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Argentina, Turchia e debito: una bomba nelle fondamenta dell’economia mondiale

Mentre tutti gli occhi sono puntati sull’evolversi della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, un’altra crisi nell’economia mondiale rischia di andare fuori controllo. Da aprile, Argentina e Turchia hanno visto il crollo delle rispettive valute e una spirale inflazionistica. Anche altre cosiddette economie emergenti come Indonesia, India, Brasile e Sudafrica subiscono pressioni simili.

La settimana scorsa, la Banca Centrale dell’Argentina è stata costretta ad alzare i tassi di interesse al livello record del 60% per fermare il crollo del peso, che in due giorni ha perso il 12% del suo valore rispetto al dollaro. Avendo speso la maggior parte delle riserve valutarie per difendere il peso, il governo del presidente Mauricio Macri ha dovuto supplicare il FMI di accelerare l’approvazione di un pacchetto di salvataggio del valore di 50 miliardi di dollari.

L’ultimo ribasso del peso arriva al culmine di un declino continuo, che da aprile ha visto la valuta perdere oltre il 50% del suo valore rispetto al dollaro. Allo stesso tempo, l’inflazione è cresciuta di oltre il 30%. L’instabilità che ne deriva sta approfondendo la crisi economica, portando a un’ulteriore fuga di capitali.

 

La crisi in Turchia

Una situazione simile si sta sviluppando in Turchia, dove la lira ha perso il 40% del suo valore rispetto al dollaro nell’ultimo anno, con un’inflazione che ha raggiunto il 18%. Lunedì scorso, per fermare la caduta libera della lira, la Banca Centrale turca ha annunciato un aumento del 6,25% del tasso di interesse, facendolo salire al 24%. Ma dopo una breve stabilizzazione, la moneta ha continuato a deprezzarsi.

Dal 2002 al 2008 l’economia turca si è sviluppata rapidamente. Utilizzata come sorgente inesplorata di manodopera a basso costo ai confini dell’UE, l’economia turca è cresciuta rapidamente in seguito al boom pre-2008 in Europa. Il Pil turco è quasi quadruplicato (triplicato se aggiustato con l’inflazione) dai 200 miliardi di dollari del 2001 a 764 miliardi di dollari del 2008. Ma la crisi economica mondiale del 2008 ha interrotto questa crescita e l’anno successivo si è assistito a una contrazione dell’economia turca simile a molti altri paesi. Da allora, per mantenere alti livelli di crescita, l’economia è stata sempre più dipendente dai capitali speculativi e dal credito a basso costo proveniente dai paesi occidentali.

Solamente le banche turche sono passate da un debito estero netto pari a zero nel 2008 a 100 miliardi di dollari oggi. Ogni mese scadono 6-9 miliardi di dollari di questi prestiti. Allo stesso tempo, il governo dell’Akp si è imbarcato in una frenetica corsa keynesiana alla spesa pubblica, investendo in enormi progetti nelle infrastrutture e in iniziative immobiliari per mantenere il proprio consenso politico. Oggi, il settore delle costruzioni, che impiega 2 milioni di lavoratori, ammonta al 18,7% del Pil. Secondo i dati ufficiali, alla fine del 2016, il 90% dei finanziamenti per le società immobiliari turche era basato su prestiti in valuta estera. In totale, il debito estero turco è pari al 52% del suo PIL.

Il governo dell’Akp, nel disperato tentativo di mantenere la sua base elettorale, ha alimentato il fuoco, finanziando a deficit enormi progetti. Nel periodo che ha preceduto le ultime elezioni, ha utilizzato il Credit Guarantee Fund, un condo creato in maniera specifica per garantire miliardi di dollari di prestiti nel settore privato. Allo stesso tempo, la classe dominante ha promosso un’enorme crescita del credito tra le masse, portando il debito delle famiglie da circa il 2,5% del Pil nel 2014 al 17,3% nel 2017. Il governo di Erdogan pensava che avrebbe potuto usare il credito come via d’uscita dalla crisi e per mantenere a galla l’economia inondando il mercato con credito a basso costo. Ma come sempre, il debito prima o poi deve essere ripagato con gli interessi. Di conseguenza, la lira è stata svalutata causando un forte calo dei mercati valutari e un’alta inflazione interna. Con riluttanza, il governo è stato costretto ad accettare enormi aumenti dei tassi d’interesse per evitare una spirale inflazionistica incontrollata e un crollo della valuta.

La situazione non poteva che peggiorare data l’elevata dipendenza della Turchia dalle importazioni di beni primari come l’energia e l’acciaio, dei quali ha importato al ritmo di 8 miliardi di dollari all’anno fino alla fine del 2017, prima che il valore della lira si dimezzasse. Ciò rende l’economia ancora più sensibile alle fluttuazioni dei cambi.

Come ciliegina sulla torta, gli Stati Uniti hanno imposto una serie di dazi sulle merci turche in un conflitto burrascoso tra due presunti alleati. Ciò ha messo in evidenza tutte le debolezze di fondo dell’economia.

In questa situazione, l’aumento del valore del dollaro significa un imminente disastro per l’economia turca. Già molte importanti società turche hanno avuto problemi a pagare i loro creditori e ora che la lira vale la metà di un anno fa, la maggioranza di queste aziende sono a rischio insolvenza sui prestiti.

 

Il “deficit gemello” in Argentina

Anche l’Argentina, come la Turchia, ha un cosiddetto “deficit gemello”. Cioè, ha un grave deficit annuale di bilancio e un deficit delle partite correnti [Ndt: le partite correnti registrano tutte le transazione di natura non finanziaria], che la rende dipendente dal credito estero. Gli investimenti esteri diretti sono triplicati, passando da 3,2 miliardi di dollari nel 2016 a 11,9 miliardi di dollari nel 2017, per un totale di oltre il 16% del Pil. Nel frattempo, lo Stato è alle prese con un deficit annuale di bilancio di circa il 5%. Questo è stato finanziato da un lato con del debito estero e dall’altra con la stampa di miliardi di pesos, con conseguente graduale svalutazione della moneta.

Ma tutto andava bene finché arrivava denaro dall’estero. Assicurati dalle promesse del governo di destra di Macri, secondo il quale i loro interessi sarebbero stati protetti, gli speculatori stranieri erano soddisfatti dalla copertura data dalla crescita del ommercio e del deficit di bilancio. Tutto andava bene, fino a quando il prezzo del dollaro ha iniziato a aumentare all’inizio di quest’anno.

Ma l’Argentina e la Turchia sono solo l’indicazione più acuta di un problema molto più profondo. Brasile, Indonesia e Sud Africa, tutte economie di una certa importanza, stanno affrontando crisi simili, anche se meno acute. Altre cosiddette economie emergenti non sono molto distanti. Sedici di questi paesi hanno accumulato 3,4 mila miliardi di dollari di debito estero. Le loro riserve valutarie tuttavia ammontano solamente a 1,3 mila miliardi. La maggior parte di queste riserve sono anche fortemente dipendenti dal credito a basso costo e da un valore stabile del dollaro.

In totale, in questi “mercati emergenti”, il debito tra il settore privato non bancario è aumentato drasticamente dal 2008-09, raggiungendo oggi il 129% del Pil. Allo stesso tempo, con politiche monetarie espansive hanno progressivamente deprezzato le loro valute. Negli ultimi cinque anni, le valute di Argentina, Ucraina, Egitto, Turchia e Brasile sono diminuite rispettivamente dell’80,3%, del 69,0%, del 60,9%, del 60,5% e del 42,5% rispetto al dollaro.

La Rupia indiana è sulla stessa strada, avendo perso negli ultimi 12 mesi il 13,50% del suo valore rispetto al dollaro, raggiungendo un minimo storico. Nel frattempo, i tassi di interesse sulle obbligazioni emesse dal governo hanno raggiunto l’8,19% perché gli investitori sono meno disposti a prestare denaro allo stato in quanto hanno una minor fiducia che questi saranno rimborsati. L’economia indiana, la sesta più grande del mondo, si trova in una situazione di debolezza e un dollaro in aumento, che colpisce importazioni cruciali come il petrolio, potrebbe avere un effetto disastroso, portando a una spirale viziosa verso il basso.

 

Una crescita costruita sulla sabbia

Sulla carta, l’economia mondiale sembra andare benissimo. Il Pil mondiale è destinato a crescere del 3,9% nel 2018, i dati sulla disoccupazione sono diminuiti rispetto allo scorso anno e l’indice Dow Jones nella borsa di New York è al livello più alto di sempre. Eppure, a 10 anni dal crollo di Lehman Brothers e dalla crisi finanziaria globale, si profila all’orizzonte una crisi di inedite proporzioni.

La classe dominante ha trovato un modo per uscire dalla crisi del 2008 portando avanti l’austerità e abbassando i salari, mentre simultaneamente pompava migliaia di miliardi di dollari di credito a buon mercato nel sistema. Il tasso di interesse degli Stati Uniti si attestava allo 0,20% – un minimo storico. I tassi di interesse erano così bassi, che non rivolgersi al credito era un cattivo affare per i grandi capitalisti. Ma lungi dal risolvere la crisi del capitalismo, queste misure hanno solo preparato crisi molto più grandi nel futuro.

Il debito mondiale totale si attesta oggi a 217 mila miliardi di dollari, ovvero il 327% del Pil mondiale: il più alto nella storia. Ma molto poco di questo denaro è stato investito effettivamente nella produzione. In realtà, i tassi di investimento non sono mai stati così bassi dagli anni ’60. Invece, il denaro che ha inondato l’economia mondiale ha creato bolle inflazionistiche in diversi settori come l’edilizia e le borse.

Il credito a buon mercato ha salvato la classe capitalista, ma non ha risolto nulla di fondamentale. Un grave problema che ne deriva è il nuovo sottobosco di “società zombie” che ci sono in tutte le economie avanzate. Queste sono aziende che fanno meno profitti rispetto agli interessi che devono pagare sui loro debiti. Sono state tenute in vita solo grazie ai crediti a basso costo. Negli Stati Uniti, il 10% di tutte le aziende rientra in questa categoria.

Se i tassi di interesse salgono al di sopra del 2% (si prevede che raggiungano il 3% entro il 2020), aziende statunitensi per un valore di 2,3 mila miliardi di dollari diventerebbero società zombie. La Bank for International Settlements stima che la percentuale di società zombie in sei grandi economie dell’eurozona, tra cui Germania, Francia e Spagna, sia salita dal 5,5% del 2007 al 10% oggi. Altre indagini indicano che la percentuale in Italia e Spagna è triplicata in un decennio.

Le “economie emergenti” non sono molto diverse in quanto sono, da un punto di vista capitalistico, economie insostenibili che sono state tenute a galla dal credito a basso costo. Mentre i livelli di debito nelle economie avanzate sono cresciuti del 20% dal 2007 al 2016, sono cresciuti del 280% nei mercati emergenti! In effetti, un’enorme percentuale della crescita mondiale dopo il 2008 proviene dai “mercati emergenti”. Nel 2016, i sette principali paesi spesso nominati come mercati emergenti hanno rappresentato 1 punto percentuale in una crescita economica mondiale del 2,4%. D’altra parte, i paesi del G7 hanno contribuito solo a 0,7 punti percentuali.

Se la Federal Reserve potesse continuare a stampare denaro, tutto andrebbe bene, ma non può. Prima o poi ciò porterebbe a una spirale inflazionistica. In effetti, l’inflazione è passata dal -0,09% di gennaio 2015 al 2,07% di gennaio 2018 e ha raggiunto il 2,95% a luglio. Gli aumenti dei prezzi al consumo sono ai massimi dal 2011 e si prevede che continueranno a salire. Fino ad ora l’inflazione è stata moderata perché i salari degli Stati Uniti erano spinti al ribasso e la disoccupazione aumentava, ovvero la domanda era bassa. Ma nell’ultimo anno, la ripresa negli Stati Uniti ha comportato un lieve aumento del reddito delle famiglie e un calo della disoccupazione. Questo sta facendo emergere le contraddizioni accumulate dopo la crisi del 2008.

Per evitare l’inflazione galoppante, o quello che gli economisti borghesi chiamano “surriscaldamento” dell’economia, la classe dominante ha cercato di porre fine al quantitative easing (QE) e di aumentare gradualmente i tassi di interesse. La Federal Reserve statunitense ha chiuso il suo programma di QE e ora il suo tasso di sconto è pari all’1,75% e si prevede che salirà al 3% l’anno prossimo. Anche la ripresa degli Stati Uniti e l’aumento dei tassi di interesse stanno spingendo verso l’alto il prezzo del dollaro, una tendenza particolarmente forte dato che gli altri paesi del G7 stanno ancora tenendo i loro tassi di interesse ai minimi storici.

 

Il castello di carte comincia a crollare

Ciò che vediamo nelle economie emergenti sono le prime conseguenze di questo processo. Mentre il credito a basso costo si prosciuga e il dollaro sale, vengono alla ribalta tutte le debolezze di fondo di queste economie. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è stato pesantemente critico nei confronti della Federal Reserve per l’aumento dei tassi di interesse, ma il fatto è che le banche centrali hanno un margine di manovra limitato. Se non si tenesse sotto controllo tutto il denaro in eccesso stampato nel periodo precedente, questo potrebbe portare a una spirale incontrollata di inflazione e crisi che alla fine costringerebbe la Federal Reserve ad aumentare i tassi, proprio come accaduto in Turchia. In effetti, i tassi di interesse sui titoli di stato Usa e altri prestiti non controllati dalla Fed sono già aumentati. In 20 mesi, i tassi di interesse dei titoli di stato decennali statunitensi sono più che raddoppiati, passando dall’1,38% al 2,94% nel febbraio 2018, a causa dell’aumento dell’inflazione e delle aspettative di una instabilità economica crescente nel prossimo periodo.

Quello che vediamo qui sono i primi segnali del crollo del castello di carte costruito per sostenere l’economia mondiale dopo la crisi del 2008. La classe dominante pensava di poter trovare una via d’uscita alla crisi pompando miliardi di dollari nel sistema, ma ha creato contraddizioni ancora più grandi. L’economia mondiale è disseminata di materiale infiammabile – dalla crisi che sta montando nelle “economie emergenti” alle aziende zombie nei paesi capitalisti avanzati.

Ancora più importante, queste crisi incombenti avranno l’effetto di spingere la lotta di classe a un livello superiore. In Turchia, il controllo incontrastato del partito Akp non è più garantito poiché milioni di turchi vedono il loro reddito eroso dall’inflazione e i loro mutui e prestiti in aumento. In Argentina, Macri ha annunciato un pacchetto di misure di austerità pesantissimo, che quest’anno da solo varrà l’1,2% del Pil e l’1,4% per l’anno prossimo. Negli Stati Uniti e in Europa – dove la Banca Centrale Europea ha annunciato il rialzo dei tassi d’interesse per la prossima estate – i mutui aumenteranno drasticamente e milioni di posti di lavoro potrebbero essere a rischio quando il sottobosco di banche e aziende non redditizie verranno colpite dall’aumento dei tassi di interesse. Questa volta, a differenza del 2008, i capitalisti non avranno gli stessi strumenti – cioè stampare denaro e bassi tassi di interesse – per evitare una crisi. Questi strumenti sono già stati utilizzati..

Ovviamente, come è stato fino ad ora, la maggior parte della crisi graverà sulle spalle della classe operaia. Ciò spingerà i lavoratori nell’arena della lotta in un paese dopo l’altro per difendere il loro tenore di vita. Per ironia della sorte, tutto ciò avviene in un momento in cui la capacità produttiva dell’umanità è a livelli mai visti. Ma all’interno dei confini del capitalismo i mezzi di produzione non possono essere usati per uno sviluppo armonioso della società. Il capitalismo è un sistema anarchico con le proprie leggi che vanno ben oltre il controllo dell’umanità. L’unica via per uscire dall’impasse è rovesciare il sistema e sostituirlo con un’economia pianificata socialista, che può sfruttare l’enorme potenziale dell’umanità che altrimenti viene sprecato nella miseria infinita del capitalismo.

19 settembre 2018

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