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6 Dicembre 2022Autodeterminazione per la popolazione del Kosovo! Per la Federazione Socialista dei Balcani!
La seguente risoluzione è stata approvata all’unanimità, alla fine di aprile 2022, al congresso di Banja Luka della sezione jugoslava della Tendenza Marxista Internazionale da delegati marxisti che si erano radunati da tutta l’ex Jugoslavia, da Serbia, Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord, Slovenia e Croazia.
La posizione politica riguardo al Kosovo – all’interno della Serbia e non solo nell’ex Jugoslavia – è spesso basata sulla mitologia e sui pregiudizi del nazionalismo serbo. I conflitti sociali tra serbi e albanesi e le controversie politiche sullo status giuridico internazionale di questo territorio sono visti come la continuazione di secoli di conflitto etnico-religioso.
Allo stesso tempo, gli albanesi sono visti come intrusi nella “terra santa serba”. A differenza degli approcci metafisici e astorici, i marxisti cercano le radici dell’odierna “questione del Kosovo” nell’età moderna, cioè nel diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo, quando si formarono le nazioni e gli stati-nazione balcanici. La composizione etnica e le linee di demarcazione tra serbi e albanesi furono condizionate dall’espansione della coscienza nazionale e dall’indebolimento del dominio ottomano nei Balcani.
La creazione delle nazioni balcaniche
Un significativo spostamento della popolazione ebbe luogo dopo le decisioni del Congresso di Berlino (1878) e l’espansione a sud-est dei confini dello stato serbo. L’omogeneizzazione etnica del nuovo stato nazionale andò di pari passo con la migrazione forzata di albanesi e altri musulmani dalle città e dai villaggi dei distretti di Niš, Pirot, Toplica e Vranje verso il Kosovo e la Macedonia. D’altra parte, durante il diciannovesimo secolo, la popolazione serba emigrò dal Kosovo a nord-ovest a causa della crisi dell’impero ottomano, del sottosviluppo economico e della speranza di una vita migliore nei territori in cui i serbi godevano di un certo grado di autonomia.
Parallelamente all’espansione territoriale di Serbia, Montenegro e Bulgaria, la popolazione albanese nella provincia del Kosovo, che viveva ancora sotto l’Impero Ottomano, stava sviluppando la propria coscienza nazionale. Le guerre tra la Serbia e le truppe ottomane (che includevano gli albanesi), la diffusione del nazionalismo albanese e il desiderio di creare uno stato albanese indipendente – così come il risentimento dei rifugiati musulmani per le espulsioni dalla Serbia – crearono sentimenti anti-serbi tra la popolazione albanese.
Come eco della guerra greco-turca, nel 1901, ci fu un’ondata di violenza in Kosovo da parte di albanesi armati contro i serbi del Kosovo. D’altra parte, i contadini albanesi nelle regioni di confine del Kosovo erano spesso esposti alle incursioni di bande armate serbe che commettevano crimini contro la popolazione musulmana.
La modernizzazione politica ed economica, e la creazione di stati nazionali sovrani modellati su modelli europei, stavano quindi cancellando lentamente ma inesorabilmente le precedenti forme di gerarchia e convivenza tra diversi popoli e religioni nei Balcani ereditate dall’era ottomana. Questi processi di trasformazione più rapida verso le moderne società capitaliste, così come l’idea di stati etnicamente omogenei come comunità politiche “naturali”, hanno dato vita a quella che oggi vediamo come la proverbiale rivalità e la “lotta per lo spazio vitale” tra serbi e albanesi in Kosovo.
Le guerre balcaniche
Il Kosovo passò sotto il controllo della Serbia e del Montenegro dopo le guerre balcaniche (1912-1913). Lo stato serbo si era impadronito del territorio dove, dopo i conflitti etnici già descritti e il trasferimento della popolazione, c’era una maggioranza albanese nella popolazione, scettica sulle motivazioni del nuovo governo. Secondo il censimento ottomano del 1912, circa il 21% della popolazione dei distretti di Peja, Prizren e Pristina era composta da serbi. Il censimento del 1921 condotto dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni mostra numeri simili. Quell’anno, le persone la cui lingua madre era il serbo-croato costituivano il 26% della popolazione nei distretti di Kosovo, Metohija, Zvečan e Prizren.
Il comportamento dell’esercito serbo nei confronti della maggioranza della popolazione nelle aree appena annesse non fece nulla per ridurre le tensioni etniche. Al contrario, avanzando attraverso i villaggi albanesi, l’esercito serbo conduceva una campagna di pulizia etnica, il cui obiettivo era quello di omogeneizzare la composizione nazionale del territorio prima delle conferenze delle grandi potenze (conferenze per determinare nuovi confini nelle aree da cui l’esercito turco si ritirava).
Nel settembre 1913 scoppiò una rivolta albanese contro le nuove autorità, che fu soppressa spietatamente dall’esercito serbo. I marxisti che erano presenti sul campo all’epoca si distinguono per aver descritto e condannato i crimini dell’esercito serbo contro i civili albanesi senza alcun secondo fine. Nell’articolo “La vendetta di sangue dei soldati” e più tardi nel libro “Serbia e Albania”, il socialista serbo Dimitrije Tucović non esitò a dire la verità nel mezzo dell’euforia nazionalista che si diffuse nel parlamento serbo dopo la nuova espansione dei confini statali:
“Quando scoppiò la rivolta, il governo, attraverso il rappresentante del Ministro degli Affari Esteri, dichiarò che Arbanasi sarebbe stato ‘punito in modo appropriato’, la stampa borghese chiese lo sterminio spietato, e l’esercito lo portò a termine. I villaggi di Arbanasi, da cui gli uomini fuggirono in tempo, furono ridotti in cenere. Allo stesso tempo, questi erano crematori barbari in cui centinaia di donne e bambini venivano bruciati vivi. Inoltre, mentre gli insorti disarmavano e rilasciavano gli ufficiali e i soldati serbi catturati, i soldati serbi non risparmiavano i loro figli, le donne e i malati.”
Senza lasciarsi impantanare nei giochi tra grandi potenze sui Balcani e nelle speculazioni su chi avrebbe potuto usare le notizie della brutalità dell’esercito serbo per i propri interessi, il rivoluzionario russo Lev Trotskij scrisse ciò che vedeva in qualità di corrispodnente di guerra per il giornale ucraino “Kijevskaja Mysl”. Assumendo una posizione di classe indipendente, Trotskij scrisse delle uccisioni di massa di albanesi durante e subito dopo le guerre balcaniche, commesse dall’esercito regolare serbo, ma principalmente dai gruppi paramilitari. Trotskij nota che queste formazioni paramilitari erano composte da un piccolo numero di intellettuali appassionati di idee nazionaliste e da un gran numero di elementi criminali la cui motivazione era il saccheggio.
Mentre scrivevano le loro osservazioni sul terreno, Dimitrije Tucović e Leon Trotskij erano consapevoli che le guerre balcaniche si stavano rapidamente trasformando da lotte per la liberazione nazionale dal dominio turco in mini-guerre mimperialiste. Sebbene ancora giovani, Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria – stati balcanici che spinsero l’esercito turco tra il 1912 e il 1913 – erano già dominati da monarchie reazionarie e burocrazie statali consolidate senza alcun interesse a migliorare la posizione della popolazione generale.
Il modo in cui la borghesia serba organizzò il proprio dominio in Kosovo lo spiega bene. Belgrado non portò nuove libertà politiche, progresso economico e sicurezza al popolo del Kosovo. Dopo che ebbero preso il potere sul campo, regnava la corruzione. I profittatori di guerra delle formazioni paramilitari entrarono negli organi dell’amministrazione statale locale e discriminarono sistematicamente la popolazione non serba. Gli albanesi non avevano la possibilità di andare a scuola nella propria lingua. Lo stato serbo ha condotto campagne per convertire i cattolici albanesi alla religione ortodossa. La terra confiscata agli agas e ai bey (i proprietari terrieri musulmani ottomani) non fu ridistribuita ai contadini poveri albanesi, ma fu invece consegnata ai coloni cristiani di Serbia e Montenegro.
Tra il 1918 e il 1924, una rivolta armata portata avanti dagli albanesi sotto forma di movimento di guerriglia (la ribellione kachak) si diffuse di nuovo attraverso il Kosovo. Uno dei leader di spicco dei kachak fu Bajram Curri, un combattente per la liberazione del popolo albanese da molto tempo. Entusiasta della rivoluzione russa e dell’approccio di Lenin alla questione nazionale, Curri iniziò una corrispondenza con lui. Nel 1918, sotto la guida di Bajram Curri, fu istituito il Comitato per la Difesa Nazionale del Kosovo, e Curri in seguito entrò in contatto con la Terza Internazionale.
Contro questa ribellione, lo stato serbo usò i metodi più crudeli con l’approvazione e il sostegno della stampa borghese. Le case dei Kachak furono bruciate, le loro proprietà confiscate e le famiglie Kachak internate nei campi. Tenendo presente tutto questo, non ci dovrebbe sorprendere che la maggior parte degli albanesi non abbia visto lo stato serbo come un liberatore dopo la prima guerra mondiale, ma come un occupante. Gli albanesi furono formalmente coinvolti nella vita politica del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni attraverso il partito conservatore Džemijet. Tuttavia, questa organizzazione rappresentava un’élite musulmana di proprietari terrieri che opportunisticamente sosteneva i partiti di governo serbi in parlamento in cambio di concessioni minori. L’unica organizzazione politica all’interno della Serbia e della Jugoslavia che espresse chiaramente e senza riserve solidarietà con la lotta del popolo albanese per i suoi diritti nazionali, culturali ed economici negli anni tra le due guerre fu il Partito Comunista di Jugoslavia (KPJ).
All’inizio del XX secolo il dominio caotico dell’Impero Ottomano nella sua fase di decadenza fu quindi sostituito dall’amministrazione militare dello stato serbo in Kosovo. L’atteggiamento della Serbia nei confronti del popolo albanese nel periodo tra le due guerre può essere descritto solo come coloniale e razzista. Gli albanesi furono dichiarati incapaci di una vita culturale indipendente e di formare il proprio stato nazionale. Il territorio post-ottomano abitato dalla maggioranza della popolazione albanese fu così sequestrato in nome dei “diritti storici” e della mitologia sciovinista di restaurare i territori dell’impero serbo medievale. Questa politica reazionaria della borghesia serba provocò decenni di sfiducia e spesso di aperta ostilità tra albanesi e serbi.
La fratellanza d’armi partigiana
Il precedente che doveva dimostrare che l’oppressione nazionale e la sfiducia tra il popolo del Kosovo non devono necessariamente perpetuarsi di generazione in generazione, avvenne nel momento più inaspettato. Ci riferiamo all’unità armata di serbi e albanesi all’interno del movimento partigiano durante la seconda guerra mondiale.
Durante i primi mesi dell’occupazione le prospettive di un’azione politica congiunta trasversale alle divisioni etniche in Kosovo erano molto scarse. I fascisti italiani usarono abilmente le divisioni prebelliche per consolidare il loro potere. Introdussero l’istruzione in lingua albanese, permisero i simboli nazionali albanesi e si presentarono come liberatori delle masse albanesi dalla dominazione serba. Tra gli strati politicamente arretrati degli albanesi, l’occupante stava reclutando varie milizie fasciste e formazioni di collaborazionisti per dare inizio al terrore contro la popolazione serba, in particolare le famiglie di coloni più poveri che venivano sfrattate o liquidate. D’altra parte, bande di cetnici stavano facendo incursioni dal Kosovo al Sangiaccato (regione situata tra Serbia, Montenegro, Kosovo e Bosnia Erzegovina – ndt) per vendicarsi dei civili albanesi e musulmani nei villaggi di confine.
Questo scenario non fu esclusivo del Kosovo. Una situazione simile esisteva in Dalmazia, parti della Bosnia e molte altre aree dei Balcani durante la seconda guerra mondiale. In queste regioni sottosviluppate e multietniche ci fu il terrore sistematico degli occupanti fascisti contro la popolazione serba e altri popoli, così come le orge di sangue delle milizie nazionaliste dall’altra parte. Queste bande reazionarie crebbero sotto gli auspici degli eserciti stranieri occupanti, massacrando le popolazioni locali che sostenevano la resistenza partigiana. Le motivazioni dietro i loro crimini erano la vendetta, la volontà di creare territori etnicamente omogenei o il saccheggio.
La principale differenza tra il Kosovo e le altre aree etnicamente miste della Jugoslavia era la debolezza oggettiva del movimento partigiano nel caso del Kosovo. I partigiani furono l’unica forza politica che combatté costantemente contro gli occupanti e organizzò la popolazione superando le divisioni etniche. La crescita della loro influenza in un certo territorio era quindi l’unica garanzia che non ci sarebbe stato spargimento di sangue su base nazionale. In Kosovo, tuttavia, il KPJ aveva solo 270 membri quando scoppiò la guerra. Solo venti di loro erano di etnia albanese. La mancanza di una classe operaia industriale e la sfiducia degli albanesi nei confronti di un’organizzazione politica percepita come “slava” erano i principali ostacoli per i comunisti della regione.
La situazione sul terreno stava gradualmente cambiando con il progredire della guerra. Nel settembre 1942 fu formata la prima unità partigiana albanese. Un grande impulso al miglioramento della reputazione del movimento partigiano tra la popolazione albanese del Kosovo fu la crescente influenza dei gruppi marxisti e delle azioni di guerriglia in Albania. La determinazione evidente dei delegati albanesi e serbi del Comitato di liberazione popolare per il Kosovo e il Dukagjin nel sostenere il diritto della popolazione del Kosovo all’autodeterminazione (la Conferenza di Bujan) – così come l’assistenza disinteressata fornita dai partigiani jugoslavi ai compagni albanesi durante gli anni della guerra –contribuì a indebolire i pregiudizi che gli albanesi in Kosovo avevano nei confronti dei comunisti serbi.
Importanti comunisti del Kosovo come Miladin Popović, Dušan Mugoša, Ramiz Sadiku e Borko “Boro” Vukmirović svolsero un ruolo chiave nel collegare i movimenti rivoluzionari in Jugoslavia e Albania. Sostennero una linea internazionalista in Kosovo facendo campagne per l’inclusione degli albanesi nella riforma agraria, il libero uso della lingua albanese nell’amministrazione locale e nel sistema scolastico, nonché il diritto degli albanesi di coltivare il proprio patrimonio culturale.
Tuttavia non tutti i membri del KPJ avevano un approccio internazionalista nei confronti della questione nazionale albanese. Attivisti come Sadiku, Mugoša e Popović erano quadri di partito esperti che avevano costruito l’unità di classe durante anni di lavoro politico illegale contro il regime monarchico serbo e il fascismo, a stretto contatto con i compagni combattenti in Albania. Tuttavia, molte nuove reclute serbe nei distaccamenti partigiani dal Kosovo, dal Montenegro e dalla Serbia meridionale non avevano lo stesso livello politico, e le loro opinioni erano inevitabilmente influenzate dal terrore dei collaborazionisti albanesi sperimentato dalle loro famiglie durante la guerra. Erano più inclini a vedere gli albanesi come collaborazionisti degli occupanti.
Dobbiamo inoltre tenere conto delle idee scioviniste ereditate dal passato che continuarono a circolare all’interno delle istituzioni statali dopo la guerra. Tra queste c’era l’idea dell’espulsione della popolazione albanese dal Kosovo, che era ancora sostenuta dal funzionario Vasa Čubrilović. C’erano quindi opinioni opposte su come risolvere la questione nazionale in Kosovo che circolavano all’interno del Movimento di Liberazione Popolare e delle autorità del dopoguerra. A causa della mancanza, nelle file del KPJ stalinizzato, di una cultura democratica di discussione aperta sulla linea politica e le prospettive, le nuove autorità agirono in modo empirico e reagendo alle circostanze. Invece di anticipare e fare avanzare il processo, i comunisti jugoslavi permisero che fosse lo sviluppo spontaneo degli eventi sul campo a determinare quale approccio avrebbe prevalso.
Anche se le idee comuniste stavano trovando la loro strada verso strati più ampi degli albanesi, la maggior parte mantenevano ancora riderve o erano influenzati da correnti politiche nazionaliste ed ex collaborazionisti – specialmente nella regione collinare di Drenica nel Kosovo centrale, dove le relazioni familiari patriarcali dettavano la vita sociale e politica. La strategia dei comunisti jugoslavi negli ultimi mesi della guerra in Kosovo fu quella di mobilitare in massa i giovani albanesi in unità dell’esercito partigiano e integrarli nel movimento rivoluzionario attraverso la lotta contro il fascismo in altre parti del paese. Nella seconda fase, la rapida industrializzazione nello stesso Kosovo avrebbe dovuto creare una nuova classe operaia e rompere i rapporti patriarcali di dipendenza.
Rendendosi conto che i loro giorni erano contati, i leader delle formazioni nazionaliste iniziarono una rivolta armata contro le nuove autorità alla fine del 1944. L’esatto equilibrio di potere e la divisione globale delle sfere di influenza tra l’Unione Sovietica e i suoi alleati occidentali non erano ancora noti in quei mesi. La speranza delle organizzazioni nazionaliste albanesi era di attirare l’attenzione delle forze alleate occidentali e alla fine unirsi all’intervento armato degli stati capitalisti contro il comunismo nei Balcani.
La rivolta, che aveva la sua roccaforte nella regione di Drenica, diede inevitabilmente il primato alle ali più reazionarie all’interno della sezione serba del Partito Comunista. Durante la prima metà del 1945, fu istituita un’amministrazione militare in Kosovo e 30.000 soldati dell’esercito popolare jugoslavo furono impegnati con il compito di sedare la rivolta nei villaggi di Drenica. Dopo che l’insurrezione era stata messa sotto controllo attraverso un intervento brutale, lo status formale del Kosovo all’interno della nuova Jugoslavia fu risolto nel luglio di quell’anno senza molte discussioni politiche. Il Comitato di liberazione popolare del Kosovo e Metohija, con 142 membri (di cui solo 33 albanesi), votò la l’inclusione del Kosovo nella Repubblica di Serbia come regione autonoma.
Non c’è dubbio che mesi di governo militare e l’esclusione delle masse albanesi dal processo di decisione sul futuro del Kosovo diedero credito alle affermazioni dei politici nazionalisti albanesi secondo cui il regime comunista non era fondamentalmente diverso dal regime prebellico e che gli albanesi potevano ottenere pieni diritti nazionali solo in uno stato borghese indipendente o attraverso l’unificazione con l’Albania. Questo, tuttavia, era lontano dalla verità. Il nuovo stato operaio, che emerse dalla rivoluzione e dall’attivazione delle masse, aveva poco in comune con la Jugoslavia monarchica, nonostante tutte le carenze e gli errori della direzione stalinista del PKJ.
Le rivoluzioni socialiste in Bulgaria, Jugoslavia e Albania, così come il rafforzamento delle forze comuniste in Grecia, aprivano la prospettiva di un radicale rimodellamento della regione e di una soluzione alla questione nazionale albanese. I leader dei movimenti partigiani in Jugoslavia e in Albania considerarono la creazione di una più ampia federazione socialista che trascendesse i quadri nazionali borghesi. Un dispaccio inviato dal Quartier generale supremo dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo all’Esercito di liberazione popolare albanese alla fine di gennaio 1944 diceva, tra le altre cose:
“A nostro avviso, i compagni in Albania dovrebbero lavorare per collegare la loro lotta con la nostra il più strettamente possibile. Le decisioni dell’AVNOJ e dell’organizzazione federale della Jugoslavia dovrebbero essere rese note, così come la possibilità che altre nazioni balcaniche aderiscano a questa federazione, creando un forte e grande stato balcanico di popoli eguali che sarebbe un fattore forte in Europa e fornirebbe grandi opportunità per lo sviluppo a tutto tondo di ogni nazione.”
Le politiche concrete attuate in entrambi i paesi subito dopo la liberazione mostrano che queste non erano frasi vuote. Belgrado e Tirana firmarono una serie di contratti e accordi che aprivano la strada alla più stretta cooperazione militare, economica e culturale. Tra questi: il Trattato di amicizia e di mutua assistenza (che garantiva la cooperazione militare, 9 luglio 1946), l’accordo sull’armonizzazione dei piani economici, l’unione doganale e la perequazione della moneta tra la Repubblica Popolare Federale di Jugoslavia e la Repubblica Popolare d’Albania (27 novembre 1946) e la Convenzione sulla cooperazione culturale (9 giugno 1947). La Jugoslavia inviò consiglieri militari ed economici in Albania e godette di una tale reputazione che il serbo-croato fu introdotto come materia obbligatoria nelle scuole albanesi.
Diventa quindi chiaro che lo status formale del Kosovo nei primi anni dopo la liberazione dal fascismo era una questione tattica agli occhi della leadership del KPJ, che speravano avrebbe perso rilevanza una volta che la rivoluzione si fosse stabilizzata e una più ampia alleanza balcanica avesse reso superfluo il confine jugoslavo-albanese. Secondo Milentije Popović, rivolgendosi al Comitato di Liberazione Popolare a Prizren nel luglio 1945: “La questione di quale status avranno oggi il Kosovo e Metohija, in questa fase del movimento popolare, è una questione amministrativa, non politica”.
“Hej, slaveni”: Socialismo in un solo paese
La divisione tra Mosca e Belgrado nel 1948 e il fatto che ogni stato balcanico si incamminasse verso una “via nazionale al socialismo” individuale e in opposizione agli altri, ebbe conseguenze fatali per gli albanesi in Jugoslavia. La stalinizzazione del movimento operaio balcanico – che si manifestava nell’obbedienza alle dannose manovre politiche di Mosca e alle crescenti contraddizioni sociali nel modello stalinista di costruzione del “socialismo in uno paese solo” – ebbe conseguenze per tutti gli altri aspetti dell’emancipazione, incluso il superamento dell’oppressione nazionale.
Nel caso della Jugoslavia, passare alla costruzione di una federazione di slavi meridionali significava anche diluire gradualmente le idee dell’internazionalismo operaio. L’unità della classe operaia jugoslava veniva fondata in modo crescente sull’idea dell’interesse comune degli slavi nello stato, e sempre meno sull’idea dell’interesse comune dei lavoratori. Nonostante il loro numero, che era maggiore di alcune delle nazioni costituenti del nuovo stato, gli albanesi ricevettero lo status di “nazionalità” (narodnost), cioè di una minoranza nazionale.
Invece di fungere da ponte tra le due entità in una più ampia alleanza balcanica, agli occhi dei comunisti jugoslavi il Kosovo stava diventando un “vicolo cieco” e un potenziale rischio per la sicurezza. Era visto come un luogo in cui Mosca e Tirana potevano minare la sovranità della Jugoslavia influenzando la minoranza albanese. Le forze arretrate che alimentavano i pregiudizi contro gli albanesi riacquistarono così il loro primato nel partito, e gli albanesi furono di conseguenza spinti ai margini della vita politica e sociale in Jugoslavia.
Il Kosovo stava diventando un’area trascurata in cui la polizia e il servizio di sicurezza dello Stato avevano il sopravvento, e gli albanesi erano considerati “cittadini sospetti”. Si stima che fino al licenziamento di Aleksandar Ranković (il capo della polizia segreta) nel 1966, il servizio di sicurezza dello stato e la polizia abbiano schedato circa 120.000 cittadini kosovari di nazionalità albanese. Gli albanesi furono emarginati all’interno delle organizzazioni socio-politiche. A metà degli anni 1950, serbi e montenegrini in Kosovo costituivano il 50% dei membri del partito, il 68% delle posizioni amministrative di primo piano nelle istituzioni statali e fino all’87% del personale di sicurezza; tutto questo nonostante costituissero solo il 27 per cento della popolazione totale.
In termini economici, il Kosovo fu trascurato negli anni ’50. Fu solo dopo il 1957 che il Kosovo iniziò a ricevere fondi per le sue regioni sottosviluppate dal bilancio federale. Gli investimenti pro capite in Kosovo hanno raggiunto il 43,5% della media jugoslava durante questo decennio. Nel 1958, c’erano solo 49 aziende industriali in Kosovo, che impiegavano 16.000 lavoratori. In confronto, in Slovenia quell’anno operavano 465 aziende. In Kosovo si trattava principalmente di impianti ad alta intensità di capitale nelle industrie estrattive che non impiegavano molte persone e i cui prezzi dipendevano dai produttori finali nelle parti più sviluppate del paese.
Nonostante la crescita economica in numeri assoluti, il divario tra il Kosovo e le parti più sviluppate della Jugoslavia si è ampliato nel corso degli anni. Nel 1946, il reddito medio in Kosovo era tre volte inferiore a quello della Slovenia, mentre nel 1964 la differenza era cresciuta a 5 volte – una cifra devastante per un paese che si definiva socialista. Bloccati nel sottosviluppo e sotto la pressione della tortura della polizia, gli albanesi lasciavano la Jugoslavia in massa ed emigravano in Turchia, cosa che lo stato jugoslavo incoraggiò firmando un accordo speciale sull’accoglienza dei migranti con Ankara.
Tuttavia, la storia degli albanesi all’interno dello Stato operaio jugoslavo non si limita esclusivamente alla repressione e alla posizione della vittima. In primo luogo, gli albanesi erano attori in grado di plasmare le correnti politiche – sia come parte dello stato e del partito, sia esercitando pressioni dalle piazze sotto forma di un’organizzazione indipendente dal basso verso l’alto. In secondo luogo, nonostante la mancanza di democrazia e le deformazioni nello sviluppo inerenti al concetto di “socialismo in uno paese”, la Jugoslavia del dopoguerra era una creazione rivoluzionaria assai capace di generare progresso e fornire spazio per l’emancipazione a settori emarginati della società.
Come abbiamo già accennato, c’erano diversi approcci alla questione nazionale albanese tra i comunisti jugoslavi, e all’inizio degli anni 1960 le correnti più progressiste stavano guadagnando di nuovo terreno. Le condizioni per cambiare la politica ufficiale nei confronti del Kosovo furono create dal miglioramento delle relazioni tra Belgrado e Mosca, ma anche dalla scissione della burocrazia del partito albanese a Tirana, che la allontanò dai suoi ex alleati in Unione Sovietica. Oltre a questi cambiamenti geopolitici, l’influenza principale la ebbero i funzionari albanesi all’interno della Lega dei Comunisti di Jugoslavia (SKJ), anche se un ulteriore fattore furono le manifestazioni di piazza tenute dagli albanesi nel 1968, che attirarono l’attenzione pubblica sulle catastrofiche condizioni di vita nella provincia.
Gli anni ’60 e ’70 ci danno un’idea della politica progressista nei confronti delle minoranze nazionali che uno stato operaio può coltivare sulle fondamenta di un’economia pianificata. Nel 1968 il Kosovo ricevette lo status di provincia autonoma con una propria costituzione, mentre nel 1974 il suo status costituzionale e la rappresentanza politica all’interno della federazione furono elevati quasi al livello di una repubblica. Il governo locale iniziava a prestare particolare attenzione all’uso della lingua albanese nel sistema scolastico, nelle istituzioni culturali e statali, mentre nelle organizzazioni socio-politiche e nel settore pubblico fu introdotto il bilinguismo rigoroso. Ciò significava che si aprivano le porte per una maggiore attivazione degli albanesi all’interno delle strutture ufficiali. Alla fine degli anni 1970, gli albanesi costituivano già i due terzi dei membri del partito, mentre la quota di albanesi nell’amministrazione e nelle aziende stava crescendo in modo significativo. In termini economici, questi due decenni saranno anche ricordati come anni di rapidi progressi dovuti a progetti infrastrutturali, creazione di posti di lavoro e aumento del tenore di vita.
Nel 1965 fu istituito il Fondo per lo sviluppo accelerato delle Repubbliche sottosviluppate e del Kosovo. Ci sono molte interpretazioni errate di questo meccanismo di ridistribuzione federale. Per i liberali economici, rappresenta un trasferimento irrazionale di valore in investimenti “non redditizi”. I nazionalisti serbi spesso indicano questo fondo come la prova definitiva della presunta pigrizia e persino dell’ingratitudine degli albanesi del Kosovo. La verità è, tuttavia, che questo meccanismo è stato una compensazione per l’abbandono dello sviluppo equilibrato del paese attraverso un piano di investimenti centrale a livello dell’intera federazione. Questo fondo fu un tentativo di compensare un modello di crescita motivato dal mercato in cui i principali poli dello sviluppo economico erano le aziende e le regioni che avevano già un vantaggio. Tuttavia, questo modello di “compensazione” minima portò grandi benefici allo sviluppo della provincia rispetto alla precedente negligenza, nonostante gli sprechi burocratici e la corruzione.
Nonostante la crescita economica accelerata degli anni ’60 e ’70, i problemi sociali ed economici persistevano anche durante questi anni. Gli investimenti non riuscirono a diversificare la struttura economica della provincia. Le compagnie energetiche, minerarie e di lavorazione dei metalli rimanevano dipendenti dai produttori finali nelle regioni più sviluppate della Jugoslavia che dettavano i prezzi sul “mercato socialista”. La disoccupazione è rimasta la più alta del paese. Su una popolazione di 1,5 milioni, solo 178 mila abitanti avevano un impiego nel setto
La seguente risoluzione è stata approvata all’unanimità, alla fine di aprile 2022, al congresso di Banja Luka della sezione jugoslava della Tendenza Marxista Internazionale da delegati marxisti che si erano radunati da tutta l’ex Jugoslavia, da Serbia, Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord, Slovenia e Croazia.
La posizione politica riguardo al Kosovo – all’interno della Serbia e non solo nell’ex Jugoslavia – è spesso basata sulla mitologia e sui pregiudizi del nazionalismo serbo. I conflitti sociali tra serbi e albanesi e le controversie politiche sullo status giuridico internazionale di questo territorio sono visti come la continuazione di secoli di conflitto etnico-religioso.
Allo stesso tempo, gli albanesi sono visti come intrusi nella “terra santa serba”. A differenza degli approcci metafisici e astorici, i marxisti cercano le radici dell’odierna “questione del Kosovo” nell’età moderna, cioè nel diciannovesimo e all’inizio del ventesimo secolo, quando si formarono le nazioni e gli stati-nazione balcanici. La composizione etnica e le linee di demarcazione tra serbi e albanesi furono condizionate dall’espansione della coscienza nazionale e dall’indebolimento del dominio ottomano nei Balcani.
La creazione delle nazioni balcaniche
Un significativo spostamento della popolazione ebbe luogo dopo le decisioni del Congresso di Berlino (1878) e l’espansione a sud-est dei confini dello stato serbo. L’omogeneizzazione etnica del nuovo stato nazionale andò di pari passo con la migrazione forzata di albanesi e altri musulmani dalle città e dai villaggi dei distretti di Niš, Pirot, Toplica e Vranje verso il Kosovo e la Macedonia. D’altra parte, durante il diciannovesimo secolo, la popolazione serba emigrò dal Kosovo a nord-ovest a causa della crisi dell’impero ottomano, del sottosviluppo economico e della speranza di una vita migliore nei territori in cui i serbi godevano di un certo grado di autonomia.
Parallelamente all’espansione territoriale di Serbia, Montenegro e Bulgaria, la popolazione albanese nella provincia del Kosovo, che viveva ancora sotto l’Impero Ottomano, stava sviluppando la propria coscienza nazionale. Le guerre tra la Serbia e le truppe ottomane (che includevano gli albanesi), la diffusione del nazionalismo albanese e il desiderio di creare uno stato albanese indipendente – così come il risentimento dei rifugiati musulmani per le espulsioni dalla Serbia – crearono sentimenti anti-serbi tra la popolazione albanese.
Come eco della guerra greco-turca, nel 1901, ci fu un’ondata di violenza in Kosovo da parte di albanesi armati contro i serbi del Kosovo. D’altra parte, i contadini albanesi nelle regioni di confine del Kosovo erano spesso esposti alle incursioni di bande armate serbe che commettevano crimini contro la popolazione musulmana.
La modernizzazione politica ed economica, e la creazione di stati nazionali sovrani modellati su modelli europei, stavano quindi cancellando lentamente ma inesorabilmente le precedenti forme di gerarchia e convivenza tra diversi popoli e religioni nei Balcani ereditate dall’era ottomana. Questi processi di trasformazione più rapida verso le moderne società capitaliste, così come l’idea di stati etnicamente omogenei come comunità politiche “naturali”, hanno dato vita a quella che oggi vediamo come la proverbiale rivalità e la “lotta per lo spazio vitale” tra serbi e albanesi in Kosovo.
Le guerre balcaniche
Il Kosovo passò sotto il controllo della Serbia e del Montenegro dopo le guerre balcaniche (1912-1913). Lo stato serbo si era impadronito del territorio dove, dopo i conflitti etnici già descritti e il trasferimento della popolazione, c’era una maggioranza albanese nella popolazione, scettica sulle motivazioni del nuovo governo. Secondo il censimento ottomano del 1912, circa il 21% della popolazione dei distretti di Peja, Prizren e Pristina era composta da serbi. Il censimento del 1921 condotto dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni mostra numeri simili. Quell’anno, le persone la cui lingua madre era il serbo-croato costituivano il 26% della popolazione nei distretti di Kosovo, Metohija, Zvečan e Prizren.
Il comportamento dell’esercito serbo nei confronti della maggioranza della popolazione nelle aree appena annesse non fece nulla per ridurre le tensioni etniche. Al contrario, avanzando attraverso i villaggi albanesi, l’esercito serbo conduceva una campagna di pulizia etnica, il cui obiettivo era quello di omogeneizzare la composizione nazionale del territorio prima delle conferenze delle grandi potenze (conferenze per determinare nuovi confini nelle aree da cui l’esercito turco si ritirava).
Nel settembre 1913 scoppiò una rivolta albanese contro le nuove autorità, che fu soppressa spietatamente dall’esercito serbo. I marxisti che erano presenti sul campo all’epoca si distinguono per aver descritto e condannato i crimini dell’esercito serbo contro i civili albanesi senza alcun secondo fine. Nell’articolo “La vendetta di sangue dei soldati” e più tardi nel libro “Serbia e Albania”, il socialista serbo Dimitrije Tucović non esitò a dire la verità nel mezzo dell’euforia nazionalista che si diffuse nel parlamento serbo dopo la nuova espansione dei confini statali:
“Quando scoppiò la rivolta, il governo, attraverso il rappresentante del Ministro degli Affari Esteri, dichiarò che Arbanasi sarebbe stato ‘punito in modo appropriato’, la stampa borghese chiese lo sterminio spietato, e l’esercito lo portò a termine. I villaggi di Arbanasi, da cui gli uomini fuggirono in tempo, furono ridotti in cenere. Allo stesso tempo, questi erano crematori barbari in cui centinaia di donne e bambini venivano bruciati vivi. Inoltre, mentre gli insorti disarmavano e rilasciavano gli ufficiali e i soldati serbi catturati, i soldati serbi non risparmiavano i loro figli, le donne e i malati.”
Senza lasciarsi impantanare nei giochi tra grandi potenze sui Balcani e nelle speculazioni su chi avrebbe potuto usare le notizie della brutalità dell’esercito serbo per i propri interessi, il rivoluzionario russo Lev Trotskij scrisse ciò che vedeva in qualità di corrispodnente di guerra per il giornale ucraino “Kijevskaja Mysl”. Assumendo una posizione di classe indipendente, Trotskij scrisse delle uccisioni di massa di albanesi durante e subito dopo le guerre balcaniche, commesse dall’esercito regolare serbo, ma principalmente dai gruppi paramilitari. Trotskij nota che queste formazioni paramilitari erano composte da un piccolo numero di intellettuali appassionati di idee nazionaliste e da un gran numero di elementi criminali la cui motivazione era il saccheggio.
Mentre scrivevano le loro osservazioni sul terreno, Dimitrije Tucović e Leon Trotskij erano consapevoli che le guerre balcaniche si stavano rapidamente trasformando da lotte per la liberazione nazionale dal dominio turco in mini-guerre mimperialiste. Sebbene ancora giovani, Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria – stati balcanici che spinsero l’esercito turco tra il 1912 e il 1913 – erano già dominati da monarchie reazionarie e burocrazie statali consolidate senza alcun interesse a migliorare la posizione della popolazione generale.
Il modo in cui la borghesia serba organizzò il proprio dominio in Kosovo lo spiega bene. Belgrado non portò nuove libertà politiche, progresso economico e sicurezza al popolo del Kosovo. Dopo che ebbero preso il potere sul campo, regnava la corruzione. I profittatori di guerra delle formazioni paramilitari entrarono negli organi dell’amministrazione statale locale e discriminarono sistematicamente la popolazione non serba. Gli albanesi non avevano la possibilità di andare a scuola nella propria lingua. Lo stato serbo ha condotto campagne per convertire i cattolici albanesi alla religione ortodossa. La terra confiscata agli agas e ai bey (i proprietari terrieri musulmani ottomani) non fu ridistribuita ai contadini poveri albanesi, ma fu invece consegnata ai coloni cristiani di Serbia e Montenegro.
Tra il 1918 e il 1924, una rivolta armata portata avanti dagli albanesi sotto forma di movimento di guerriglia (la ribellione kachak) si diffuse di nuovo attraverso il Kosovo. Uno dei leader di spicco dei kachak fu Bajram Curri, un combattente per la liberazione del popolo albanese da molto tempo. Entusiasta della rivoluzione russa e dell’approccio di Lenin alla questione nazionale, Curri iniziò una corrispondenza con lui. Nel 1918, sotto la guida di Bajram Curri, fu istituito il Comitato per la Difesa Nazionale del Kosovo, e Curri in seguito entrò in contatto con la Terza Internazionale.
Contro questa ribellione, lo stato serbo usò i metodi più crudeli con l’approvazione e il sostegno della stampa borghese. Le case dei Kachak furono bruciate, le loro proprietà confiscate e le famiglie Kachak internate nei campi. Tenendo presente tutto questo, non ci dovrebbe sorprendere che la maggior parte degli albanesi non abbia visto lo stato serbo come un liberatore dopo la prima guerra mondiale, ma come un occupante. Gli albanesi furono formalmente coinvolti nella vita politica del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni attraverso il partito conservatore Džemijet. Tuttavia, questa organizzazione rappresentava un’élite musulmana di proprietari terrieri che opportunisticamente sosteneva i partiti di governo serbi in parlamento in cambio di concessioni minori. L’unica organizzazione politica all’interno della Serbia e della Jugoslavia che espresse chiaramente e senza riserve solidarietà con la lotta del popolo albanese per i suoi diritti nazionali, culturali ed economici negli anni tra le due guerre fu il Partito Comunista di Jugoslavia (KPJ).
All’inizio del XX secolo il dominio caotico dell’Impero Ottomano nella sua fase di decadenza fu quindi sostituito dall’amministrazione militare dello stato serbo in Kosovo. L’atteggiamento della Serbia nei confronti del popolo albanese nel periodo tra le due guerre può essere descritto solo come coloniale e razzista. Gli albanesi furono dichiarati incapaci di una vita culturale indipendente e di formare il proprio stato nazionale. Il territorio post-ottomano abitato dalla maggioranza della popolazione albanese fu così sequestrato in nome dei “diritti storici” e della mitologia sciovinista di restaurare i territori dell’impero serbo medievale. Questa politica reazionaria della borghesia serba provocò decenni di sfiducia e spesso di aperta ostilità tra albanesi e serbi.
La fratellanza d’armi partigiana
Il precedente che doveva dimostrare che l’oppressione nazionale e la sfiducia tra il popolo del Kosovo non devono necessariamente perpetuarsi di generazione in generazione, avvenne nel momento più inaspettato. Ci riferiamo all’unità armata di serbi e albanesi all’interno del movimento partigiano durante la seconda guerra mondiale.
Durante i primi mesi dell’occupazione le prospettive di un’azione politica congiunta trasversale alle divisioni etniche in Kosovo erano molto scarse. I fascisti italiani usarono abilmente le divisioni prebelliche per consolidare il loro potere. Introdussero l’istruzione in lingua albanese, permisero i simboli nazionali albanesi e si presentarono come liberatori delle masse albanesi dalla dominazione serba. Tra gli strati politicamente arretrati degli albanesi, l’occupante stava reclutando varie milizie fasciste e formazioni di collaborazionisti per dare inizio al terrore contro la popolazione serba, in particolare le famiglie di coloni più poveri che venivano sfrattate o liquidate. D’altra parte, bande di cetnici stavano facendo incursioni dal Kosovo al Sangiaccato (regione situata tra Serbia, Montenegro, Kosovo e Bosnia Erzegovina – ndt) per vendicarsi dei civili albanesi e musulmani nei villaggi di confine.
Questo scenario non fu esclusivo del Kosovo. Una situazione simile esisteva in Dalmazia, parti della Bosnia e molte altre aree dei Balcani durante la seconda guerra mondiale. In queste regioni sottosviluppate e multietniche ci fu il terrore sistematico degli occupanti fascisti contro la popolazione serba e altri popoli, così come le orge di sangue delle milizie nazionaliste dall’altra parte. Queste bande reazionarie crebbero sotto gli auspici degli eserciti stranieri occupanti, massacrando le popolazioni locali che sostenevano la resistenza partigiana. Le motivazioni dietro i loro crimini erano la vendetta, la volontà di creare territori etnicamente omogenei o il saccheggio.
La principale differenza tra il Kosovo e le altre aree etnicamente miste della Jugoslavia era la debolezza oggettiva del movimento partigiano nel caso del Kosovo. I partigiani furono l’unica forza politica che combatté costantemente contro gli occupanti e organizzò la popolazione superando le divisioni etniche. La crescita della loro influenza in un certo territorio era quindi l’unica garanzia che non ci sarebbe stato spargimento di sangue su base nazionale. In Kosovo, tuttavia, il KPJ aveva solo 270 membri quando scoppiò la guerra. Solo venti di loro erano di etnia albanese. La mancanza di una classe operaia industriale e la sfiducia degli albanesi nei confronti di un’organizzazione politica percepita come “slava” erano i principali ostacoli per i comunisti della regione.
La situazione sul terreno stava gradualmente cambiando con il progredire della guerra. Nel settembre 1942 fu formata la prima unità partigiana albanese. Un grande impulso al miglioramento della reputazione del movimento partigiano tra la popolazione albanese del Kosovo fu la crescente influenza dei gruppi marxisti e delle azioni di guerriglia in Albania. La determinazione evidente dei delegati albanesi e serbi del Comitato di liberazione popolare per il Kosovo e il Dukagjin nel sostenere il diritto della popolazione del Kosovo all’autodeterminazione (la Conferenza di Bujan) – così come l’assistenza disinteressata fornita dai partigiani jugoslavi ai compagni albanesi durante gli anni della guerra –contribuì a indebolire i pregiudizi che gli albanesi in Kosovo avevano nei confronti dei comunisti serbi.
Importanti comunisti del Kosovo come Miladin Popović, Dušan Mugoša, Ramiz Sadiku e Borko “Boro” Vukmirović svolsero un ruolo chiave nel collegare i movimenti rivoluzionari in Jugoslavia e Albania. Sostennero una linea internazionalista in Kosovo facendo campagne per l’inclusione degli albanesi nella riforma agraria, il libero uso della lingua albanese nell’amministrazione locale e nel sistema scolastico, nonché il diritto degli albanesi di coltivare il proprio patrimonio culturale.
Tuttavia non tutti i membri del KPJ avevano un approccio internazionalista nei confronti della questione nazionale albanese. Attivisti come Sadiku, Mugoša e Popović erano quadri di partito esperti che avevano costruito l’unità di classe durante anni di lavoro politico illegale contro il regime monarchico serbo e il fascismo, a stretto contatto con i compagni combattenti in Albania. Tuttavia, molte nuove reclute serbe nei distaccamenti partigiani dal Kosovo, dal Montenegro e dalla Serbia meridionale non avevano lo stesso livello politico, e le loro opinioni erano inevitabilmente influenzate dal terrore dei collaborazionisti albanesi sperimentato dalle loro famiglie durante la guerra. Erano più inclini a vedere gli albanesi come collaborazionisti degli occupanti.
Dobbiamo inoltre tenere conto delle idee scioviniste ereditate dal passato che continuarono a circolare all’interno delle istituzioni statali dopo la guerra. Tra queste c’era l’idea dell’espulsione della popolazione albanese dal Kosovo, che era ancora sostenuta dal funzionario Vasa Čubrilović. C’erano quindi opinioni opposte su come risolvere la questione nazionale in Kosovo che circolavano all’interno del Movimento di Liberazione Popolare e delle autorità del dopoguerra. A causa della mancanza, nelle file del KPJ stalinizzato, di una cultura democratica di discussione aperta sulla linea politica e le prospettive, le nuove autorità agirono in modo empirico e reagendo alle circostanze. Invece di anticipare e fare avanzare il processo, i comunisti jugoslavi permisero che fosse lo sviluppo spontaneo degli eventi sul campo a determinare quale approccio avrebbe prevalso.
Anche se le idee comuniste stavano trovando la loro strada verso strati più ampi degli albanesi, la maggior parte mantenevano ancora riderve o erano influenzati da correnti politiche nazionaliste ed ex collaborazionisti – specialmente nella regione collinare di Drenica nel Kosovo centrale, dove le relazioni familiari patriarcali dettavano la vita sociale e politica. La strategia dei comunisti jugoslavi negli ultimi mesi della guerra in Kosovo fu quella di mobilitare in massa i giovani albanesi in unità dell’esercito partigiano e integrarli nel movimento rivoluzionario attraverso la lotta contro il fascismo in altre parti del paese. Nella seconda fase, la rapida industrializzazione nello stesso Kosovo avrebbe dovuto creare una nuova classe operaia e rompere i rapporti patriarcali di dipendenza.
Rendendosi conto che i loro giorni erano contati, i leader delle formazioni nazionaliste iniziarono una rivolta armata contro le nuove autorità alla fine del 1944. L’esatto equilibrio di potere e la divisione globale delle sfere di influenza tra l’Unione Sovietica e i suoi alleati occidentali non erano ancora noti in quei mesi. La speranza delle organizzazioni nazionaliste albanesi era di attirare l’attenzione delle forze alleate occidentali e alla fine unirsi all’intervento armato degli stati capitalisti contro il comunismo nei Balcani.
La rivolta, che aveva la sua roccaforte nella regione di Drenica, diede inevitabilmente il primato alle ali più reazionarie all’interno della sezione serba del Partito Comunista. Durante la prima metà del 1945, fu istituita un’amministrazione militare in Kosovo e 30.000 soldati dell’esercito popolare jugoslavo furono impegnati con il compito di sedare la rivolta nei villaggi di Drenica. Dopo che l’insurrezione era stata messa sotto controllo attraverso un intervento brutale, lo status formale del Kosovo all’interno della nuova Jugoslavia fu risolto nel luglio di quell’anno senza molte discussioni politiche. Il Comitato di liberazione popolare del Kosovo e Metohija, con 142 membri (di cui solo 33 albanesi), votò la l’inclusione del Kosovo nella Repubblica di Serbia come regione autonoma.
Non c’è dubbio che mesi di governo militare e l’esclusione delle masse albanesi dal processo di decisione sul futuro del Kosovo diedero credito alle affermazioni dei politici nazionalisti albanesi secondo cui il regime comunista non era fondamentalmente diverso dal regime prebellico e che gli albanesi potevano ottenere pieni diritti nazionali solo in uno stato borghese indipendente o attraverso l’unificazione con l’Albania. Questo, tuttavia, era lontano dalla verità. Il nuovo stato operaio, che emerse dalla rivoluzione e dall’attivazione delle masse, aveva poco in comune con la Jugoslavia monarchica, nonostante tutte le carenze e gli errori della direzione stalinista del PKJ.
Le rivoluzioni socialiste in Bulgaria, Jugoslavia e Albania, così come il rafforzamento delle forze comuniste in Grecia, aprivano la prospettiva di un radicale rimodellamento della regione e di una soluzione alla questione nazionale albanese. I leader dei movimenti partigiani in Jugoslavia e in Albania considerarono la creazione di una più ampia federazione socialista che trascendesse i quadri nazionali borghesi. Un dispaccio inviato dal Quartier generale supremo dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo all’Esercito di liberazione popolare albanese alla fine di gennaio 1944 diceva, tra le altre cose:
“A nostro avviso, i compagni in Albania dovrebbero lavorare per collegare la loro lotta con la nostra il più strettamente possibile. Le decisioni dell’AVNOJ e dell’organizzazione federale della Jugoslavia dovrebbero essere rese note, così come la possibilità che altre nazioni balcaniche aderiscano a questa federazione, creando un forte e grande stato balcanico di popoli eguali che sarebbe un fattore forte in Europa e fornirebbe grandi opportunità per lo sviluppo a tutto tondo di ogni nazione.”
Le politiche concrete attuate in entrambi i paesi subito dopo la liberazione mostrano che queste non erano frasi vuote. Belgrado e Tirana firmarono una serie di contratti e accordi che aprivano la strada alla più stretta cooperazione militare, economica e culturale. Tra questi: il Trattato di amicizia e di mutua assistenza (che garantiva la cooperazione militare, 9 luglio 1946), l’accordo sull’armonizzazione dei piani economici, l’unione doganale e la perequazione della moneta tra la Repubblica Popolare Federale di Jugoslavia e la Repubblica Popolare d’Albania (27 novembre 1946) e la Convenzione sulla cooperazione culturale (9 giugno 1947). La Jugoslavia inviò consiglieri militari ed economici in Albania e godette di una tale reputazione che il serbo-croato fu introdotto come materia obbligatoria nelle scuole albanesi.
Diventa quindi chiaro che lo status formale del Kosovo nei primi anni dopo la liberazione dal fascismo era una questione tattica agli occhi della leadership del KPJ, che speravano avrebbe perso rilevanza una volta che la rivoluzione si fosse stabilizzata e una più ampia alleanza balcanica avesse reso superfluo il confine jugoslavo-albanese. Secondo Milentije Popović, rivolgendosi al Comitato di Liberazione Popolare a Prizren nel luglio 1945: “La questione di quale status avranno oggi il Kosovo e Metohija, in questa fase del movimento popolare, è una questione amministrativa, non politica”.
“Hej, slaveni”: Socialismo in un solo paese
La divisione tra Mosca e Belgrado nel 1948 e il fatto che ogni stato balcanico si incamminasse verso una “via nazionale al socialismo” individuale e in opposizione agli altri, ebbe conseguenze fatali per gli albanesi in Jugoslavia. La stalinizzazione del movimento operaio balcanico – che si manifestava nell’obbedienza alle dannose manovre politiche di Mosca e alle crescenti contraddizioni sociali nel modello stalinista di costruzione del “socialismo in uno paese solo” – ebbe conseguenze per tutti gli altri aspetti dell’emancipazione, incluso il superamento dell’oppressione nazionale.
Nel caso della Jugoslavia, passare alla costruzione di una federazione di slavi meridionali significava anche diluire gradualmente le idee dell’internazionalismo operaio. L’unità della classe operaia jugoslava veniva fondata in modo crescente sull’idea dell’interesse comune degli slavi nello stato, e sempre meno sull’idea dell’interesse comune dei lavoratori. Nonostante il loro numero, che era maggiore di alcune delle nazioni costituenti del nuovo stato, gli albanesi ricevettero lo status di “nazionalità” (narodnost), cioè di una minoranza nazionale.
Invece di fungere da ponte tra le due entità in una più ampia alleanza balcanica, agli occhi dei comunisti jugoslavi il Kosovo stava diventando un “vicolo cieco” e un potenziale rischio per la sicurezza. Era visto come un luogo in cui Mosca e Tirana potevano minare la sovranità della Jugoslavia influenzando la minoranza albanese. Le forze arretrate che alimentavano i pregiudizi contro gli albanesi riacquistarono così il loro primato nel partito, e gli albanesi furono di conseguenza spinti ai margini della vita politica e sociale in Jugoslavia.
Il Kosovo stava diventando un’area trascurata in cui la polizia e il servizio di sicurezza dello Stato avevano il sopravvento, e gli albanesi erano considerati “cittadini sospetti”. Si stima che fino al licenziamento di Aleksandar Ranković (il capo della polizia segreta) nel 1966, il servizio di sicurezza dello stato e la polizia abbiano schedato circa 120.000 cittadini kosovari di nazionalità albanese. Gli albanesi furono emarginati all’interno delle organizzazioni socio-politiche. A metà degli anni 1950, serbi e montenegrini in Kosovo costituivano il 50% dei membri del partito, il 68% delle posizioni amministrative di primo piano nelle istituzioni statali e fino all’87% del personale di sicurezza; tutto questo nonostante costituissero solo il 27 per cento della popolazione totale.
In termini economici, il Kosovo fu trascurato negli anni ’50. Fu solo dopo il 1957 che il Kosovo iniziò a ricevere fondi per le sue regioni sottosviluppate dal bilancio federale. Gli investimenti pro capite in Kosovo hanno raggiunto il 43,5% della media jugoslava durante questo decennio. Nel 1958, c’erano solo 49 aziende industriali in Kosovo, che impiegavano 16.000 lavoratori. In confronto, in Slovenia quell’anno operavano 465 aziende. In Kosovo si trattava principalmente di impianti ad alta intensità di capitale nelle industrie estrattive che non impiegavano molte persone e i cui prezzi dipendevano dai produttori finali nelle parti più sviluppate del paese.
Nonostante la crescita economica in numeri assoluti, il divario tra il Kosovo e le parti più sviluppate della Jugoslavia si è ampliato nel corso degli anni. Nel 1946, il reddito medio in Kosovo era tre volte inferiore a quello della Slovenia, mentre nel 1964 la differenza era cresciuta a 5 volte – una cifra devastante per un paese che si definiva socialista. Bloccati nel sottosviluppo e sotto la pressione della tortura della polizia, gli albanesi lasciavano la Jugoslavia in massa ed emigravano in Turchia, cosa che lo stato jugoslavo incoraggiò firmando un accordo speciale sull’accoglienza dei migranti con Ankara.
Tuttavia, la storia degli albanesi all’interno dello Stato operaio jugoslavo non si limita esclusivamente alla repressione e alla posizione della vittima. In primo luogo, gli albanesi erano attori in grado di plasmare le correnti politiche – sia come parte dello stato e del partito, sia esercitando pressioni dalle piazze sotto forma di un’organizzazione indipendente dal basso verso l’alto. In secondo luogo, nonostante la mancanza di democrazia e le deformazioni nello sviluppo inerenti al concetto di “socialismo in uno paese”, la Jugoslavia del dopoguerra era una creazione rivoluzionaria assai capace di generare progresso e fornire spazio per l’emancipazione a settori emarginati della società.
Come abbiamo già accennato, c’erano diversi approcci alla questione nazionale albanese tra i comunisti jugoslavi, e all’inizio degli anni 1960 le correnti più progressiste stavano guadagnando di nuovo terreno. Le condizioni per cambiare la politica ufficiale nei confronti del Kosovo furono create dal miglioramento delle relazioni tra Belgrado e Mosca, ma anche dalla scissione della burocrazia del partito albanese a Tirana, che la allontanò dai suoi ex alleati in Unione Sovietica. Oltre a questi cambiamenti geopolitici, l’influenza principale la ebbero i funzionari albanesi all’interno della Lega dei Comunisti di Jugoslavia (SKJ), anche se un ulteriore fattore furono le manifestazioni di piazza tenute dagli albanesi nel 1968, che attirarono l’attenzione pubblica sulle catastrofiche condizioni di vita nella provincia.
Gli anni ’60 e ’70 ci danno un’idea della politica progressista nei confronti delle minoranze nazionali che uno stato operaio può coltivare sulle fondamenta di un’economia pianificata. Nel 1968 il Kosovo ricevette lo status di provincia autonoma con una propria costituzione, mentre nel 1974 il suo status costituzionale e la rappresentanza politica all’interno della federazione furono elevati quasi al livello di una repubblica. Il governo locale iniziava a prestare particolare attenzione all’uso della lingua albanese nel sistema scolastico, nelle istituzioni culturali e statali, mentre nelle organizzazioni socio-politiche e nel settore pubblico fu introdotto il bilinguismo rigoroso. Ciò significava che si aprivano le porte per una maggiore attivazione degli albanesi all’interno delle strutture ufficiali. Alla fine degli anni 1970, gli albanesi costituivano già i due terzi dei membri del partito, mentre la quota di albanesi nell’amministrazione e nelle aziende stava crescendo in modo significativo. In termini economici, questi due decenni saranno anche ricordati come anni di rapidi progressi dovuti a progetti infrastrutturali, creazione di posti di lavoro e aumento del tenore di vita.
Nel 1965 fu istituito il Fondo per lo sviluppo accelerato delle Repubbliche sottosviluppate e del Kosovo. Ci sono molte interpretazioni errate di questo meccanismo di ridistribuzione federale. Per i liberali economici, rappresenta un trasferimento irrazionale di valore in investimenti “non redditizi”. I nazionalisti serbi spesso indicano questo fondo come la prova definitiva della presunta pigrizia e persino dell’ingratitudine degli albanesi del Kosovo. La verità è, tuttavia, che questo meccanismo è stato una compensazione per l’abbandono dello sviluppo equilibrato del paese attraverso un piano di investimenti centrale a livello dell’intera federazione. Questo fondo fu un tentativo di compensare un modello di crescita motivato dal mercato in cui i principali poli dello sviluppo economico erano le aziende e le regioni che avevano già un vantaggio. Tuttavia, questo modello di “compensazione” minima portò grandi benefici allo sviluppo della provincia rispetto alla precedente negligenza, nonostante gli sprechi burocratici e la corruzione.
Nonostante la crescita economica accelerata degli anni ’60 e ’70, i problemi sociali ed economici persistevano anche durante questi anni. Gli investimenti non riuscirono a diversificare la struttura economica della provincia. Le compagnie energetiche, minerarie e di lavorazione dei metalli rimanevano dipendenti dai produttori finali nelle regioni più sviluppate della Jugoslavia che dettavano i prezzi sul “mercato socialista”. La disoccupazione è rimasta la più alta del paese. Su una popolazione di 1,5 milioni, solo 178 mila abitanti avevano un impiego nel settore sociale con tutti i benefici. Queste disuguaglianze avevano anche un modello nazionale. Lo sviluppo dell’amministrazione e la sua apertura agli albanesi crearono uno piccolo strato della popolazione albanese integrata nello stato jugoslavo. Si concentrò nei centri urbani più grandi e divenne un esempio della politica di “fratellanza e unità” e bilinguismo.
Nonostante il significativo aumento dell’influenza dei lavoratori albanesi nel settore sociale “autogestito”, le disuguaglianze nazionali persistevano. Serbi e montenegrini, che costituivano il 15 per cento della popolazione nel 1981, costituivano il 30 per cento dei suoi dipendenti. La maggior parte delle posizioni di direzione nelle società rimangono nelle mani di serbi e montenegrini. Un gran numero di albanesi si rivolgeva a piccole imprese, emigrava in Occidente o usava le opportunità appena cr
re sociale con tutti i benefici. Queste disuguaglianze avevano anche un modello nazionale. Lo sviluppo dell’amministrazione e la sua apertura agli albanesi crearono uno piccolo strato della popolazione albanese integrata nello stato jugoslavo. Si concentrò nei centri urbani più grandi e divenne un esempio della politica di “fratellanza e unità” e bilinguismo.
Nonostante il significativo aumento dell’influenza dei lavoratori albanesi nel settore sociale “autogestito”, le disuguaglianze nazionali persistevano. Serbi e montenegrini, che costituivano il 15 per cento della popolazione nel 1981, costituivano il 30 per cento dei suoi dipendenti. La maggior parte delle posizioni di direzione nelle società rimangono nelle mani di serbi e montenegrini. Un gran numero di albanesi si rivolgeva a piccole imprese, emigrava in Occidente o usava le opportunità appena create per raggiungere l’istruzione superiore in lingua albanese solo per unirsi alla massa di giovani presso l’ufficio di disoccupazione dopo la laurea. Queste disuguaglianze sociali all’interno della popolazione albanese crearono divisioni politiche.
La minoranza si stava rivolgendo all’integrazione nelle istituzioni ufficiali, mentre la maggioranza degli albanesi politicamente attivi stava diventando sempre più alienata e aperta alle idee nazionaliste promosse dalle organizzazioni clandestine hoxiste o borghesi. L’arretratezza economica generale, la crescita del nazionalismo tra gli albanesi, così come la perdita del primato nelle istituzioni locali, a causa dell’introduzione dell’obbligo di conoscere la lingua albanese e la rigorosa applicazione delle quote nazionali, diffusero l’insoddisfazione tra i serbi del Kosovo. Tra il 1961 e il 1981, circa 85.000 serbi migrarono dal Kosovo alla Serbia.
Nel corso degli anni ’80, la migrazione dei serbi dal Kosovo divenne un importante argomento di mobilitazione per i nazionalisti all’interno della Serbia. La tesi avanzata era che i serbi si stavano allontanando a causa della pressione sistematica dei nazionalisti albanesi. La migrazione dei serbi dal Kosovo ai centri urbani della Serbia centrale in quegli anni faceva parte di un più ampio modello di movimento dei serbi dalle regioni meno sviluppate della Jugoslavia (Bosnia-Erzegovina, Dalmazia) ai centri urbani in Serbia e Vojvodina. Indubbiamente, molte dispute sulle proprietà rurali in Kosovo e sui diritti fondiari possono aver assunto connotazioni nazionaliste, mentre i serbi nelle istituzioni locali potrebbero essersi sentiti emarginati a causa della mancanza di conoscenza della lingua albanese. Tuttavia, sarebbe sbagliato parlare di un’espulsione premeditata e organizzata dei serbi dal Kosovo da parte degli albanesi.
La crisi economica degli anni 1980 colpì più duramente le regioni sottosviluppate della Jugoslavia, e la motivazione principale per l’emigrazione deve certamente essere ricercata nel peggioramento delle condizioni di vita. Il fatto che anche 45.000 albanesi lasciarono il Kosovo durante gli anni ’70 depone a favore di questo argomento. Tuttavia, la stampa sensazionalistica, che all’epoca alimentava l’isteria sciovinista in Serbia, non era interessata ai fatti e a un’analisi obiettiva del problema. I giornali stavano lanciando una campagna sul presunto stupro di massa di donne serbe, la messa in pericolo della minoranza serba e l’aumento dell’illegalità in Kosovo.
Queste narrazioni tossiche nei media furono incoraggiate dalla posizione ufficiale della Lega dei Comunisti di Jugoslavia, che, dopo nuove proteste per migliori condizioni di vita e una maggiore autonomia da parte degli albanesi nel 1981, caratterizzò questo movimento come “controrivoluzionario”. Le idee razziste sugli albanesi come popolazione che conduceva una “guerra biologica” in Kosovo contro i serbi attraverso gli alti tassi di natalità si stavano gradualmente diffondendo nel pubblico serbo e jugoslavo. Stava di nuovo diventando legittimo considerare gli albanesi come la “quinta colonna” e gli “intrusi” in Jugoslavia. Dopo la violenta repressione delle proteste del 1981 da parte dell’esercito e l’uccisione di otto manifestanti (secondo fonti ufficiali), fu stata nuovamente istituita l’amministrazione militare in Kosovo. Negli anni successivi la popolazione albanese fu esposta a nuove ondate di repressione poliziesca e arresti di massa. Il contesto più ampio per l’ascesa di idee scioviniste e la repressione della popolazione albanese era una profonda crisi economica e politica del progetto jugoslavo di costruire “il socialismo in uno stato”. In questi anni, anche una minima ridistribuzione dei fondi per le regioni sottosviluppate divenne un onere per i riformatori economici pro-mercato. D’altra parte, la leadership politica in ogni repubblica iniziava a spingere i propri programmi nazionali, ponendo l’egoistico interesse locale al di sopra dello sviluppo comune della federazione nel suo complesso.
Restaurazione del capitalismo e discriminazione statale
La prevalenza degli interessi ristretti delle singole repubbliche sulla prospettiva dello sviluppo collettivo jugoslavo, così come la supremazia dei riformatori del mercato sui sostenitori dell’economia pianificata in Serbia, segnarono l’arrivo di Slobodan Milošević a capo dell’apparato del partito locale alla fine degli anni 1980. Al fine di rafforzare la sua posizione rispetto ad altre repubbliche, il partito e la burocrazia statale in Serbia posero l’obiettivo di abolire lo status autonomo della Vojvodina e del Kosovo, nonché la cancellazione degli aiuti di solidarietà per lo sviluppo del Kosovo. All’inizio del 1989, Slobodan Milosevic lanciò un’iniziativa per approvare emendamenti costituzionali che avrebbero ridotto significativamente l’autonomia del Kosovo, posto la polizia e la magistratura sotto il controllo serbo e aumentato l’influenza di Belgrado nel sistema educativo e nell’economia. Nel febbraio dello stesso anno, gli albanesi del Kosovo si opposero alle misure annunciate con una serie di manifestazioni e uno sciopero dei minatori. Belgrado rispose con mobilitazioni di piazza scioviniste durante le quali i manifestanti chiesero l’arresto di politici albanesi e la repressione delle proteste in Kosovo. La federazione reintrodusse lo stato di emergenza nella provincia quando la polizia feve irruzione nelle miniere e ha interrotto uno sciopero dei minatori. La direzione del Kosovo fu epurata poco dopo, nel marzo 1989.
Negli anni successivi ci fu quindi il ritorno della discriminazione sistemica contro la popolazione albanese in Kosovo attraverso il sistema legale. Decine di migliaia di dipendenti albanesi nelle istituzioni locali, scuole e ospedali furono licenziati attraverso misure di emergenza, sanzionati per aver partecipato a manifestazioni e costretti a firmare dichiarazioni di fedeltà allo stato della Serbia. I media in lingua albanese furono chiusi o messi sotto controllo, mentre i programmi scolastici e universitari vennero ripuliti da qualsiasi contenuto che non si adattasse alla nuova narrativa sciovinista serba.
Con il crollo delle istituzioni jugoslave e della Lega jugoslava dei comunisti, la leadership tra le masse albanesi in Kosovo fu assunta da organizzazioni provenienti dall’intellighenzia dissidente incarnata da Ibrahim Rugova. Invece di un ulteriore confronto con le autorità serbe o di tentare di partecipare alla politica parlamentare serba e di connettersi con le forze anti-nazionaliste in Serbia, la leadership albanese scelse la resistenza gandhiana e la formazione di istituzioni parallele. La speranza era che le potenze occidentali riconoscessero l’esistenza di una segregazione sistemica in Kosovo e ripristinassero una sorta di autonomia nel quadro della risoluzione di altri conflitti tra repubbliche nell’ex Jugoslavia.
Tuttavia, le tattiche pacifiste e i tentativi di attirare l’attenzione dei mediatori di potere stranieri attraverso l’auto-vittimizzazione non funzionarono. Il Kosovo rimase ignorato dalla “comunità internazionale”, intrappolato in una sorta di stato di emergenza permanente all’interno della Serbia durante gli anni 1990. Lo status quo funzionava bene per i politici nazionalisti di entrambe le parti. Espellendo gli albanesi dalla vita politica, Milošević ottenne una base sicura di voti alle elezioni, mentre i suoi compari di partito e la mafia guadagnarono territori dove potevano godere dell’illegalità e trarre profitto dalla discriminazione contro la popolazione locale. Le restrizioni legali al diritto di acquistare immobili per i cittadini albanesi e l’espulsione degli albanesi dal servizio civile crearono un’intera rete di corruzione e un listino prezzi di servizi estorti agli albanesi che avevano bisogno di servizi pubblici di base. D’altra parte, Ibrahim Rugova manteneva lo status di presidente dello stato albanese parallelo, che presumibilmente in attesa di un riconoscimento internazionale. Questa situazione, naturalmente, non era accettabile per le masse albanesi che erano intrappolate in un sistema che ricordava sempre più l’apartheid.
Nella seconda metà degli anni 1990, il gruppo guerrigliero chiamato Esercito di liberazione del Kosovo (UCK) iniziò gli attacchi contro la polizia serba. Come marxisti, comprendiamo pienamente il rifiuto della resistenza passiva e dell’opposizione armata al regime mafioso instaurato da Slobodan Milošević nell’ex provincia autonoma. Tuttavia, la domanda chiave è: qual era la natura della direzione della lotta armata? Quali erano i suoi metodi e per cosa hanno combattuto? Uno sguardo superficiale rivela che l’UCK non ha alcuna somiglianza con i guerriglieri partigiani della Seconda Guerra Mondiale e gli eroi come Ramiz Sadiku. L’UCK non era neanche una formazione simile ai gruppi hoxhisti attivi in Kosovo dopo la seconda guerra mondiale, sebbene le sue radici siano legate a queste organizzazioni illegali.
Come gli ex “comunisti” del partito di Milošević, che divenenro nazionalisti da un giorno all’altro e furono coinvolti nella privatizzazione della proprietà sociale, ex attivisti di vari partiti comunisti anti-titoisti in Kosovo hanno rifiutato “l’ideologia” e si sono fusi con i dissidenti liberali su una piattaforma di nazionalismo e politiche reazionarie procapitaliste.
Questa situazione venne sfruttata dall’imperialismo americano, che si autoproclamò protettore e mentore del movimento indipendentista albanese in Kosovo. Gli imperialisti americani non lo fecero per una reale preoccupazione per i diritti umani e la libertà del popolo albanese. Sostenere il movimento nazionale albanese in Kosovo era un altro modo per gli Stati Uniti e i paesi della NATO di imporre la loro presenza militare nei Balcani, consentendo alle loro aziende di mettere piede in Kosovo. Era anche un modo per fare pressione sul regime di Milošević al fine di costringerlo a collaborare; oppure destabilizzarlo abbastanza da poter essere rovesciato.
Con l’aiuto della NATO, l’UCK è riuscito a cacciare l’apparato repressivo serbo dal Kosovo. Ciò ha certamente significato sollievo per la maggioranza albanese, ma i lavoratori del Kosovo hanno pagato un prezzo alto per questa alleanza con l’imperialismo e l’adozione di una piattaforma politica borghese.
Più di due decenni dopo l’arrivo delle truppe della NATO in Kosovo, il paese è ancora in una posizione fantoccio rispetto ai suoi sostenitori stranieri. Inoltre, la politica sciovinista dell’UCK nei confronti della minoranza serba in Kosovo ha spinto questa comunità nelle mani dei protettori nazionalisti in Serbia. Ha così aperto la porta a nuove divisioni territoriali (Kosovo settentrionale) e ha dato a Belgrado una carta per continuare a mettere in discussione il futuro status del Kosovo. Queste continue tensioni forniscono una scusa per le forze straniere per avere una presenza costante sul terreno per tenere sotto controllo i “conflitti etnici”.
Dopo essere stata rapinata dai compari di Milošević, l’ex proprietà sociale costruita dai lavoratori di tutto il Kosovo è caduta nelle mani di nuovi profittatori di guerra – ex comandanti dell’UCK e investitori stranieri. La lotta per l’autodeterminazione del Kosovo sotto la guida dell’intellighenzia nazionalista, della piccola borghesia e dei nuovi uomini d’affari emersi dal sottoproletariato è finita in un vicolo cieco. Gli albanesi in Kosovo rimangono ostaggi dei negoziati delle grandi potenze. Allo stesso tempo, l’organizzazione politica della classe operaia e della gioventù in Serbia viene messa da parte con l’insistenza sul revanscismo sciovinista nei confronti degli albanesi. Come uscire, allora, da questo circolo vizioso di conflitti politici perpetrati da élite nazionaliste rivali che, con il pretesto di proteggere il loro popolo, mantengono gli interi Balcani nella miseria e in uno stato semicoloniale?
Il vero nemico è a casa nostra
La classe operaia e i giovani serbi non hanno alcun interesse a sostenere i tentativi di ripristinare il dominio della classe dominante serba sul Kosovo. Un tale programma li subordina solo alle élite politiche e imprenditoriali serbe e consente un’ulteriore militarizzazione della società serba. Le unità di combattimento e le armi acquistate dallo stato serbo con lo slogan del “ritorno in Kosovo” saranno utilizzate contro i lavoratori serbi nel momento in cui si organizzeranno più seriamente nella lotta per i loro diritti sociali e politici. Nel corso del ventesimo secolo, lo stato serbo ha avuto una serie di opportunità per dimostrare che era in grado di sviluppare il Kosovo e guadagnarsi la fiducia della maggioranza della popolazione albanese. Invece, ha agito in modo coloniale e razzista. Dopo una tale esperienza storica, è del tutto comprensibile che il popolo albanese non voglia più vivere sotto il dominio dello stato serbo.
La guerra nel Nagorno-Karabakh ci mostra che i conflitti sospesi lasciano spazio per nuove esplosioni belliche, mentre la guerra nel Donbass ci mostra che i territori con status conteso possono facilmente portare a un conflitto imperialista più profondo. Molti che aderiscono allo slogan “Il Kosovo è Serbia” non sanno che, in ultima istanza, si tratta di un appello alla guerra e alla pulizia etnica, che costerebbe un gran numero di vite serbe e albanesi. Non c’è altro modo per ristabilire il controllo serbo su una popolazione assolutamente contraria a questo. In tutte le guerre nella ex Jugoslavia, sono stati i criminali, i politici e i capitalisti a beneficiarne di più, mentre i lavoratori, che sono stati usati come “carne da cannone”, hanno sopportato il peso della restaurazione del capitalismo. Molti veterani di guerra sono rimasti disabili e abbandonati dai loro stati appena creati non appena compiuto il loro dovere militare. In ogni nuova guerra nazionalista, le cose non saranno diverse.
I comunisti nell’ex Jugoslavia devono essere consapevoli che l’esperienza storica della vita in tutti i precedenti Stati nazionali dei Balcani induce inevitabilmente il popolo albanese ad essere cauto e diffidente nei confronti dei suoi vicini slavi. La colpa di ciò è da attribuire principalmente, ma non esclusivamente, alla borghesia serba. Gli errori della burocrazia titoista compromisero persino i comunisti jugoslavi, che fino alla fine della seconda guerra mondiale erano noti come combattenti intransigenti contro lo sciovinismo e il razzismo. Il rinnovamento dell’alleanza rivoluzionaria dei popoli slavo e albanese nei Balcani oggi, deve quindi iniziare con i comunisti che sostengono inequivocabilmente le aspirazioni storiche degli albanesi del Kosovo a vivere nel proprio stato.
Il sostegno dei comunisti jugoslavi al diritto degli albanesi del Kosovo all’autodeterminazione non implica il sostegno al regime borghese comprador che governa il Kosovo dal 1999, né implica il sostegno all’attuale occupazione imperialista del Kosovo. Al contrario, sostenendo questo diritto, chiediamo alla classe operaia del Kosovo di unirsi a una lotta comune per espellere tutte le forze imperialiste e i loro servitori dai Balcani – da Pristina a Lubiana, Zagabria, Banja Luka, Sarajevo, Podgorica, Belgrado e Skopje.
Il nostro appello per una lotta comune non contiene sottintesi o clausole nascoste. Non imponiamo alcuna condizione speciale che vogliamo che gli albanesi del Kosovo soddisfino per “meritare” il nostro sostegno. Il nostro sostegno al diritto all’autodeterminazione del Kosovo è valido indipendentemente da chi attualmente lo governa. Rifiutiamo l’approccio che richiede alla nazione oppressa di “dimostrare” agli oppressori che è “degna” di un diritto all’autodeterminazione! Tale approccio è un riflesso dell’arroganza nazionale delle nazioni dominanti e un ostacolo all’unità dei lavoratori. Siamo anche in disaccordo con coloro che a sinistra relativizzano la questione dell’oppressione nazionale degli albanesi del Kosovo attraverso astrazioni e la convinzione che una soluzione per questo problema debba attendere la liberazione di classe. Oggi, le masse albanesi sono effettivamente sfruttate dai capitalisti albanesi e dalle multinazionali, ma non sono esposte alla minaccia diretta di molestie e persecuzioni da parte dell’esercito serbo o delle milizie paramilitari. Questo è un grande sollievo per la vita quotidiana della popolazione locale e una precondizione per l’ulteriore sviluppo dell’organizzazione su base di classe.
I negoziati tra Belgrado e Pristina non sono condotti con l’obiettivo di trovare una soluzione permanente al “conflitto serbo-albanese”, ma come copertura per raggiungere “accordi impari” neocoloniali con le forze imperialiste, in primo luogo gli Stati Uniti. Questi accordi portano sia la Serbia che il Kosovo in una più profonda dipendenza economica, consegnando il controllo dei propri paesi e delle proprie risorse all’imperialismo. L’unico modo per togliere l’asso del “mantenimento della pace” dalle mani degli imperialisti è riconciliare Serbia e Kosovo, il che significa il riconoscimento del diritto del Kosovo all’autodeterminazione e all’indipendenza da parte della classe operaia serba. Solo in questo modo si possono gettare le basi per la futura cooperazione e lotta comune contro il capitale globale e i suoi esponenti locali, così come per la conservazione del patrimonio serbo in Kosovo e il ritorno a casa della popolazione serba sfollata.
Allo stesso tempo, è nostro dovere dire apertamente ai giovani e ai lavoratori progressisti del Kosovo che il nostro sostegno al diritto all’autodeterminazione non significa che ci illudiamo che l’indipendenza nazionale risolverà i numerosi problemi economici e politici che affliggono oggi tutte le persone in Kosovo. Finché i paesi balcanici saranno sotto il dominio della loro borghesia, tutti i problemi storici torneranno ostinatamente più e più volte, indipendentemente da come saranno tracciati i confini. L’indipendenza formale del Kosovo non comporta automaticamente la sovranità nazionale o il progresso economico. I recenti fallimenti di Vetëvendosje nell’instaurare uno “stato sociale” in Kosovo dopo il suo trionfo elettorale, seppure su scala modesta, indicano chiaramente i limiti delle riforme sociali progressiste nella periferia capitalista.
Nonostante tutte le carenze della Repubblica federale socialista di Jugoslavia e il fatto che essa tradì il suo compito dichiarato della liberazione nazionale degli albanesi, i progressi emancipatori vissuti dal Kosovo negli anni ’60 e ’70 testimoniano il fatto che la prosperità complessiva, economica, sociale e culturale, è possibile solo all’interno di uno Stato operaio e di un’economia pianificata.
È importante sottolineare che un gran numero di lavoratori e contadini di tutte le etnie vivevano una vita pacifica come vicini in Kosovo, anche ai tempi della più turbolenta isteria nazionalista alimentata dalle élite nazionaliste. E’ ancora così in alcuni luoghi oggi. I vicini si aiutano a vicenda, vanno a casa gli uni degli altri e capiscono parzialmente la lingua delle altre comunità. L’attenzione dei media borghesi sulla macropolitica e sul conflitto maschera questo livello di solidarietà a livello micro, che può essere una base significativa per un nuovo tipo di politica. La maggior parte dei serbi nella parte meridionale del Kosovo proviene da famiglie contadine povere che non avevano un posto dove fuggire. Un programma di uguaglianza nazionale e una piattaforma sociale in queste comunità avrebbero certamente un richiamo maggiode della politica sciovinista di Belgrado. D’altra parte, molte famiglie albanesi continuano ad avere legami culturali ed economici con la Serbia e altre parti dell’ex Jugoslavia. Questo rimane un potenziale non realizzato e una solida base sociale per una nuova organizzazione marxista in Kosovo.
Il popolo albanese in Kosovo non sarà mai libero se non combatterà per la libertà delle minoranze che lo circondano. Possiamo imparare molto dai movimenti partigiani in Albania e in Jugoslavia e la loro lotta contro il fascismo. Il pieno rispetto dei diritti nazionali dei popoli minoritari e l’instaurazione della solidarietà sul terreno non erano semplici “massime ideologiche”, ma il modo più efficace per lottare per la liberazione nazionale e la rivoluzione socialista. Se vogliono raggiungere una vera indipendenza, le forze progressiste in Kosovo dovrebbero mirare a conquistare la minoranza serba dalla loro parte.
Essi rischiano altrimenti di creare una base reazionaria per il nazionalismo serbo nel nord del Kosovo che consentirà a Belgrado e alle potenze straniere di continuare a interferire nella politica locale. Rispettare i diritti delle minoranze non significa attuare quote parlamentari e spartizioni nazionali nelle istituzioni secondo i modelli burocratici dell’Unione Europea. Significa creare solidarietà tangibile sul campo attraverso la lotta comune e la difesa dei vicini dagli attacchi sciovinisti. Solo in questo modo si può instaurare una fiducia interetnica e si aprono ai serbi le prospettive di una vita degna all’interno del Kosovo indipendente.
Per raggiungere una vera autodeterminazione e indipendenza, il movimento progressista in Kosovo dovrebbe quindi rompere le alleanze politiche con le correnti politiche nazionaliste e borghesi albanesi. La lotta per la liberazione nazionale di questi strati privilegiati e delle masse popolari sono aspirazioni contraddittorie. Come possiamo vedere, gli ex leader dell’UCK, così come gli eredi di Ibrahim Rugova, sono pronti ad accettare lo status semi-coloniale del Kosovo, purché possano continuare ad accumulare la loro ricchezza privata in questo quadro. L’indipendenza nazionale delle piccole nazioni in un ordine mondiale imperialista è un miraggio, perché la borghesia compradora locale è saldamente attaccata al capitale imperialista globale. Tutti loro sono alla ricerca di protettori nelle forze imperialiste. In cambio di sponsorizzazioni straniere, offrono cooperazione nello sfruttamento del proprio popolo e nell’oppressione di altre piccole nazioni, specialmente quelle vicine.
Infine, l’indipendenza del Kosovo non esaurisce la più ampia questione nazionale albanese nei Balcani. La richiesta degli albanesi di vivere in un unico paese dei Balcani è del tutto legittima. Questo vale anche per ogni altra nazione balcanica. Non ultimi i serbi, che condividono l’esperienza albanese di vivere in territori semi-sovrani sotto un protettorato straniero (la Repubblica Srpska) o come minoranze nazionali negli stati vicini. La soluzione proposta dai politici nazionalisti borghesi albanesi è la prospettiva della creazione della “Grande Albania”. Tuttavia, la divisione del territorio del Montenegro e della Macedonia e la loro unificazione con l’Albania e il Kosovo è un percorso chiaro verso la guerra, la pulizia etnica e un nuovo spargimento di sangue nei Balcani. Tali mosse diffonderebbero un rinnovato odio tra i popoli balcanici, ponendo un onere aggiuntivo sulle generazioni future. Proprio come i serbi potrebbero vivere in uno stato comune solo come parte di un progetto jugoslavo, gli albanesi possono raggiungere l’unità nazionale solo all’interno della più ampia comunità balcanica di popoli eguali.
L’occasione storica persa nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale ci indica la via da seguire. Nel contesto del collegamento tra le rivoluzioni socialiste in Jugoslavia, Bulgaria, Albania e Grecia, lo status della questione nazionale albanese avrebbe potuto essere risolto all’interno della Federazione socialista balcanica. Invece di una regione trascurata e periferica dello Stato jugoslavo, il Kosovo avrebbe potuto diventare un centro economico e culturale, collegando le regioni in uno sviluppo coordinato. Una federazione balcanica avrebbe potuto offrire spazio per la fioritura delle culture nazionali sia del popolo albanese che di quello serbo, in comunicazione con le comunità maggioritarie in Albania e Serbia. Avrebbe anche potuto collegare il Kosovo con altre economie complementari della regione e consentirgli il libero accesso ai porti di Salonicco e Durazzo. Invece, i comunisti locali si rivolsero alle “vie nazionali al socialismo”, aprendo la strada alla restaurazione del capitalismo e dell’intolleranza nazionale nei Balcani.
La liberazione nazionale dei popoli balcanici è possibile solo attraverso la rivoluzione socialista, in cui le masse lavoratrici prendono il controllo delle loro risorse, delle loro infrastrutture e dell’industria che hanno costruito. La storia ci mostra che la rivoluzione socialista nei Balcani può avere successo solo se i lavoratori dei Balcani lottano insieme per costruirla. La logica dello sviluppo economico e sociale impone che l’ordine socialista rivoluzionario possa prosperare solo superando i confini nazionali e creando una federazione di Stati operai. Affinché una tale federazione abbia successo, è necessario che tutte le nazioni vi entrino completamente volontariamente e siano completamente uguali. Ecco perché l’organizzazione marxista Crvena sostiene il riconoscimento del diritto del Kosovo all’autodeterminazione, come precondizione per la rivoluzione socialista balcanica e l’unificazione di tutti i lavoratori balcanici nella Federazione socialista balcanica.