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Bonapartismo e fascismo

Il testo che qui viene pubblicato, per la prima volta in italiano, rientra negli scritti che Trotskij dedicò, tra il 1934 e il 1936, alla Francia, paese in cui trascorse quel periodo in esilio. Lo spunto per l’articolo è offerto dalla lettura del Partito Comunista Francese e dell’Internazionale Comunista del governo Doumergue, allora in carica nel paese transalpino, come governo di stampo fascista. Tuttavia la riflessione del rivoluzionario russo non si limita alla sola situazione francese. Trotskij, infatti, inserisce l’analisi di quel governo – insediatosi in seguito al tentativo insurrezionale fascista del 6 febbraio e poco prima della risposta operaia con lo sciopero generale del 12 febbraio – nella più vasta cornice della lotta di classe in Europa. La definizione del gabinetto Doumergue offre l’occasione all’autore per chiarire le differenze tra le varie forme di bonapartismo che sono sorte negli anni precedenti nel continente, le loro basi di classe, le parole d’ordine e le tattiche che il proletariato deve adottare per vincere uno scontro dall’esito ancora aperto.

La Redazione

 

di Lev Trotskij

 

L’immensa importanza pratica di un giusto orientamento teorico si evidenzia in maniera più sorprendente durante i periodi di acuto conflitto sociale, di rapide svolte politiche, di bruschi mutamenti nella situazione. Nel corso di questi periodi, le concezioni e le generalizzazioni politiche si logorano rapidamente ed esigono di essere sia completamente sostituite, il che è facile, sia di essere concretizzate, precisate o parzialmente rettificate, il che è più difficile. È proprio nel corso di questi periodi che si manifestano necessariamente le più diverse forme di situazioni transitorie e intermedie e un insieme di combinazioni che mettono a soqquadro gli schemi abituali ed esigono doppiamente una costante attenzione teorica. In una parola, se in un’epoca di sviluppo pacifico e ordinato, quella di prima della guerra, si poteva ancora vivere sulla rendita di qualche astrazione bella e pronta, nella nostra epoca ogni nuovo avvenimento ci imprime nella mente la legge più importante della dialettica: la verità è sempre concreta.

La “teoria” stalinista del fascismo rappresenta senza alcun dubbio uno degli esempi più tragici delle terribili conseguenze pratiche che possono derivare quando si sostituisce l’analisi dialettica della realtà in tutte le sue tappe concrete, in tutte le sue fasi transitorie, cioè dei suoi mutamenti graduali sia rivoluzionari che controrivoluzionari, con delle categorie astratte, basate su un’esperienza storica parziale e insufficiente o su una visione globale ristretta e incompleta. Gli stalinisti hanno fatto loro l’idea che nell’età contemporanea il capitale finanziario non può accompagnarsi alla democrazia parlamentare ed è costretto a ricorrere al fascismo. Da questa idea, assolutamente giusta, entro certi limiti, seguendo una logica formale e puramente deduttiva hanno ricavato conclusioni identiche per ciascun paese e per tutte le tappe di sviluppo. Per loro, Primo de Rivera, Mussolini, Chiang Kai-shek, Masaryk, Bruning, Dollfuss, Pilsudski, il re serbo Alessandro, Severing, MacDonald, ecc. sono dei rappresentanti del fascismo. In questo modo essi dimenticavano: a) che, anche nel passato, il capitalismo non si è mai accompagnato alla democrazia “pura”, talvolta aggiungendovi qualcosa, altre volte sostituendola con un regime di aperta repressione; b) che il capitale finanziario “puro” non esiste da nessuna parte; c) che, anche quando occupa una posizione predominante, il capitale finanziario non agisce nel vuoto, ma è costretto a tener conto degli altri strati della borghesia e della resistenza delle classi oppresse; d) infine, che tra la democrazia parlamentare e il regime fascista, si intercalano inevitabilmente tutta una serie di forme transitorie che si rimpiazzano a vicenda, sia in maniera pacifica che tramite la guerra civile. E ciascuna di queste forme transitorie, se si vuole avanzare e non essere rigettati indietro, esige un giusto approccio teorico e una politica proletaria corrispondente.

Sulla base dell’esperienza tedesca, i bolscevico-leninisti hanno constatato per la prima volta l’esistenza di una forma transitoria di governo, anche se la si poteva e la si doveva accertare a seguito dell’esperienza italiana, che abbiamo chiamato bonapartista: i governi Brùning, Papen, Schleicher. In maniera più precisa e in una forma più sviluppata, abbiamo osservato in seguito il regime bonapartista in Austria. Il determinismo di questa forma di transizione è divenuto chiaro, ovviamente nel senso dialettico del termine e non in quello fatalista, per i paesi e i periodi in cui il fascismo, con un successo crescente, vale a dire senza incontrare la resistenza vittoriosa del proletariato, ha attaccato le posizioni della democrazia parlamentare per poi strangolare il proletariato.

Durante il periodo Bruning-Schleicher, Manuil’skij e Kuusinen proclamavano: “Il fascismo è già qui!”. Della nostra teoria della tappa intermedia bonapartista, dicevano che non era che un tentativo di abbellire e dissimulare il fascismo al fine di facilitare la politica socialdemocratica del “male minore”. Contemporaneamente, essi definivano “socialfascisti” i socialdemocratici e i socialdemocratici “di sinistra”, tipo Zyromski, Marceau Pivert e Just, passavano, dopo i “trotskisti”, come i più pericolosi tra i socialfascisti. Oggi tutto ciò è cambiato.

Per quanto riguarda la Francia attuale, gli stalinisti non hanno il coraggio di ripetere “Il fascismo è già qui!”. Al contrario, essi hanno accettato la politica del fronte unico, che ieri respingevano, al fine di impedire la vittoria del fascismo in Francia. Sono stati costretti a distinguere il regime di Doumergue dal regime fascista. Ma sono pervenuti a questa distinzione in modo empirico e non marxista. Non hanno neppure tentato di definire scientificamente il regime di Doumergue. Chi opera nel campo teorico attraverso categorie astratte è condannato a capitolare ciecamente di fronte ai fatti. Tuttavia, è proprio in Francia che il passaggio dal parlamentarismo al bonapartismo, o più esattamente la prima tappa di questo passaggio, ha assunto un carattere particolarmente evidente e illustrativo. Basti ricordare che il governo Doumergue è apparso sulla scena tra la prova generale della guerra civile, il 6 febbraio, e lo sciopero generale del proletariato, il 12 febbraio. Nel momento in cui i due campi inconciliabili hanno occupato le loro posizioni di combattimento ai due poli della società capitalistica, è apparso subito chiaro che l’apparato del parlamentarismo aveva perduto ogni importanza. È vero che il governo Doumergue, come i governi Bruning e Schleicher ai loro tempi, sembra a prima vista governare con l’accordo del parlamento. Ma si tratta di un parlamento che ha abdicato, di un parlamento che, in caso di resistenza, sa che il governo ne farebbe a meno. Basandosi sull’equilibrio relativo tra il campo della controrivoluzione che attacca e quello della rivoluzione che si difende, l’asse del potere si è elevato al di sopra delle masse e della loro rappresentanza parlamentare.  È necessario cercare il capo del governo fuori del parlamento e “fuori dai partiti”. Il capo del governo ha chiamato in suo aiuto due generali. Questa trinità si è puntellata sia a destra che a sinistra assicurandosi degli ostaggi parlamentari simmetrici. Il governo non appare come l’organo esecutivo di una maggioranza parlamentare, ma come l’arbitro tra due campi in lotta.

Tuttavia, un governo che si eleva al di sopra della nazione non è sospeso nel vuoto. Il vero asse del governo attuale passa attraverso la polizia, la burocrazia, la cricca militare. Ci troviamo di fronte ad una dittatura militar-poliziesca appena nascosta sotto la cornice del parlamentarismo. Il bonapartismo è appunto un governo della sciabola in quanto arbitro della nazione.

La sciabola, di per sé, non ha un programma indipendente. È lo strumento dell’ “ordine”. Si fa appello ad essa per conservare ciò che esiste. Elevandosi politicamente al di sopra delle classi, il bonapartismo, come il cesarismo suo predecessore, è sempre stato e resta, da un punto di vista sociale, il governo del settore più forte e più solido degli sfruttatori. Di conseguenza, il bonapartismo attuale non può essere niente altro che il governo del capitale finanziario che dirige, ispira e corrompe i vertici della burocrazia, della polizia, dell’esercito e della stampa.

La “riforma costituzionale”, di cui si è tanto parlato negli ultimi mesi, ha per suo solo compito quello di adattare le istituzioni dello Stato alle esigenze e alle convenienze del governo bonapartista. Il capitale finanziario cerca delle vie legali che gli permettano di imporre ogni volta alla nazione l’arbitro migliore con l’assenso forzato del semi parlamento. È evidente che il ministero Doumergue non è l’ideale del “governo forte”. In attesa ci sono candidati migliori al ruolo di Bonaparte. In questo campo, sono possibili nuove esperienze e nuove combinazioni se il corso ulteriore della lotta di classe lascerà loro tempo sufficiente.

Formulando questo pronostico, bisogna ripetere ciò che i bolscevico-leninisti hanno ripetuto in altre occasioni riguardo la Germania: le possibilità politiche del bonapartismo francese attuale non sono grandi; la sua stabilità è determinata dall’equilibrio temporaneo e, per sua natura, instabile tra i due campi del proletariato e del fascismo. Il rapporto di forza tra questi due campi può cambiare bruscamente, in parte sotto l’influenza della congiuntura economica ma soprattutto in funzione della qualità della politica dell’avanguardia proletaria. La collisione tra questi due campi è inevitabile. Il processo si misurerà in mesi, e non in anni. Non si potrà instaurare un regime stabile che all’indomani di questa collisione e in funzione dei suoi esiti.

Il fascismo al potere, come il bonapartismo, non può essere che il governo del capitale finanziario. In questo senso sociale essi non sono diversi, non soltanto l’uno dall’altro, ma anche in rapporto alla democrazia parlamentare. Gli stalinisti, ogni volta, fanno di nuovo questa scoperta, dimenticando che le questioni sociali si risolvono nel campo della politica. La forza del capitale finanziario non risiede nella sua capacità di stabilire, a suo piacimento, un governo, non importa di che tipo, non importa quando: non ha questa forza. La sua forza risiede nel fatto che ogni governo non proletario è obbligato a servire il capitale finanziario, o, piuttosto, nel fatto che il capitale finanziario ha la possibilità di sostituire un sistema di dominio in declino con un altro che corrisponde meglio alle nuove condizioni. Tuttavia, il passaggio da un sistema ad un altro implica una crisi politica che, con il concorso dell’attività del proletariato rivoluzionario, può trasformarsi in un pericolo sociale per la borghesia. Il passaggio dal regime della democrazia parlamentare al bonapartismo è stato già accompagnato in Francia dalle fiammate della guerra civile. La prospettiva del passaggio dal bonapartismo al fascismo è piena di turbamenti infinitamente più gravi e, di conseguenza, allo stesso tempo, di possibilità rivoluzionarie.

Fino a ieri gli stalinisti pensavano che la nostra “colpa principale” fosse quella di vedere nel fascismo la piccola borghesia, e non il capitale finanziario. Ma anche in quel caso essi sostituivano alla dialettica tra le classi delle categorie astratte. Il fascismo costituisce un mezzo specifico per mobilitare e organizzare la piccola borghesia nell’interesse sociale del capitale finanziario. Nel regime democratico, il capitale finanziario si è sforzato, e la cosa era inevitabile, di inoculare negli operai la fiducia nella piccola borghesia pacifista e riformista. Il passaggio al fascismo, al contrario, è inconcepibile senza che la piccola borghesia sia stata preliminarmente impregnata di odio contro il proletariato. Il dominio della sola e identica super classe, il capitale finanziario, si basa, in questi due sistemi, su dei rapporti direttamente opposti tra le classi oppresse.

La mobilitazione politica della piccola borghesia contro il proletariato è, tuttavia, inconcepibile senza quella demagogia sociale che, per la grande borghesia, significa giocare con il fuoco. Il pericolo che costituisce per l’ “ordine” questa reazione rabbiosa della piccola borghesia è stato confermato proprio dai recenti avvenimenti tedeschi. È proprio per questo che, mentre sostiene attivamente e finanzia i banditi reazionari attraverso una delle sue ali, la borghesia francese cerca di non spingere le cose fino alla vittoria politica del fascismo, ma piuttosto fino allo stabilirsi di un “potere forte” che, in ultima analisi, dovrà disciplinare i due campi opposti.

Ciò che si è detto finora dimostra a sufficienza l’importanza di distinguere la forma bonapartista del potere da quella fascista. Tuttavia, sarebbe imperdonabile cadere nell’eccesso opposto, facendo del bonapartismo e del fascismo due categorie logicamente incompatibili. Così come il bonapartismo inizia con una combinazione del regime parlamentare e del fascismo, allo stesso modo, il fascismo trionfante si vede costretto non soltanto a fare un’alleanza con i bonapartisti, ma ancor di più ad avvicinarsi nella sua struttura interna al sistema bonapartista. Il dominio prolungato del capitale finanziario per mezzo della demagogia sociale reazionaria e del terrore piccolo borghese è impossibile. Giunti al potere, i capi fascisti sono obbligati a frenare, per mezzo dell’apparato statale, le masse che li hanno seguiti. Essi perdono di colpo il sostegno di larghi settori della piccola borghesia. Una sua piccola parte è assorbita dall’apparato burocratico; un’altra cade nell’indifferenza; una terza, sotto varie bandiere, passa all’opposizione. Ma, nel momento in cui perde la sua base sociale di massa, il fascismo, appoggiandosi sull’apparato burocratico e oscillando tra le classi, degenera in bonapartismo. Anche qui l’evoluzione graduale è spezzata da episodi sanguinosi e violenti. A differenza del bonapartismo preventivo o prefascista (Giolitti, Bruning, Schleicher, Doumergue e altri), che riflette l’equilibrio estremamente instabile ed effimero tra i campi dei belligeranti, il bonapartismo di origine fascista (Mussolini, Hitler ecc.), che si è nutrito della distruzione, della disillusione e della demoralizzazione dei due settori delle masse, si distingue per la sua ben più grande stabilità.

La questione “fascismo o bonapartismo?” ha fatto nascere tra le fila dei nostri compagni polacchi alcune divergenze sul regime di Pilsudski. La stessa possibilità dell’esistenza di queste divergenze dimostra che non siamo in presenza di categorie logiche irriducibili, ma di formazioni sociali viventi che presentano delle peculiarità estremamente pronunciate nei diversi paesi e nelle diverse tappe.

Pilsudski è arrivato al potere al termine di un’insurrezione basata su un movimento di massa della piccola borghesia e indirizzato direttamente, in nome dello “Stato forte”, contro il dominio dei partiti borghesi tradizionali: ecco un tratto fascista caratteristico di questo movimento come di questo regime. Ma il peso politico specifico, cioè il ruolo svolto dalle masse nel fascismo polacco, era molto più debole di quello del fascismo italiano e ancora di più di quello del fascismo tedesco; Pilsudski è stato costretto a ricorrere molto di più ai metodi del complotto militare e ha affrontato in maniera molto più circospetta la questione delle organizzazioni operaie. Basta ricordare che il colpo di Stato di Pilsudski si è sviluppato con la simpatia e il sostegno del partito stalinista polacco. L’ostilità crescente della piccola borghesia ebraica e ucraina al regime di Pilsudski gli ha, a sua volta, reso più difficile lanciare un attacco generale contro la classe operaia.

Il risultato di questa situazione è che l’oscillazione tra le classi e i gruppi nazionali delle classi ha occupato e occupa ancora sotto Pilsudski un posto più importante e il terrore delle masse un posto meno importante che sotto Mussolini e Hitler nei periodi corrispondenti: è questo l’elemento bonapartista nel regime di Pilsudski. Sarebbe comunque del tutto falso paragonare Pilsudski a Giolitti o a Schleicher e aspettarsi che venga rilevato da un nuovo Mussolini o Hitler polacco. Da un punto di vista metodologico, è falso formarsi l’immagine di un fascismo “ideale” e opporlo al fascismo reale che si è sviluppato con le sue peculiarità e le sue contraddizioni sul terreno dei rapporti tra le classi e le nazionalità all’interno dello Stato polacco. Pilsudski sarà in grado di portare a termine la distruzione delle organizzazioni proletarie? La logica della situazione lo porta a questo in maniera ineluttabile, tuttavia, ciò non dipende da una definizione formale del “fascismo in quanto tale”, ma dai rapporti di forza reali, dalla dinamica dei processi politici nelle masse, dalla strategia dell’avanguardia proletaria e, infine, dal corso degli avvenimenti nell’Europa occidentale e particolarmente in Francia.

È perfettamente possibile che la storia registri il fatto che il fascismo polacco sia rovesciato e ridotto in polvere prima di essere riuscito a trovare per sé una forma “totalitaria”.

Il processo di fascistizzazione dell’Austria non presenta minore originalità. Fino allo schiacciamento di Vienna sotto i colpi di obice, il regime di Dollfuss conservava un carattere bonapartista evidente; mandatario della grande borghesia, senza appoggio tra le masse, giocava il ruolo di arbitro armato tra i campi della socialdemocrazia, del nazionalsocialismo e dell’austrofascismo di tipo provincial-contadino. Questo antagonismo triangolare, più il sostegno dell’Italia e della Francia, garantiva a Dollfuss una stabilità molto maggiore che agli equilibristi della stessa risma negli altri paesi. L’annientamento dei nazisti austriaci non fu possibile che grazie alla benevola neutralità della socialdemocrazia. L’annientamento di quest’ultima, incrementando il peso specifico della Heimwehren [milizia borghese], ha portato di fatto allo stabilirsi di un regime fascista nel quale Dollfuss incarna i resti dell’eredità bonapartista. Non bisogna dimenticare che nel fascismo tedesco, di cui nessuno negherà l’autenticità, Hindenburg e i suoi seguaci rappresentano ancora oggi le tradizioni del periodo in cui il presidente ha compiuto il suo ruolo bonapartista estirpando l’asse della Costituzione di Weimar e aprendo le porte al fascismo.

Abbiamo detto prima che il bonapartismo di origine fascista è infinitamente più stabile delle esperienze bonapartiste preventive alle quali è ricorsa la grande borghesia nella speranza di evitare il bagno di sangue del fascismo. È tuttavia ancora più importante sottolineare, dal punto di vista teorico come da quello pratico, che il fatto stesso della degenerazione del fascismo in bonapartismo significa l’inizio della sua fine. Quanto durerà il deperimento del fascismo, in quale momento la sua malattia si trasformerà in agonia, tutto ciò dipende da numerosi fattori interni ed internazionali. Ma il deperimento dell’attività controrivoluzionaria della piccola borghesia, la sua delusione e la sua disgregazione, l’indebolimento della sua pressione sul proletariato, aprono delle nuove possibilità rivoluzionarie. Tutta la storia dimostra che non è possibile mantenere in catene il proletariato con il solo mezzo dell’apparato poliziesco. È vero che l’esperienza italiana testimonia che l’eredità psicologica di una gigantesca catastrofe subita in precedenza dura nelle masse operaie molto più a lungo dei rapporti di forza politici che avevano generato questa stessa catastrofe. Ma l’inerzia psicologica creata dalla sconfitta ha una base fragile. Può svanire di colpo per effetto di una scossa potente. Una simile scossa – per l’Italia, la Germania, l’Austria e altri paesi – potrebbe essere il successo della lotta del proletariato francese.

La chiave rivoluzionaria della situazione in Europa e nel mondo intero si trova ora soprattutto in Francia!

 

15 Luglio 1934

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