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di Claudio Bellotti
La questione dell’autodeterminazione nazionale si ripresenta con una importanza cruciale in paesi come la Catalogna e il Kurdistan, con forti riflessi su scala internazionale. È quindi indispensabile ritornare su questo punto, in particolare per la enorme confusione mostrata dalla sinistra su questo punto.
Il diritto dall’autodeterminazione significa il diritto di qualsiasi nazionalità a costituire, se lo desidera, un proprio Stato indipendente, il diritto a rifiutarsi di vivere all’interno di uno stesso Stato con altre nazionalità. È un diritto democratico basilare, che si è storicamente affermato nel periodo dell’ascesa del sistema capitalista, che ha in larga parte coinciso con la formazione degli Stati nazionali.
Tuttavia questo diritto, a quanto pare, solleva sempre più obiezioni nella sinistra. Vediamone alcune.
Un internazionalismo astratto
Prima obiezione: non dobbiamo sostenere il nazionalismo, lo sviluppo della società non richiede nuove frontiere ma piuttosto che le frontiere esistenti vengano superate, che l’umanità possa scambiare liberamente prodotti, idee, culture.
Potremmo definire questa posizione quella di un internazionalismo astratto nella migliore delle ipotesi, ipocrita nella peggiore.
Il nostro obiettivo è indubbiamente quello di una pacifica mescolanza e fusione delle diverse culture nazionali, traendo da ciascuna il meglio per sviluppare un livello superiore nello sviluppo dell’umanità. Questo processo ha una base oggettiva potente nello sviluppo dell’economia mondiale, della divisione internazionale del lavoro, che ha messo in contatto diretto tutte le parti del pianeta creando un unico mercato mondiale.
Ma c’è il rovescio della medaglia: la libera circolazione di merci e capitali non significa affatto il superamento delle diseguaglianze. Al contrario, queste si sono precisamente esasperate proprio nei decenni del cosiddetto neoliberismo, comprese le diseguaglianze politiche, territoriali e nazionali.
Dire che “siccome” il libero commercio tende a superare i confini nazionali, “allora” l’autodeterminazione è regressiva sul piano economico significa, né più né meno, chiedere al grande capitale di portare l’eguaglianza e la libertà nel mondo.
Questo è tanto più assurdo nell’epoca attuale, ossia durante la più profonda crisi che il capitalismo mondiale abbia mai conosciuto.
Un diritto borghese?
Seconda obiezione: l’autodeterminazione è un diritto borghese, poteva avere un significato progressista durante la fase ascendente del capitalismo, o nella lotta contro il colonialismo, ma oggi diventa irrilevante se non reazionaria.
Ma seguendo la stessa logica non dovremmo forse abbandonare la difesa, ad esempio, del diritto di voto, della libertà di stampa o del diritto al divorzio, in quanto tutti diritti “borghesi”? Criticare la natura limitata e ipocrita di questi diritti all’interno del capitalismo non significa certo rinunciare alla loro difesa. Al contrario, dobbiamo spiegare che solo rovesciando questo sistema economico ingiusto questi diritti possono assumere un carattere realmente universale. Questo argomento falsamente classista (“conta solo la lotta contro il capitale, non quella per i diritti democratici”) è completamente sbagliato anche dal punto di vista della più elementare unità della classe lavoratrice. Ad esempio, rivendicare i diritti di cittadinanza dei lavoratori immigrati significa rimuovere un forte elemento di ricatto e di divisione all’interno della classe operaia, facilitandone l’unità e quindi l’organizzazione e la lotta.
Queste obiezioni di natura settaria alla difesa del diritto di autodeterminazione si basano su una sostituzione meccanica di un problema politico concreto (la diseguaglianza fra nazionalità) con un concetto economico giusto (lo Stato nazionale è economicamente obsoleto) ma privato di ogni contenuto concreto.
Le obiezioni dei riformisti
Diverse sono le posizioni che emergono dal campo riformista.
Proporre l’autodeterminazione, si dice, significa aprire la strada a conflitti sanguinosi e pulizie etniche. La rivendicazione deve essere quella di garantire i diritti delle diverse nazionalità ed etnie all’interno di uno stesso Stato.
Questa tesi è stata rilanciata in questi anni con la teoria “confederalismo democratico” propugnata dal leader curdo Öcalan, che ha avuto vasta eco a sinistra. Nei primi anni 2000 il dirigente del Pkk ha abbandonato la parola d’ordine dell’autodeterminazione in favore della costruzione di autonomie curde all’interno degli Stati esistenti (Turchia, Siria, Iran, Iraq). Questa idea si è dimostrata utopica precisamente dove pareva avere ottenuto il maggiore successo, ossia nel Rojava. Ogni ipotesi di autonomia, di graduale dissolvimento degli Stati, ecc. è andata tragicamente in frantumi e oggi il movimento curdo è costretto a fare i conti con una sconfitta drammatica (per una analisi approfondita rimandiamo all’articolo di Franco Bavila: Da dove ripartire dopo la fine del Rojava? su www.marxismo.net).
Fintanto che esiste una classe dominante che ha interesse ad opprimere altre nazioni, il problema non sarà risolto. Fintanto che questa classe controlla l’apparato statale, la questione nazionale non può essere affrontata se non sulla base del diritto all’autodeterminazione.
Il punto è inaggirabile: negare a una nazione oppressa il diritto di formare uno Stato indipendente, significa dire a quella nazione che deve accettare di vivere all’interno degli Stati esistenti. In altre parole significa difendere la posizione che gli Stati sono qualcosa di immutabile, intoccabile e definito per sempre, e non il risultato di determinati processi storici.
Del resto, sul piano politico la caratteristica essenziale del riformismo è precisamente quella di considerare lo Stato (incluse quindi le sue frontiere) come qualcosa di immutabile e sacro, che può essere modificato solo con il consenso della classe dominante.
Autonomia o autodeterminazione?
La convivenza tra diverse nazioni in uno stesso Stato può essere duratura solo se si fonda su una effettiva uguaglianza di diritti, e questa comprende necessariamente anche il diritto all’autodeterminazione.
Facciamo un paragone semplice col diritto al divorzio. Noi difendiamo la piena parità di diritti fra i coniugi. Tuttavia questa non può sostituire o negare il diritto a divorziare.
E se qualcuno dicesse “in fondo questa donna ha gli stessi diritti legali di suo marito, ha il proprio conto in banca e può uscire la sera quando le pare, quindi è libera e la sua richiesta di divorzio è incomprensibile”, questo qualcuno sarebbe solo un ipocrita che parla di eguaglianza, ma nei fatti si schiera dalla parte del più forte.
Si aggiunga che ciò che è vero oggi può non esserlo più domani. La crisi del capitalismo ha fatto riemergere la questione nazionale anche in aree del mondo dove questa pareva storicamente risolta. Lo testimoniano i casi della Scozia o della Catalogna, solo per citare i più recenti.
La rivendicazione indipendentista in entrambi i casi ha dato una forma, distorta quanto si vuole, ma potente, a una opposizione al regime politico, ai partiti tradizionali, al governo e in ultima analisi alla classe dominante. Parte non secondaria di questo processo è stato il fallimento totale della sinistra riformista quando questa ha governato, spingendo le masse a cercare altre strade. “Qualsiasi partito abbia governato a Madrid (o a Londra), da decenni non ha fatto che tradire le promesse e servire solo gli interessi del capitale. Se è così, allora da questo Stato vogliamo andarcene, non crediamo più che si possano cambiare le cose al suo interno”. Questo è il sentimento che ha creato una base di appoggio fra vasti settori di giovani e di lavoratori per i movimenti indipendentisti.
L’esempio catalano
Il caso della Catalogna lo illustra chiaramente. Negli anni recenti il messaggio proveniente dai poteri costituiti è stato chiaro e provocatorio: non avrete mai l’indipendenza, avrete solo quell’autonomia che Madrid è disposta a riconoscere, e il referendum che chiedete non si terrà, né ora, nè mai. Il referendum organizzato dal governo catalano nel 2017 fu dichiarato illegale, con la polizia scatenata nelle strade, centinaia di fermi e di arresti, accuse di sovversione e terrorismo, una pesante campagna mediatica anti catalana e, più di recente, un processo politico che ha inflitto pesanti condanne ai dirigenti indipendentisti. Le speranze dei nazionalisti borghesi catalani di una trattativa pacifica, o addirittura di un appoggio alla loro causa da parte dell’Unione europea (!), sono andate in frantumi nello scontro frontale tra il movimento di massa per l’indipendenza e il nazionalismo spagnolista della destra. Per questo oggi il movimento indipendentista assume il carattere di una contestazione dell’intero “regime del ‘78”, ossia del sistema istituzionale – monarchia inclusa – ereditato dalla transizione dopo la dittatura franchista, che fra i suoi crimini annoverò anche la brutale negazione dei diritti nazionali dei catalani e dei baschi.
In questo conflitto, i socialisti si sono schierati anima e corpo con lo Stato centrale, la monarchia e la repressione, mentre Podemos pur protestando contro la repressione, ha sostenuto tutto e il contrario di tutto attestandosi poi sull’idea del “referendum pactado”, ossia concordato con Madrid. Il suo leader Iglesias ha ripetuto come un disco rotto che “prima o poi il referendum si farà”: una promessa completamente vuota, e che come tale è stata vista in Catalogna, dove Podemos era arrivata ad essere il primo partito nel 2015 col 25 per cento dei voti, mentre oggi è il terzo e si ferma al 14. L’internazionalismo “platonico” di Iglesias ha quindi contribuito ad approfondire quella divisione nazionale che voleva combattere.
Autodeterminazione e socialismo
Questo non significa sostenere automaticamente e indiscriminatamente qualsiasi rivendicazione separatista. Bisogna saper valutare concretamente quale classe conduce questa lotta, con quali finalità, in che rapporto con la lotta di classe su scala nazionale e internazionale.
La frantumazione della Jugoslavia fu un atto criminale e reazionario da tutti i punti di vista, che non a caso fu sostenuto da tutte le potenze imperialiste a partire dalla Germania che la vedevano come un modo per prendere il controllo dei Balcani, come in effetti avvenne.
Viceversa nel caso della Catalogna o della Scozia, così come del Kurdistan (al di là delle lacrime di coccodrillo quando Erdogan ha attaccato il Rojava) tutta la classe dominante a livello mondiale si è schierata violentemente contro il diritto all’autodeterminazione. Il motivo è chiaro: percepivano chiaramente quei movimenti come una minaccia diretta al loro potere economico e politico, e dal loro punto di vista avevano pienamente ragione.
Al di là delle frasi sulla necessità di “combattere il nazionalismo”, i riformisti non fanno altro che difendere lo status quo. La loro paura è la stessa della borghesia, ossia che il movimento delle nazioni oppresse possa mettere a rischio l’intero potere della borghesia.
Sotto il capitalismo non ci sarà mai una effettiva eguaglianza e libertà, non solo per gli individui ma neppure per i popoli. Le divisioni nazionali, religiose, etniche vengono anzi esasperate in questa epoca di crisi.
La soluzione può venire solo da un governo dei lavoratori che espropri le principali risorse economiche e avvii la transizione a un sistema socialista. Ma questo non esclude, anzi rende necessario che il programma rivoluzionario comprenda la rivendicazione dell’autodeterminazione come prova tangibile e concreta che la promessa di pari diritti non è solo una bella frase, ma contiene una precisa garanzia.
Questo non vuole dire lottare per stati etnicamente puri, anzi si potrebbe definire una parola d’ordine difensiva. Vuole dire semplicemente che i lavoratori della nazione dominante prendono un impegno trasparente con la nazione oppressa: noi vi garantiamo che in una – Spagna, Turchia, Gran Bretagna, ecc… – in cui governi la classe lavoratrice i vostri diritti, la lingua, la religione, la cultura verranno pienamente rispettati. Ma se questa promessa non è sufficiente, se non esiste la fiducia necessaria, allora garantiamo e difendiamo il diritto a che esista uno Stato – catalano, basco, scozzese, curdo – dove la vostra nazione sia maggioritaria, e i cui confini saranno democraticamente decisi in base alla libera espressione delle popolazioni, in uno sforzo di ridurre al minimo i conflitti.