti al fine di tenere sotto controllo la rivolta sociale e gestire il processo.
Anche alcuni briganti, in quanto parte del mondo contadino, si orientarono a Garibaldi, in alcuni casi per poter essere riabilitati dal governo liberale: Crocco e Ninco Nanco, due dei più importanti briganti lucani, parteciparono alle insurrezioni di Potenza, il brigante silano Muraca si mise al servizio di Garibaldi aiutandolo a disarmare le truppe borboniche nella piana di Soveria. Il cosentino Pietro Monaco, che diventò un capobanda, combatté da volontario con Garibaldi a Capua. Fu l’accordo tra i militari garibaldini e quelli napoletani a far in modo che dalla Calabria Garibaldi potesse risalire il Sud Italia per poi arrivare fino a Napoli, senza una vera opposizione e con l’ingrossamento delle file dell’esercito garibaldino, che arrivò a contare 40mila-50mila uomini e di cui la metà era composta da meridionali.
Le aspettative che suscitò l’impresa garibaldina furono alte, il dato non è omogeneo e non assunse nel continente l’impatto che ebbe in Sicilia, ma vi furono in diverse parti del Mezzogiorno moti insurrezionali guidati dai liberali. La Basilicata, ad esempio, nell’agosto del ’60 fu attraversata da moti insurrezionali di matrice unitaria e liberale, che ebbero alla base aspirazioni demaniali, i liberali infatti promettevano le terre della corona ai contadini. I governi pro-dittatoriali in diverse province abolirono la tassa sul macinato, dimezzarono il prezzo del sale e in diversi casi i contadini occuparono le terre demaniali usurpate. Garibaldi ordinò che gli abitanti poveri di Cosenza e dei suoi casali potessero esercitare gratuitamente gli usi di pascolo e di semina nelle terre demaniali della Sila.
Ma al di là dei proclami, il movimento garibaldino non aveva un vero programma agrario. Furono gli stessi garibaldini che per primi, nell’affanno di gestire il nuovo ordine, repressero i moti contadini e ne tradirono le aspirazioni. Il caso più noto, ma non di certo l’unico, fu quello di Bronte, dove un’insurrezione popolare provocò sedici morti, in prevalenza nobili e proprietari terrieri. La rappresaglia ordita da Bixio, luogotenente di Garibaldi, fu esemplare, con un processo sommario e cinque condannati a morte, tra cui l’avvocato Lombardo, accusato di essere responsabile della rivolta, ma estraneo ai fatti. I corpi dei fucilati furono lasciati esposti e insepolti come monito, affinché si chiarisse l’inviolabilità della proprietà privata, e inaugurando una pratica che sarà poi adottata dall’esercito regio contro il brigantaggio.
Nel giro di poco tempo gran parte dei provvedimenti sopra citati vennero ritirati e inasprite le pene nei confronti di azioni di forza da parte dei contadini, sia rispetto alla proprietà privata che alle terre demaniali.
Con la vittoria dei moderati i settori più avanzati della rivoluzione unitaria vennero umiliati e politicamente disarmati. Le promesse di migliori condizioni di vita vennero inevitabilmente tradite, per protestare contro il nascente Stato unitario rimase come unico strumento quello delle rivolte contadine e della guerriglia di bande. Quello che non riuscirono a fare i garibaldini sul terreno repressivo lo avrebbe fatto da lì a poco la politica moderata che usò nella lotta al brigantaggio il pugno di ferro, dichiarando prima lo stato d’assedio e poi la legislazione speciale (la legge Pica) al fine di sedare le agitazione nell’Italia meridionale.23

I Borbone e i briganti

I briganti che ebbero caratterizzazione politica la ebbero in senso reazionario e legittimista. I Borbone e il clero poterono avvantaggiarsi di questa situazione di ostilità allo Stato unitario e, con demagogia e raggiri, arruolare tra le masse, promettendo loro la terra e denunciando i privilegi che la rivoluzione nazionale dava ai galantuomini mentre per gli sfruttati c’erano solo peggiori condizioni, maggiore tassazione e repressione. I comitati borbonici giocarono un ruolo attivo nell’armare le bande di contadini e ex soldati ma, nonostante il tentativo di organizzare la sollevazione generale, il piano di restaurazione fallì anche perché non trovò un’eco paragonabile alla reazione del 1799, non esistette cioè un legittimismo di massa. Il progetto di Borjes, il generale legittimista spagnolo inviato nel Mezzogiorno al fine di organizzare la reazione borbonica, in fin dei conti fallì perché non trovò la disponibilità delle masse meridionali a sostenere la sua impresa.
Il tentativo dei Borbone di indirizzare politicamente il malcontento dei contadini, così come il rapporto tra briganti e borbonici, non fu lineare né pacifico. Le rivolte contadine non ebbero un vero programma e il legittimismo politico fu effettivamente l’unica proposta politica di cui poterono usufruire. Attraverso i comitati borbonici e le manovre del re e dello Stato pontificio vi fu l’utilizzo strumentale del malessere contadino, ma mancò qualsiasi capacità di unificare una direzione e anche di disciplinare i briganti agli emissari del re o del papa. Ciò valse per la rottura tra Borjes e Crocco in Basilicata ma anche per il rapporto conflittuale tra Tristany, altro nobile legittimista, e Chiavone ai confini con lo Stato Pontificio. Chiavone infatti, nonostante le pressioni del comitato borbonico romano, preferì il brigantaggio comune alla guerriglia legittimista, tant’è che fu Tristany a farlo giustiziare. Le diverse famiglie potenti, fornendo ricompense, utilizzarono i briganti per motivi politici e rivalità personali. Nelle testimonianze di coloro che furono catturati vi è la sensazione di essere stati truffati dai potenti. Altri, più scaltri, sottolinearono la loro indipendenza, Cipriano la Gala replicò ad un avvocato da lui catturato: “Tu hai studiato, sei avvocato, e credi che noi fatichiamo per Francesco II?”.24 Alcuni briganti in realtà utilizzarono l’autorità di Francesco II per imporre i loro proclami e diramare i propri ordini. Alla base della mobilitazione contadina vi furono cause economiche e sociali, la loro strumentalizzazione e le parole d’ordine reazionarie non furono sufficienti ad organizzare nel Mezzogiorno qualcosa di simile alla Vandea controrivoluzionaria. Sia rispetto all’organizzazione, all’estensione, ma soprattutto alla mancanza di una direzione del processo reazionario, cosa che da soli né i briganti né i contadini potevano e intendevano organizzare. In particolare mancarono capi militari e figure di spicco nel campo borbonico, capi legittimisti napoletani alla testa delle bande. Man mano che veniva meno la direzione borbonica la lotta sfociò più apertamente nel saccheggio e nelle razzie, arrivando a perdere anche il consenso di cui inizialmente godeva, un elemento importante per la repressione e la sconfitta del fenomeno.

Conclusioni

Il brigantaggio post-unitario è stato un fenomeno complesso che come abbiamo visto non può essere liquidato come semplice reazione borbonica o atti delinquenziali. Azioni di criminalità comune (assassini, vendette personali, furti e rapine) erano ovviamente presenti nel banditismo brigantesco, specialmente tra le bande più piccole, così come la violenza cieca o il desiderio di vendetta, ma fondamentalmente le bande erano organizzazioni finalizzate alle azioni di guerriglia, la cui matrice di classe era quella contadina. È tra i contadini poveri che non solo vi era il maggior ricorso alla formazione di bande (gli stessi ex soldati del disciolto esercito borbonico venivano da quel mondo), ma soprattutto il sostegno alle azioni brigantesche, in particolare nel periodo del grande brigantaggio,25 dove la sollevazione contadina assunse dimensioni di massa.
Sarebbe però sbagliato individuare l’insieme delle azioni brigantesche come parte di una guerriglia contadina, intesa in senso moderno. In alcune letture maoiste e terzomondiste del brigantaggio questo viene considerato alla stregua della guerriglia che abbiamo visto in alcuni paesi nel Novecento.26 È fin troppo ovvio sottolineare che le azioni brigantesche erano spesso effimere, e non arrivarono ad unificarsi nemmeno su scala provinciale, al di là dell’effetto domino che si produceva in alcuni territori. Le insurrezioni nei singoli municipi duravano poco e non furono capaci di produrre nessuna strategia generale che andasse oltre l’attesa del ritorno dei Borboni. Gli unici territori che i briganti contendevano allo Stato italiano e su cui potevano esercitare un controllo erano boschi e zone disabitate. Per la sua stessa natura, il brigantaggio non aveva un vero programma, e nonostante il retroterra dei moti contadini con cui si relazionava, i moti demaniali e il brigantaggio non sono pienamente sovrapponibili, né tutte le agitazioni demaniali sfociarono nella formazione di bande di briganti. L’obiettivo dei briganti non era quello dell’organizzazione del mondo contadino e il loro orizzonte era limitato al mondo che avevano sempre conosciuto.
Il brigante Tortora dichiarò: “Ladri sono i galantuomini delle città, e prima i concittadini miei, e uccidendoli non fo’ loro che la giustizia [che] meritarono; se tutti i cafoni conoscessero il loro meglio non n’avrebbe a restare in vita per uno”. Inevitabilmente i briganti godevano della simpatia dei contadini, rappresentando i loro sentimenti di rivalsa e di giustizia.27 In alcune zone le loro imprese appartenevano alla memoria collettiva, finendo facilmente per essere mitizzate.28 Manca però qualsiasi iniziativa da parte dei briganti verso l’occupazione delle terre e nella lotta contro gli usurpatori, il loro profilo è quello della protesta armata, del saccheggio, della distruzione. Animati dal senso di ingiustizia e dall’odio verso i galantuomini il brigantaggio non va oltre la ribellione. Un ribellismo che non a caso ha visto tradizionalmente l’esaltazione da parte degli anarchici. Si tratta di una lotta in forme primitive, a tratti disperata e senza prospettiva, ma nel contesto generale che abbiamo descritto sopra, che non poteva che isolarli, era impensabile che producessero molto di più.
Il brigantaggio è stato utilizzato a simbolo dell’arretratezza del Sud e il bagno di sangue a cui furono sottoposti i contadini il prezzo necessario per entrare nella civiltà. Come abbiamo provato a spiegare, le agitazioni demaniali e la condizione dei contadini, che sono alla base del brigantaggio, sono il frutto delle trasformazioni economiche del Sud e non del suo immobilismo. Certo, sono il frutto di un capitalismo arretrato, ma è un’arretratezza che loro subirono e a cui opposero rivendicazioni vecchie (gli usi civici) e nuove (la divisione delle terre demaniali).
Questi reagirono a condizioni disperate come erano abituati tradizionalmente a fare, da secoli, con rivolte spontanee e esplosioni di rabbia. Differentemente dagli anni precedenti però ora si trattava di una rivolta prolungata che, anche per la mancanza di alternative e per lo scontro con lo Stato unitario, si alimentava di continuo, si strutturava militarmente e durò degli anni. Per questo alcuni hanno definito il brigantaggio come prima lotta autonoma, e quindi compiutamente antiborghese, dei contadini proletari meridionali, ma è un’esagerazione; la risposta non poteva venire dal brigantaggio, che in fin dei conti era il canto del cigno di un mondo rurale che stava definitivamente sparendo. Nel giro di pochi anni l’organizzazione dei contadini fece un salto di qualità in avanti impressionante, dotandosi di propri programmi e organizzazioni capaci di inserirsi nel quadro della lotta di classe tipica delle dinamiche capitalistiche, il che ovviamente segnò la sostanziale fine del brigantaggio.
Il brigantaggio è stato anche concepito come lotta anticoloniale, cioè come risposta popolare alla volontà dei piemontesi che a loro volta dovevano schiacciare la rivolta meridionale al fine di poter imporre il proprio dominio al Sud. La lotta dei briganti è quindi la lotta per difendere le proprie terre e per non essere trasformati in colonia. Indubbiamente tra i piemontesi e i fautori dello Stato nazionale c’era chi sosteneva l’arretratezza antropologica del Sud,29 la stessa retorica risorgimentale comportava la liberazione dal Mezzogiorno da parte del Nord. Non mancano similitudini con l’attitudine razzista tipica delle imprese coloniali,30 ma porre l’accento solo su questo punto significa negare il fatto che nel Sud l’unificazione avvenne con elementi di guerra civile31 e di scontro di classe (i primi nemici erano i galantuomini meridionali e i liberali della guardia nazionale, meridionali anch’essi) e si ricade inevitabilmente nella retorica neoborbonica, nello scontro identitario o nelle differenze culturale tra Nord e Sud così care, ad esempio, ai sostenitori delle tesi post-coloniali.32
Al di là di ogni mitizzazione, la storia del brigantaggio e della sua repressione sono una cicatrice, purtroppo non l’unica, che ci ricorda cosa hanno dovuto patire i contadini e il popolo meridionale. Si tratta di una storia che va conosciuta e sottratta all’oblio e alla manipolazione, sia essa finalizzata a improbabili progetti secessionisti o alla retorica nazionalista e patriottarda dell’Italia unita. È sacrosanto non solo che ci si indigni, ma che si percepisca il brigantaggio come parte della nostra storia di sfruttati, per capire e riscoprire le tradizioni rivoluzionarie del Meridione d’Italia. Tocca a noi farlo.

 

Note
1. Per una sintesi del brigantaggio meridionale post unitario dal 1860 al 1870, si veda l’articolo: Quando c’erano i briganti ascesa e repressione del brigantaggio post-unitario (1860-1870).

2. Ovviamente anche tra i liberali c’era chi ammetteva l’esistenza di cause più profonde. La stessa relazione di Massari, che faceva il punto nel ’63 a nome della commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio nelle province meridionali, dopo aver denunciato le responsabilità dei Borbone e del papato, sottolineava come alla radice ci fosse la condizione di miseria dei contadini proletari. Ma questo avveniva dopo anni di minimizzazione e negazione del fenomeno. Bollare qualsiasi episodio di opposizione al nascente Stato unitario come brigantaggio era già di per sé un atto di criminalizzazione del fenomeno, considerato come espressione della parte più retriva, la feccia della società, che in molti casi veniva liquidato e associato ai fenomeni delinquenziali e alla camorra.

3. Francesco II di Borbone (1836-1894) fu l’ultimo re del regno delle Due Sicilie, dal 22 maggio del ’59 al 13 febbraio del ’61, anno in cui venne spodestato in seguito all’annessione dei territori meridionali al regno d’Italia.

4. Anche rispetto alle cause rinviamo all’articolo sopra citato. In estrema sintesi queste furono: la lotta per la quotizzazione (divisione) delle terre demaniali, lo scioglimento dell’esercito borbonico, e in parte anche di quello garibaldino, la leva obbligatoria, col conseguente processo di renitenza, l’aumento della tassazione e in generale il peggioramento delle condizioni di vita nel Sud Italia in seguito al crollo del regime borbonico.

5. Per legittimismo qui si intende semplicemente la rivendicazione del ritorno al trono del legittimo sovrano, che in questo caso era Francesco II di Borbone.

6. Va detto che oggi il mito risorgimentale è fortemente in crisi e non trova grandi difensori, come si è visto nelle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, tenutesi qualche anno fa senza grande entusiasmo nonostante la grande campagna mediatica. Il Risorgimento infatti è da anni sotto attacco della propaganda leghista e razzista nei confronti dei meridionali, a cui più recentemente si è aggiunta la propaganda neoborbonica, su cui ritorneremo più avanti, essendo parte integrante del dibattito sul brigantaggio.

7. Marx criticava a Mazzini l’incomprensione dei processi rivoluzionari, il rifiuto della lotta di classe e soprattutto la sottovalutazione del peso che le masse avevano nei processi storici, problema che Mazzini, con la sua concezione cospirativa, idealistica e religiosa, non era in grado di cogliere. “Ritengo la politica di Mazzini assolutamente falsa” – scriveva Marx a Weydemeyer l’11 settembre 1851. “Egli lavora completamente nell’interesse dell’Austria mentre stimola l’Italia all’attuale insurrezione. D’altra parte egli trascura di dedicarsi a quella parte dell’Italia che da mille anni è oppressa, ai contadini, e prepara, con questo, nuove risorse alla controrivoluzione. Il signor Mazzini conosce solo le città con la loro nobiltà liberale e con i loro borghesi illuminati. Le necessità materiali degli abitanti della campagna italiana – altrettanto stremati e sistematicamente snervati e instupiditi degli irlandesi – giacciono naturalmente troppo in basso per il cielo di frasi dei suoi manifesti cosmopolitici-neocattolici-ideologici. Ma certo ci vuole del coraggio per dichiarare ai borghesi ed alla nobiltà che il primo passo per l’indipendenza d’Italia è la piena emancipazione dei contadini e la trasformazione del loro sistema di mezzadria nella libera proprietà borghese. Sembra che Mazzini ritenga più rivoluzionario un prestito di 10 milioni di franchi che l’acquisto di dieci milioni di uomini” (K. Marx, F. Engels, Sul Risorgimento Italiano, Roma, 1959, p. 26).

8. Le rivendicazioni sui demani sono state spesso portate a dimostrazione dell’arretratezza dell’economia meridionale. Rosario Villari, non senza unilateralismo, addirittura sostenne che: “È questa una delle più importanti manifestazioni del carattere ‘anacronistico’ che ha avuto la lotta di classe nel Mezzogiorno, derivante dalla generale arretratezza di un ambiente sociale in cui la formazione della proprietà privata borghese non è stata mai accettata come un fatto compiuto e definitivo” (R. Villari, Il Sud nella storia d’Italia, Bari 1977, Vol. 1, p. 161). Villari definisce arcaiche le rivendicazioni dei contadini, quelle degli usi civici sicuramente lo erano, ma in parte era naturale che i contadini rivendicassero un loro tradizionale diritto che con la chiusura delle terre veniva a mancare, ancora di più se si considera le usurpazioni da parte dei grandi proprietari terrieri. Soprattutto, quella degli usi civici era una richiesta che coloni e braccianti affiancavano allo stesso diritto alla terra, attraverso, appunto, la rivendicazione delle divisioni in quote delle terre demaniali.

9. A Napoli il 23 gennaio del 1799 la borghesia intellettuale, sotto l’egida francese, diede vita alla Repubblica Napoletana, la cui durata fu di solo sei mesi. Il cardinale Fabrizio Ruffo, col sostegno della corte borbonica rifugiata a Palermo, organizzò, partendo dalla Calabria, un esercito popolare, composto prevalentemente da contadini. L’esercito della Santa Fede (da cui deriva il termine sanfedismo) vide tra l’altro la partecipazione di alcuni noti briganti come Fra Diavolo e Mammone e riuscì a riconquistare i territori controllati dai repubblicani, permettendo il ritorno al trono dei Borbone.

10. Carlo Poerio, liberale moderato protagonista del ’48 e membro del governo costituzionale napoletano rispetto ai moti contadini in Calabria ricorderà che: “La rapina ed i ricatti delle bande armate han finito di disgustare la massa de’ proprietari e degli onesti cittadini” e che in Cilento: “gli sciagurati che si sono mossi formano una setta antisociale e bestiale” (Riportato in A. Lepre, Il Mezzogiorno dal feudalesimo al capitalismo, Napoli 1979, p. 81).

11. Marx analizzò questo aspetto decisivo del ’48 parigino nel suo Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850.

12. L’estremo tentativo al Nord fu l’insurrezione di Milano del ’53, che Marx commentò con ammirazione per “un atto eroico di un pugno di proletari che, armati di soli coltelli, hanno avuto il coraggio di attaccare una cittadella e un esercito di 40mila soldati tra i migliori d’Europa, mentre i figli di Mammone danzavano, cantavano e gozzovigliavano in mezzo alle lacrime e al sangue della loro nazione umiliata e torturata”. (K. Marx, F. Engels, Sul Risorgimento Italiano, cit., pag. 102-106).

13. È interessante come Lepre sintetizza e ricostruisce questo passaggio nelle campagne: “La situazione è dunque a Napoli notevolmente complessa. Nelle campagne invece, la lotta di classe assume caratteri più chiari. Da una parte si schiera la grande e media borghesia agraria; dall’altra sono le masse dei contadini poveri. In nome della difesa della proprietà, grande e media borghesia trovano l’accordo che manca invece su altre questioni di politica interna, in particolare sull’ampiezza e profondità che dovrebbe avere la liberalizzazione delle strutture politiche. E gli stessi democratici che operano a Napoli, e quindi esprimono più immediatamente di interessi, le aspirazioni, le paure, dei proprietari di provincia che hanno fissato la loro residenza nella capitale, non hanno nessuna esitazione nell’affermare col massimo vigore l’intoccabilità del principio della proprietà privata. Nello stesso tempo, essi scelgono di battersi per l’unità nazionale, e questa scelta, che per molti liberali significa, molto concretamente, allargamento del mercato, ha per i democratici un valore più profondo: l’unità è vista come il quadro generale in cui si risolveranno anche i problemi della giustizia sociale; un valore più profondo, ma anche essenzialmente mitico: nella realtà, infatti, l’unità approfondirà anche più le fratture esistenti nella società del Mezzogiorno”. (A. Lepre, Il Mezzogiorno dal feudalesimo al capitalismo, cit., p. 101).

14. Rientrano in questo filone anche libri che hanno avuto una certa diffusione come “Terroni” e gli altri scritti di Pino Aprile, “Controstoria dell’unità d’Italia” di Gigi Di Fiore o “Il sangue del Sud” di Giordano Bruno Guerri. Si tratta di libri che cavalcano l’indignazione e la rabbia meridionale, giustamente accumulata dopo anni di propaganda razzista e anti-meridionale, approdando alla difesa acritica dei Borbone.

15. In estrema sintesi per i neoborbonici il regno sabaudo, grazie al sostegno internazionale, poté annettere il Sud Italia con una guerra non dichiarata, Garibaldi con i soldi dell’Inghilterra arruolò i mafiosi e comprò gli alti gradi dell’esercito napoletano. Con la farsa dei plebisciti venne data copertura legale alla conquista, salvo poi massacrare i meridionali, con deportazioni di massa, depredare il Sud e costringere i meridionali all’emigrazione in massa.

16. Questa tesi, che oggi viene riproposta, è in realtà un classico dell’armamentario legittimista e risale allo storico funzionario borbonico Giacinto De’ Sivo e al suo Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861.

17. Non è necessario spiegare la difficoltà nel costruire un’identità nazionale perché è cosa nota, ma questa più che il frutto di uno scontro tra il Nord e il Sud del paese era il risultato della frammentazione generale dell’Italia e della sua estrema differenziazione interna.

18. Ferdinando II di Borbone (1810-1859), re del regno delle Due Sicilie dal 1830 al 1859.

19. Sulla sconfitta del ’48 Napoletano e sul ruolo giocato dal Lumpenproletariat (sottoproletariato) ma anche sul ruolo della re-pressione dei Borbone vale la pena leggere il breve commento di Engels a riguardo. (Vedi K. Marx, F. Engels, Sul Risorgimento Italiano, cit., pag. 57-59).

20. Nel ’48 Palermo fu la prima città europea ad insorgere, i centri cittadini erano in rivolta, ovunque artigiani e operai formarono barricate. La vittoria napoletana fu possibile grazie al massiccio bombardamento della cittadella di Messina e una vendetta efferata sulla popolazione civile con un migliaio di morti, saccheggi e combattimenti casa per casa (Vedi S. Lupo, L’unificazione Italiana, Roma 2011, pag. 46-47).

21. “Ma che razza d’esercito è questo! – scrive Engels – Bello a vedersi esternamente tanto da soddisfare la persona più esigente, ma non si trova né vita, né spirito, né patriottismo. Non ha tradizioni militari nazionali. Quando i napoletani combatterono come tali furono sempre sconfitti. Soltanto al seguito di Napoleone essi conobbero la vittoria. Non è un esercito napoletano. È semplicemente un esercito regio. È stato formato ed organizzato con l’espresso e l’esclusivo scopo di tener sottomesso il popolo. E persino per questo scopo appare inadatto. Esso comprende un buon numero di elementi antimonarchici, il quali ora vengono alla luce dappertutto. I sergenti e i caporali, in particolar modo, sono quasi tutti dei liberali. Interi reggimenti gridano: ‘Viva Garibaldi!’. Nessun esercito ha mai subito tanti disastri quanti ne ha subiti questo da Calatafimi a Palermo, e se le truppe straniere e qualche napoletano hanno combattuto bene a Milazzo, non bisogna dimenticare che gli elementi scelti formano soltanto una piccola minoranza dell’esercito. Così si può dar quasi per sicuro che se Garibaldi sbarca con forze sufficienti tali da ottenere alcuni successi sul continente, nessun massiccio concentramento di truppe napoletane potrà contrastargli il passo con probabilità di successo; e noi possiamo attenderci da un momento all’altro la notizia che egli sta continuando la sua marcia trionfale da Scilla a Napoli con 15mila uomini contro un numero dieci volte superiore”. (K. Marx, F. Engels, Sul Risorgimento Italiano, cit., pag. 368-371).

22. Vedi S. Lupo, L’unificazione Italiana, cit., p. 47.

23. È famosa una constatazione di Gramsci, anche se nelle sue riflessioni manca un ragionamento approfondito sul brigantaggio: “Fino all’avvento della Sinistra al potere, lo Stato italiano ha dato il suffragio solo alla classe proprietaria, è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono infamare col marchio di ‘briganti’.” (Antonio Gramsci, L’Ordine nuovo 1919-1920, Torino, 1987, pag. 422).

24. Riportato in F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’unità, Milano 1964, p. 130.

25. Il grande brigantaggio è l’espressione con cui si indica il periodo di maggiore intensità del brigantaggio post-unitario, dal 1861 al 1865.

26. È questo il caso di R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol.1, Milano 1975 e di M. R. Cutrifelli, L’Unità d’Italia, guerra contadina e nascita del sottosviluppo del Sud, Verona, 1974.

27. Se si legge “Come divenni brigante” l’autobiografia di Crocco, si percepisce quanto questi sentimenti fossero decisivi nelle sue scelte e nella sua adesione al brigantaggio.

28. È Noto il passaggio che al riguardo fornì Carlo Levi, che osservò come a distanza di 70 anni in Lucania i contadini sentivano come propria e ancora viva la lotta dei briganti. Vedi C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Torino, 1945, p.131-132).

29. È il caso, ad esempio, di Lombroso, l’antropologo positivista noto per le sue teorie razziste sulla criminalità, che fu in Calabria con l’esercito piemontese per qualche tempo, potè studiare i crani dei briganti e definirli primitivi mossi da istinti bestiali.

30. Il caso più noto, ma ce ne sono altri, è la lettera di Farini a Cavour del 27 ottobre del 60, cui dice: “che Paesi sono mai questi, il Molise e Terra di lavoro! Che barbarie! Questa è Africa: i beduini, a riscontro di questi cafoni, son fior di virtù civile”(citato da Lupo, L’unificazione italiana, cit., p. 85).

31. Questa tesi, che coglie un punto importante della situazione nel Mezzogiorno, è quella su cui pone l’accento Lupo, negli studi già citati. Il limite di fondo è la priorità alle motivazioni politica che secondo Lupo segnerebbero nel brigantaggio una tendenza interclassista. A tal riguardo la posizione più condivisibile è quella di Molfese per cui: “il rapporto fra aspetto politico e aspetto sociale del brigantaggio meridionale, eminentemente dialettico non poteva essere afferrato compiutamente se non si riconosceva o non si voleva ammettere apertamente il carattere di classe, unitamente ai limiti del carattere classista del movimento“. (F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’unità, cit., p.98).

32. Questa impostazione, oltre a considerare il brigantaggio come lotta anticoloniale, ne esalta astrattamente lo spontaneismo, ergendolo a simbolo del protagonismo dei ceti subalterni e rimanendo spesso e volentieri su di un terreno di vuote suggestioni sul rapporto speculare Nord Sud e su come si costruisce il “discorso razzista” verso il Sud. Vedi i saggi teorici presenti nel volume collettivo Orizzonti meridiani (a cura di), Briganti o emigranti. Sud e movimenti tra conricerca e studi subalterni, Verona, 2014.

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