La rivolta del Luglio 1960
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7 Gennaio 2019Una nuova testimonianza da Parigi
Un nuovo resoconto di Mirko Termanini, un compagno di Sinistra classe rivoluzione recatosi nelle scorse settimane in Francia per prendere parte alle mobilitazioni dei gilet gialli.
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Ho raggiunto la manifestazione di sabato 22 alle 3:00 di pomeriggio circa, confuso da una generale mancanza di informazioni e coordinazione online sul luogo e le tempistiche dell’iniziativa.
Ci sono andato da solo con poco più che l’idea di assistere a quella che doveva essere la pagina conclusiva dell’inverno caldo francese. Dire che sono rimasto colpito del contrario è quanto di più eufemistico possa raccontare.
L’impressione avuta inizialmente è stata piuttosto demoralizzante. A colpo d’occhio non contavo più di qualche centinaio di persone. A giudicare dall’intensità (e dal vestiario) si trattava sicuramente delle frange più politicizzate, uno zoccolo duro rumoroso e demograficamente vario ma decisamente incomparabile ai numeri oceanici di solo qualche settimana prima.
L’umore diffuso era quasi più simile a quello di una marcia commemorativa che a quello di un effettivo, nuovo atto di protesta. Benpensanti, turisti spaesati e signorotte strette nella pelliccia ci guardavano dai marciapiedi con lo stupore infantile di chi assiste a una strana parata di animali esotici.
Ho notato subito, a differenza di molti “casual” del weekend scorso, un’attrezzatura pesantemente “militarizzata” tra i gilet. Lungo tutta la via, su decine e decine di agitati, ero praticamente l’unico a non indossare maschere a gas, occhiali protettivi e borracce a tracolla. Un ragazzo mi ha persino chiesto stupefatto come mai non fossi venuto “protetto”. Si può dire che a bombardarle di lacrimogeni le masse imparano in fretta.
Raggiunto l’Arco di Trionfo l’atmosfera si è progressivamente surriscaldata. Il traffico sulla rotonda attorno al monumento è stato paralizzato praticamente per tutto il pomeriggio. Da alcune vetture gli autisti gesticolavano esaltati e clacsonavano a ritmo dei cori (quando non spegnevano direttamente l’auto per sbucare dal tettuccio e agitare i propri gilet). Attraverso altri finestrini gli sguardi tendevano meno caldamente alla simpatia, ma d’altronde non si può sempre avere tutto nella vita.
Dopo un’oretta di crescente aggregazione, durante la quale un manipolo di una ventina di agenti della gendarmeria ha retto come poteva in formazione sotto le arcate del monumento, circondati e coperti da una pioggia continua di insulti, rifiuti e bottiglie, altre due fiumane di gilet sono confluite una dopo l’altra accolte e festeggiate da eruzioni da stadio.
Il tempismo del loro arrivo ha fatto da catalisi per gli umori generali, elevando la situazione da un mezzo canto del cigno a un’esaltazione collettiva a dir poco infiammata. Un’aria elettrica che, settimana scorsa, vista la dinamica discontinua e sfibrata della manifestazione e del suo svolgersi frammentato, non ho avuto realmente occasione di cogliere.
A questo punto, tra le 5:30 e le 6:00 circa, nuovamente, non si trattava più soltanto di nostalgici e attivisti del primo pomeriggio. Ancora una volta mi sono trovato circondato da ogni tipo di persone senza distinzioni di età, colore e provenienza, dallo studente liceale al pensionato, dal giornalista indipendente al lituano in Erasmus. Le voci, malgrado l’ovvia maggioranza francese, oscillavano dall’inglese allo spagnolo, dall’arabo al tedesco. Giusto per non farsi mancare nulla arrivavano di tanto in tanto perfino saltuari frammenti di italiano.
Soltanto questo sabato ho potuto toccare con mano quanto quello dei gilet gialli realmente sia un movimento dall’identità internazionale in rapida espansione. Un ragazzo belga mi ha raccontato di un pullman soltanto della sua città venuto a Parigi per l’occasione; simili le testimonianze di una famiglia di turchi e di due sposi libanesi.
Forti di una ritrovata sicurezza numerica (moltiplicata di sei o sette volte rispetto al momento del mio arrivo) e di un morale a fatica ricostruito, il corteo ha deciso quindi di muoversi.
In questa occasione è emerso il primo, grave limite politico del movimento. Naturalmente tra le macchine bloccate quelle a concentrare una certa attenzione tra i gilet erano quelle considerate di maggior “lusso”. E non si parla nemmeno di auto sportive (nessun disgraziato sano di mente girerebbe in centro con una Ferrari in giornate come queste), ma anche solamente di qualche vettura una spanna o due sopra il livello di un’utilitaria.
Certamente per un manifestante anche spoliticizzato, magari vicino alle cause dei più disagiati, magari in contatto diretto con chi è costretto alla fame e alle umiliazioni della miseria, il benessere ostentato da terzi non può che essere elemento di frustrazione e indizio di ingiustizia sociale. E con questa rabbia, seppur grezza e confusa, un marxista non può che empatizzare al massimo delle sue forze, essendo essa il carburante primo ad accelerare il motore del cambiamento sociale, sia nella coscienza di un individuo, sia più macroscopicamente in seno a quella di un’intera classe.
Tuttavia è anche vero – sarà banale, ma non bisogna stancarsi di ripeterlo – che il proprietario di una bella macchina non è automaticamente il CEO di un’importante multinazionale.
Nella mente di un rivoluzionario una fotografia chiara e trasparente dei meccanismi che regolano la distribuzione dei beni e delle risorse deve avere l’assoluta priorità su una dimensione di invidie e sfoghi a carattere puramente individuale, nemmeno quando si riesce a convincersi che il messaggio in grado di trasparire da questo genere di azioni possa effettivamente portare a una qualche forma di cambiamento.
Da una parte perché rigare o ammaccare le portiere (come è successo più volte davanti a me sotto l’Arco durante il blocco stradale) non porta effettivamente a nulla, se non a un maggiore frazionamento politico interno del movimento. Un frazionamento che va a sommarsi a un allontanamento della piccola borghesia, che nei momenti più concitati della lotta di classe finirà irrimediabilmente, anche a distanza di anni e anni, col ricordare e propagare a conoscenti e familiari, a discapito di tutte le rivendicazioni dei lavoratori, soltanto l’inutilità e la gravità del torto subito.
Dall’altra perché questo tipo di gesto è carne per gli squali di regime. Le televisioni e i giornali della Reazione non attendono altro che simili avvenimenti per riempire le testate e dipingere l’interezza degli attivisti come una manica di criminali perdigiorno. E se è vero che per forza di cose, con tutti i mezzi a disposizione, gli agenti di Macron hanno fino a questo punto fatto un ottimo lavoro nell’infiltrare e screditare a più livelli la venuta del movimento, di episodi genuini di inutile danno (pubblico e privato) tra le schiere dei manifestanti effettivamente non si può dire che ne siano mancati.
Vetrine sfondate, fermate dell’autobus devastate, cantieri divelti, infrastrutture di ogni genere spazzate via come dopo un’alluvione, negozi saccheggiati, addirittura opere d’arte minori rubate (mi è parso di capire) dalla fermata della metro del Louvre. Fare la discesa degli Unni non è giocare alla rivoluzione, specialmente quando a farlo sono ragazzi di buona famiglia che di un pasto gratis o di una maglietta in più non hanno davvero bisogno.
L’opinione pubblica durante momenti focali come questi conta molto di più che il microscopico, presunto danno fatto a una grande marca di distribuzione, quelle rare volte nelle quali quel danno non viene invece direttamente calato sulla testa dei piccoli commercianti che magari la settimana prima manifestavano al tuo fianco.
Un medioevo di disilluso revisionismo rischia di impadronirsi del ricordo di questa stagione di proteste nella coscienza collettiva, sempre più diffidente e allontanata dalle seppur inneggiate rivendicazioni per colpa degli inutili eccessi di una generazione dai grandi ideali, dal cric facile e da un’acida intolleranza verso il sistema che non conosce né direzione né un approfondimento di contenuti vero e proprio.
Poi è chiaro, la realtà è sempre un bilanciamento dinamico di opposti e contrari. Non sono mancati episodi completamente inversi a quanto descritto, come un cordone di gilet sui 40 anni che, durante la marcia dei Campi Elisi, si sono disposti in segno di protezione attorno a una volante della polizia travolta dalla folla al suono delle grida “Lasciateli stare, sono come noi, presto o tardi capiranno, stanno solo seguendo degli ordini per sfamare le loro famiglie, siamo tutti sulla stessa barca”. Episodi controversi e degni di indagine, comunque lontani anni luce dal crescente vandalismo.
Il secondo limite del movimento, un classico intramontabile per questi fenomeni emersi dal basso e cresciuti eterogeneamente senza alcuna forma di centralismo, è chiaramente quello di un’omicida assenza di organizzazione.
Una disorganizzazione generale che è emersa fortemente come elemento centrale di dubbi e angosce anche nell’assemblea di due giorni prima a Saint Denis, giusto per aprire una breve, necessaria parentesi anche sulla situazione studentesca.
Si tratta di un’università fortemente proletaria a nord della città, una di quelle maggiormente scosse dalla recente sovra-tassa per gli studiosi extra-europei, vista la schiacciante maggioranza di studenti di origine straniera.
Proprio in quell’assemblea, oltre alle sempreverdi proposte giovanili di assemblare un collettivo artistico in grado di sensibilizzare ai media le richieste del movimento studentesco (ad esempio, intervistando studenti e professori per documentarne il disagio), è emersa chiara e lampante una fame aggressiva di contenuti.
La fame di una direzione politica chiara, di una piattaforma capace di coordinare e rendere più efficaci gli interventi e le azioni dei vari distretti universitari, di pacificare le divisioni e le confusioni tra i vari schieramenti e di sintetizzarne gli sforzi in una linea d’azione organica ed omogenea.
Secondo una signora sulla quarantina presente sugli spalti, forse una docente, non ci sono “abbastanza slogan, idee e partiti a cui fare riferimento o con cui confrontarsi”. Intervento al quale, malgrado un terrore iniziale annichilente, ho trovato modo di far seguire un’introduzione alla nostra Tendenza, ai suoi metodi e ai suoi fini (grazie a un’interprete che scandiva drammaticamente ogni frase nel silenzio perplesso generale, giusto per aiutare fantozzianamente la mia timidezza).
Ho fatto il possibile per sottolineare l’importanza degli eventi studenteschi in chiave di una lotta di classe, slegandoli da una visione periferica e inserendoli nel contesto di un conflitto più ampio e generalizzato. Ho quindi fatto passare con faccia di tolla un foglietto-contatti alla quale hanno risposto ben 26 e-mail.
I ragazzi esigono, insomma, una struttura politica e sociale capace di far convergere gli sforzi studenteschi a quelli dei lavoratori tra i gilet gialli: convergenza per la quale, si sono proposti alcuni, sarà necessario organizzare delle assemblee straordinarie nelle università durante il periodo natalizio per aprire un dialogo coi gilet.
Tornando invece alla manifestazione di sabato.
Per carità, qualche forma di coordinamento interno è stata anche abbozzata. Nulla tuttavia che superasse lo sbraitare al megafono di qualche strillone sulle spalle del compagno. Un’immagine indubbiamente romantica (della quale, ovviamente, non mi sono fatto mancare qualche foto ricordo) ma che lascia quell’amaro in bocca tipico per chi assiste ad enormi spinte sociali evaporare sulle braci della pressione armata e dell’urgenza di una visione tattico-strategica uniforme.
Esempio centrale degno di uno studio sulle catastrofi militari è avvenuto poco dopo la partenza del corteo unificato dall’Arco di cui sopra. Un errore madornale e imperdonabile che ha effettivamente posto fine alla “giornata”.
Gremita e all’apice del suo momentum, la colonna umana ha percorso l’interezza dei Campi Elisi invadendo la strada da parte a parte, raccogliendo partecipanti dalle auto (alcuni addirittura han mollato tutto, girato le chiavi e lasciato il volante lì dov’era, scendendo direttamente per partecipare) e respingendo più e più volte con tenacia e spirito di sacrificio tentativi laterali di incursioni di forze ridotte della polizia.
(Spicca al riguardo il video online di un poliziotto che, sopraffatto da un momento di tensione in una di quelle laterali, ha puntato una pistola su un manifestante.)
È stato a quel punto che il corteo, forte di centinaia e centinaia di persone, è rimasto imbottigliato sul finire della grande via, circondato di fronte e di dietro da due avamposti corazzati della gendarmeria, comunque lontani tra loro e in schiacciante inferiorità numerica.
A questo punto le alternative per i gilet erano chiaramente due.
Come prima cosa, sarebbero potuti rimanere immobili dove stavano aspettando “pacificamente” la carica della polizia. Gli agenti non avrebbero potuto fare nulla di concreto. Anche se ci avessero provato le immagini in rete, centrali e ben inquadrate da troppe angolazioni, dai negozi e dagli appartamenti da cui decine di flash stavano da minuti già filmando preventivamente il tutto, avrebbero ottenuto il solo effetto di screditare ulteriormente gli ordini di Macron. L’Eliseo non avrebbe potuto permettersi la visibilità esagerata che avrebbe guadagnato un simile, plateale gesto di repressione. Non quando sotto gli scudi e i manganelli sarebbero finite centinia di persone comuni, sparpagliate nel ceto e nell’età, e non di certo il solito gruppetto isolato di anarchici violenti contro cui scagliarsi retoricamente nei Tg.
Oppure, seconda scelta, i gilet avrebbero potuto proseguire la marcia in UNA delle due laterali, cercarsi un varco verso il resto della città e mantenere la superiorità incontestabile che solamente migliaia di manifestanti tutti assieme sanno mantenere.
Ovviamente, invece, è stata presa la terza alternativa: quella della disorganizzazione e della mancanza di comunicazione. Il movimento si è diviso in due spezzoni contrapposti – non so se nella vaga speranza di ricongiungersi più avanti – incitati a gran voce in una scena tragicomicamente speculare dai rispettivi compagni che, in piedi sulle panchine opposte ai due lati della strada, sulle imboccature delle due piccole laterali, gridavano entrambi l’uno sull’altro “No, di qua, passiamo di qua”.
Solamente una manciata di attivisti, tra cui mi son buttato anch’io col mio maccheronico, inutilissimo francese, facevano la spola tra una stradina e l’altra per cercare di fermare e coordinare le fiumane. È stato come cercare di raccogliere il mare con un cucchiaino.
Il tutto avveniva con la naturalezza di una passeggiata serale. Nessuno sembrava nemmeno voltarsi indietro, nessuno pareva capire che in quel preciso istante tutto il lavoro di aggregazione delle ore precedenti stava andando a farsi benedire. A nulla è servito il gesto di una cinquantina di gilet coraggiosi col viso protetto che si sono disposti come un cordone di fronte alla polizia per permettere ai compagni sulle retrovie di “organizzarsi”.
Naturalmente la gendarmeria ha impiegato pochi minuti a sgomberare i pochi coraggiosi rimasti nei Campi Elisi e a tappare i manifestanti in entrambe le laterali. Da lì è stato come il gatto che gioca col topo. I manganelli ci hanno messo in fuga, poi sono arrivati i gas urticanti. Personalmente è stata la prima volta nella mia vita.
La gente perdeva di vista i propri amici, inciampava, faceva cadere i propri affetti personali per non finire calpestata dalla folla. Io stesso ho perduto un’agenda, le cuffiette e qualche banconota. Il tutto sotto un’interminabile pioggia arancione di fumogeni: una sensazione avvolgente di panico e soffocamento che non augurerei al peggior nemico. Quando riuscivi a trovare un’insenatura laterale non potevi riparartici poiché già straripava di gente, appoggiata ai muri scossa dai conati, con le mani alla gola e gli occhi gonfi, rossi e lucidi come un peperone.
Tempo neanche un’ora dalla partenza del corteo quell’ondata interminabile di energia popolare è stata frammentata per le arterie del centro storico, strette e labirintiche quel che basta per disperdere una massa in corsa alla deriva più incontrollata.
È in quei momenti di fuga e riflusso di puro individualismo da sopravvivenza, con le bombe carta sotto i piedi e i furgoni della polizia costantemente alla calcagna, che ho assistito alle più degradanti scene di vandalismo dell’intera giornata.
Oltre alle bottiglie sulle vetrine e ai sassi sulle balconate, ormai poco più di un collaudato cliché, spiccava un ragazzo di colore (spalleggiato da un gruppo di ragazzi dall’aspetto poco raccomandabile) che, grosso come un armadio e visibilmente alterato, avrà spaccato un qualcosa come una dozzina di finestrini di automobili, uno dopo l’altro, coi resti arrugginiti di una marmitta rubata chissà dove. Io e una coppia di fidanzati catalani abbiamo finito, non si sa dietro a quale delirio di coraggio, con lo strappargliela di mano, cominciando un alterco che stava per precipitare in un ennesimo vortice di violenza (siccome il bestione non parlava inglese e nessuno di noi 3 sapeva spiegargli in francese il perché del nostro gesto). Quest’inizio grottesco di barzelletta è fortunatamente durato poco non appena, paradossalmente, la ressa e la carica della polizia ci hanno salvati dalla vendetta alcolica del ragazzo e della sua gang.
Lascio Parigi con uno strano senso di nostalgia. Il lavoro politico sarà ancora tremendamente lungo e tortuoso. I compagni di Revolution, la sezione francese della Tendenza marxista internazionale, hanno davanti a sé una responsabilità che ha il peso di un macigno. Le condizioni materiali sono mature: a fare la differenza, adesso, deve essere il valore aggiunto della nostra organizzazione.
I lavoratori e gli studenti sono tremendamente furiosi e pronti a una lotta all’ultimo sangue. Lo testimoniano i numeri dopotutto mai calati nonostante i boicottaggi, i blocchi e la disinformazione. La repressione borghese ha scavato, un sabato dopo l’altro, un solco incolmabile tra la classe lavoratrice e i suoi padroni. Le masse sono spaventate, confuse e divise da una propaganda puntuale e spietata, ma sanno rivelarsi anche pronte ad ascoltare, dibattere ed organizzarsi.
Le parole d’ordine devono essere, senza ombra di dubbio, la convergenza e l’organizzazione pianificata delle lotte. Ora più che mai la Francia intera ha bisogno di un piano d’azione omogeneo e coordinato. Solo il marxismo può fornire la storia, la memoria, gli strumenti da cui le masse possono emergere, conscie del proprio potenziale e ferme nella propria voglia di riscatto.
La lotta di classe non si interrompe qui: sono sicuro che anche durante le feste ne vedremo delle belle. Chissà che non faranno un bel regalo anche a Macron.