25 aprile – Nel passato Resistenza, nel futuro Rivoluzione!
25 Aprile 2021Ripresa per chi? Si apre un abisso tra ricchezza e povertà
27 Aprile 2021di Alessio Marconi
Introduzione
Nella primavera del 1975, il Times titolava: “Il capitalismo in Portogallo è morto”. Era stato nazionalizzato approssimativamente il 75 per cento dell’economia e fuori dalle banche occupate dai lavoratori, campeggiava la scritta sugli striscioni “Banca del popolo”. Il Movimento delle forze armate dichiarava che il proprio obiettivo era il socialismo, e tutti i partiti presenti nel governo facevano eco, compreso quel Partito socialdemocratico che oggi guida le politiche di austerità in Portogallo. Barroso, attuale presidente della Commissione europea, militava in un gruppo maoista a sinistra del Partito comunista.
In molte aziende erano le commissioni dei lavoratori a decidere come si doveva lavorare, le assunzioni e i licenziamenti. Manifestazioni di massa erano all’ordine del giorno e, quando l’esercito veniva mandato a fermarle, nella maggior parte dei casi i soldati solidarizzavano con i manifestanti.
Quel periodo fu denominato Prec – Processo rivoluzionario in corso. Cominciò il 25 aprile 1974 con il rovesciamento del regime dittatoriale più longevo d’Europa, l’Estado novo, identificato per la maggior parte del suo tempo con la figura di António de Oliveira Salazar.
Forse il fatto che l’Italia ha il proprio 25 aprile ha contribuito a una scarsa conoscenza di quello portoghese. In realtà le due date hanno in comune più di quel che si pensi: sono il simbolo di due processi rivoluzionari in cui il capitalismo è stato a un passo dall’essere abbattuto, traditi da dirigenti del movimento operaio che a parole si ponevano l’obiettivo del socialismo, e oggetto di una riscrittura storica – a destra come a sinistra – che ha poi descritto quei periodi come semplici transizioni da dittature a regimi democratici, liberazioni nazionali, nel nome dell’unità nazionale.
Il 25 aprile 1974 si ricorda infatti come “la rivoluzione dei garofani”: i fiori infilati nella canna dei fucili che non sparavano e dei carri armati sarebbero il simbolo della concordia nazionale e della gioia di un processo “non conflittuale”. Quel giorno non ci furono quasi morti, ma questo certo non per volontà del regime o della classe dominante portoghese, che aveva dato più volte ordine di sparare sugli insorti. Fu perché il totale discredito del regime e la diserzione della quasi totalità dei soldati di base e dei bassi gradi degli ufficiali, oltre ad alcuni elementi dei livelli più alti, fecero cadere gli ordini di repressione nel vuoto. Ci furono nei mesi successivi tentativi di azioni violente e colpi di Stato militari per fermare la rivoluzione, ma furono del tutto inconcludenti. Il rapporto di forze era completamente a favore della rivoluzione e della classe lavoratrice, e la reazione impiegò più di un anno a riprendere almeno parzialmente il controllo della situazione.
Questo testo vuole delineare almeno gli elementi fondamentali di quella rivoluzione, perché possano essere di insegnamento a chi, oggi, combatte contro lo stesso sistema di oppressione che i lavoratori, i giovani e tanti soldati portoghesi provarono ad abbattere allora.
aprile 2014
Verso l’Estado novo
Il glorioso Portogallo delle scoperte, potenza navale indiscussa, fra le prime a livello mondiale, all’inizio dell’800 aveva perso il suo posto privilegiato nel plesso delle potenze mondiali. La cosiddetta guerra civile portoghese del 1828-1834 porta all’abolizione di istituti feudali come la decima o i diritti di primogenitura. Vengono espropriati gli ordini religiosi monacali. Si aboliscono i monopoli mercantili e le grandi corporazioni. Si introduce una Costituzione che prevede un parlamento e la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario: sono gli anni in cui, insomma, la borghesia portoghese prova ad assolvere i suoi compiti storici in una rivoluzione borghese, che però non sarà mai compiuta sino in fondo.
Già da questi anni il Portogallo è sottomesso in particolare alla Gran Bretagna. Osserva Lenin ne L’Imperialismo: “Una forma un po’ diversa di dipendenza finanziaria e diplomatica, pur con l’indipendenza politica, ci è offerta dal Portogallo. Questo è uno Stato indipendente e sovrano, ma di fatto da oltre duecento anni, cioè dal tempo della guerra di successione spagnola (1700-1714), si trova sotto il protettorato dell’Inghilterra. L’Inghilterra assunse le difese del Portogallo e delle sue colonie per rafforzare la propria posizione nella lotta contro le sue rivali, Spagna e Francia, ottenendo in compenso privilegi commerciali, migliori condizioni per l’esportazione delle merci e specialmente del capitale nel Portogallo e nelle sue colonie e, infine, la possibilità di usarne le isole, i porti, i cavi telegrafici, ecc”.
Il Portogallo assume quindi una posizione intermedia nella catena dell’imperialismo. L’industria non si sviluppa, prevale l’agricoltura e si mantiene il latifondo; la riforma agraria, uno dei compiti storici della rivoluzione borghese, non viene fatta.
La debolezza economica della borghesia portoghese si riflette in una instabilità politica continua. Dopo 80 anni di conflitti interni al vecchio schieramento liberale, nel 1910 si stabilisce la Repubblica. Cambia la forma dello Stato ma permane la debolezza economica. La borghesia portoghese ha capitali scarsi, non investiti nella produzione ma nel settore speculativo: mercato immobiliare, commercio, finanziamento del debito pubblico. Il mantenimento del modello latifondista impedisce anche investimenti nell’agricoltura. La povertà dei contadini, i bassi salari degli operai e la fragilità della piccola borghesia urbana fanno sì che il mercato interno sia scarso; d’altronde le esportazioni non colmano questa lacuna perché la produttività – agricola e industriale – è molto bassa. Le colonie danno qualche sbocco ma sono limitate, la borghesia portoghese non può sfidare le potenze imperialiste di gran lunga più forti e anzi subisce la penetrazione britannica nei propri mercati, coloniali e non, nonostante alcune timide misure protezioniste.
La debolezza economica si riflette ancora nell’instabilità politica: nei 16 anni della repubblica si succede un numero di governi su cui neanche le fonti concordano, fra i 26 e i 45. In poche parole, non esistevano le basi sociali per un regime stabile di democrazia borghese.
L’Estado novo
A questa instabilità pone fine un colpo di Stato militare il 28 maggio 1926 diretto dal generale Oscar Carmona. Nel 1932 António de Oliveira Salazar diventa presidente e fa successivamente approvare una nuova Costituzione che segna l’inizio dell’Estado novo (Stato nuovo). Il regime di Salazar si ispira al fascismo italiano (Salazar terrà la foto di Mussolini sulla propria scrivania fino alla morte) nella simbologia e nel riferimento a concetti di autarchia e corporativismo. A differenza del fascismo non si basa però sulla mobilitazione di massa della piccola borghesia. Si tratta piuttosto di un regime bonapartista borghese che si basa sulla repressione poliziesca e militare. Risponde al desiderio di ordine della debole borghesia portoghese. È ammesso un solo partito, l’Unione nazionale, sono dichiarati illegali i sindacati, è abolita la libertà di stampa. Nel 1933 è fondata la Pide (Polizia internazionale e di difesa dello Stato), la polizia politica per le cui mani passerà presto o tardi il 10 per cento della popolazione portoghese, per la quale violenze e torture sono pratica quotidiana.
La base ideologica del regime è classicamente reazionaria e santificata dallo stretto legame con la Chiesa cattolica.
Nella fraseologia del regime, al centro della gestione economica sta il “Portogallo delle piccole cose”: piccolo commercio, piccola industria, piccola proprietà agraria. Questo anche perché il regime vede la propria base sociale nella piccola borghesia e soprattutto nei contadini. Le campagne portoghesi sono di due tipi: nel Sud ci sono grandi latifondi con proletariato agricolo; nel Nord il terreno è frammentato e ci sono piccoli proprietari individuali. Questa differenza avrà peraltro un peso decisivo nella fase finale della rivoluzione quando la reazione dovrà mobilitare una base sociale e si appoggerà sui contadini del Nord.
Tornando alla politica dell’Estado novo, al di là dell’attenzione a piccola borghesia e contadini, il regime non può alienarsi l’appoggio della grande borghesia; ha necessità di ferrovie, infrastrutture, armi e progresso industriale, anche per mantenere la propria posizione internazionale. Cerca quindi di proteggere e stimolare lo sviluppo industriale, che arriva in effetti negli anni ’50. Gli investimenti riguardano soprattutto l’elettrificazione e il lancio di nuove attività: siderurgia, metallurgia, cellulosa, fertilizzanti. Il governo crea condizioni favorevoli con una politica di credito conveniente ed esenzioni fiscali, leggi di regolazione dell’industria, misure protezioniste, e permettendo con la repressione che si tengano bassi i salari.
La modernizzazione e lo sviluppo industriale porteranno alla fine ad una iperconcentrazione del capitale. Subito prima del 1974 sono le “sette famiglie”, sette grandi concentrazioni economiche e finanziarie, a dominare l’economia portoghese: Cuf, Champalimaud, Português do Atlântico, Espirito Santo, Borges & Irmão, Nacional Ultramarino e Fonsecas & Burnay.
Per fare un esempio, la Cuf (Companhia união fabril) aveva attività (almeno) nei seguenti settori: cemento, chimica, petrolchimica, agrochimica, tessile, birra, bevande, metallurgia, ingegneria navale, ingegneria elettrica, assicurazioni, banca, turismo, miniere, giornali.
Nel 1971, sette banche detenevano l’83% dei depositi e portafogli commerciali totali. Lo 0,4% delle società aveva il 53% del capitale di tutte le società. Nel 1972, il 16,5% delle imprese industriali produceva il 73% dei beni industriali.
Nell’agricoltura la situazione non è diversa. Nel 1968, il prodotto dei 1.140 terreni più grandi di 50 ettari era il 30,3%, lo stesso dei 631.482 con meno di 4 ettari.
Nonostante lo sviluppo, il capitalismo portoghese resta debole. La linea fortemente protezionista che aveva tutelato in una prima fase la borghesia nazionale deve cedere a un’apertura per la necessità di capitali stranieri e di mercati. Nel 1960 il Portogallo entra nell’Efta (European free trade association), un’area di libero commercio alternativa all’allora Comunità economica europea (Cee) e comprendente Gran Bretagna, Svizzera, Austria, Norvegia, Svezia e Danimarca. Le condizioni di ingresso per il Portogallo sono favorevoli: libertà tariffaria esclusi i prodotti agricoli, autonomia nei rapporti con paesi non-membri (quindi mantenimento dei privilegi commerciali con le colonie), diminuzione progressiva (e non immediata) dei dazi doganali. Ma, per quanto possano essere favorevoli le condizioni, si misura la produttività dei capitalismi nazionali, e quella portoghese è molto bassa, basandosi sostanzialmente sui bassi salari dei lavoratori. Il passivo della bilancia commerciale portoghese, in passivo di 7,9 miliardi di scudi nel 1964, sale di 17,7 miliardi nel 1970 e di 28,4 miliardi nel 1973.
Considerando il basso livello di partenza, in questi anni c’è una crescita economica. Fra il 1960 e il 1973 la produzione aumenta in media del 6,7% annuo, alla testa ci sono chimica, plastica, lavorazione metalli (industria di base e prodotti metallici). Hanno buoni risultati anche il tessile e il terziario. Questa crescita economica è una delle ragioni della stabilità del regime salazarista, resa possibile dalla forte crescita del capitalismo internazionale dalla seconda guerra mondiale al 1974.
Dalla seconda metà degli anni ’60 si vedono però i limiti del capitalismo portoghese. L’aumento del capitale costante, cioè gli investimenti annui nella produzione, è del 17,3% nel 1966, del 5,7% nel 1967, del 2,95% nel 1968, dello 0,7% nel 1969. Nei primi anni ’70 aumentano gli investimenti esteri, da 826 miliardi di scudi nel 1970 a 2.726 miliardi nel 1973. Gli investimenti vanno però soprattutto nella speculazione finanziaria. Si stima che le azioni arrivino a 32 volte il proprio valore reale, una vera e propria bolla speculativa.
Lo scudo si svaluta ma questo non è sufficiente a far riprendere le esportazioni, che calano anche in valore assoluto dal 1973. Comporta invece un’inflazione del 11,5% nel 1972 e del 19,2% nel 1973. Sommata ai bassi salari, significa l’ulteriore impoverimento della popolazione e l’aumento delle tensioni interne che si preparano a esplodere.
Il regime in crisi
In questa difficile situazione economica, nel 1968 Salazar abbandona la carica di primo ministro per problemi di salute e muore due anni più tardi. Al suo posto subentra Marcelo Caetano, che prova a muoversi su una linea che definisce “evoluzione in continuità”. In positivo, vorrebbe dire mantenere la stabilità del regime apportando delle necessarie innovazioni. Proverà ad esempio ad ammettere candidati di opposizione alle elezioni del 1969, dando un’illusione di democrazia. In realtà, è l’ammissione del vicolo cieco del regime: Caetano prova a bilanciarsi fra due settori della classe dominante portoghese: i riformatori e gli ultras. I primi sostengono che il regime non ha futuro se si procede senza riforme, i secondi che introdurre cambiamenti porterebbe a un’implosione del regime. In realtà hanno ragione entrambi: in ogni caso il regime è condannato.
Un terreno di questo scontro è quello delle colonie. Uno dei capisaldi ideologici del regime salazarista era stata la retorica sull’impero portoghese, sulla missione di diffondere la civiltà occidentale e la cristianità alle colonie, ribattezzati “terreni d’oltremare”, che si consideravano estensione naturale dello Stato portoghese, ribattezzato “la metropoli”. I metodi con cui si manteneva la dominazione erano dei più barbari: pestaggi, torture e uccisioni dei neri africani erano all’ordine del giorno. Per rendere profittevole un sistema di sfruttamento delle colonie economicamente arretrato, si teneva basso il costo del lavoro con il seguente metodo: le truppe andavano in un villaggio e sequestravano i lavoratori necessari, li portavano a centinaia di chilometri, li pestavano, li pagavano in un mese l’equivalente di una giornata di salario di un impiegato portoghese (già basso). Si calcola che in 150 anni nelle miniere del Transvaal siano morti un milione di lavoratori mozambicani “esportati” dai colonialisti portoghesi.
Questa situazione non poteva durare e non durò. Nel 1961 esplode la rivolta in Angola.
Nel 1963 anche in Guinea il Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo verde apre le ostilità contro i portoghesi, conquistando subito ampie zone nel Sud del paese. Nell’anno successivo il Fronte per la liberazione del Mozambico lancia anch’esso l’insurrezione generale.
Nel 1965 in tutte le colonie gli insorti cominciano a poter contare su zone liberate, e questo dà agibilità per tenere incontri internazionali e sviluppare una collaborazione contro i portoghesi.
Già nel 1966 cambiano i rapporti di forza, i portoghesi sono ormai sulla difensiva, gli attacchi vengono lasciati solo ai reparti scelti dei paracadutisti e si cerca piuttosto di decapitare le organizzazioni di liberazione nazionale con attacchi terroristici e omicidi mirati.
Diplomaticamente il governo portoghese si trova sempre più isolato nel tentativo di mantenere il controllo coloniale, non certo per amore da parte delle maggiori potenze imperialistiche o del governo sovietico verso i popoli oppressi africani, ma per volontà di sottrarre al regime portoghese il controllo economico e politico su quelle aree.
Dove possono, le potenze imperialiste cercano di creare proprie basi di appoggio. In Angola ad esempio contro il Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla), che è nell’orbita sovietica, gli Usa destinano capitali e consulenze della Cia al Fronte nazionale di liberazione dell’Angola (Fnla), formazione spoliticizzata in cui i combattenti vengono condizionati con riti tribali. Poi si appoggerà sull’Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (Unita). Questo conflitto a distanza fra Usa e Urss genererà poi una guerra civile anche dopo l’indipendenza.
Lo sforzo economico e militare per sostenere queste guerre era del tutto al di fuori delle possibilità del Portogallo. Basti dire che nel 1973 veniva destinato alla guerra coloniale più del 40 per cento del budget statale. Sposato al rallentamento nell’economia, era un costo sempre più insostenibile.
Oltre alla spesa economica, la guerra coloniale rendeva necessario un esercito del tutto sproporzionato; in un piccolo paese con 8 milioni di abitanti l’esercito contava 220mila effettivi. C’era una coscrizione obbligatoria di 4 anni che comportava diserzioni di massa, che andavano ad aumentare un’emigrazione già alta per ragioni economiche.
Nel febbraio del 1974 esce il libro Portugal e o futuro (Il Portogallo e il suo futuro) del generale Antònio Spínola. La proposta avanzata da Spínola non prevede di abbandonare le colonie, ma di “preparare le colonie africane portoghesi della Guinea, Mozambico e Angola per l’autodeterminazione con una federazione collegata al Portogallo”. È una soluzione già accennata precedentemente da Caetano, che prevede un pieno controllo da parte del regime portoghese del processo e il mantenimento del controllo economico dei terreni d’oltremare.
Spínola, che diventerà più tardi Presidente della Repubblica e sarà descritto come grande democratico anche dai dirigenti del Partito comunista (prima che organizzi due tentativi di colpo di Stato), è comandante in capo dell’esercito in Guinea-Bissau; cioè, la più alta carica militare in una delle colonie dove si conducono gli stermini contro i ribelli.
Il tentativo riformatore non passa e a marzo Spínola è destituito dalla carica di vice capo di Stato maggiore dell’esercito portoghese perché si rifiuta di partecipare a un giuramento di fedeltà al regime.
La piccola borghesia
Sebbene le aziende con meno di venti lavoratori occupassero ancora il 20% dei lavoratori portoghesi, l’affermarsi dei monopoli aveva comportato un attacco molto forte alla piccola borghesia. Dal 1960 al 1970 i padroni di piccole imprese industriali passano da 49.552 a 17.835; nel settore agricolo passano da 78.435 a 18.410; nei servizi da 57.987 a 23.035. La concentrazione del capitale va di pari passo con la proletarizzazione di ampi settori della piccola borghesia. Sempre più professionisti lavorano per qualche azienda invece che in proprio.
Riflesso della crisi della piccola borghesia, gli studenti entrano in mobilitazione, con due movimenti, nel 1962 e nel 1969. Sono toccate dal movimento, fra le altre, l’Università di Lisbona, l’Istituto di economia e anche l’Accademia militare di Lisbona. Come spesso accade, gli studenti esprimono in anticipo la tensione che si accumula nella società e che si scatenerà negli anni successivi, prima con un’ondata di lotte economiche e poi con il processo rivoluzionario.
Il regime risponde alle mobilitazioni studentesche con la repressione e con l’arruolamento obbligatorio di ampi settori studenteschi nell’esercito. In questo modo prova a decapitare il movimento studentesco e a rimpinguare le fila di un esercito sempre in carenza di elementi, viste le diserzioni e il livello di arruolamenti volontari praticamente a zero per la totale sfiducia verso le guerre coloniali. Questa mossa si rivelerà fatale, perché indebolirà sì il movimento studentesco, ma introdurrà un elemento di radicalizzazione nell’esercito che segnerà la fine del regime.
La classe operaia
Lo sviluppo economico degli anni ’50 e ’60 aveva portato con sé un altro effetto che sarà decisivo per le sorti del regime: la crescita di un proletariato industriale. Nel 1970 in Portogallo gli operai industriali sono poco più di un milione (erano 768mila nel 1960). I salariati nei settori secondario e terziario sono il 58% della popolazione attiva, a cui si sommano i lavoratori dei campi. Nel 1960 il 44% della popolazione attiva lavorava nei campi, nel 1973 la percentuale è scesa al 28%. Il rapporto di forza nella società rispetto al momento della nascita dell’Estado novo è completamente cambiato.
Dal 5 al 9 luglio del 1968, 7.500 lavoratori del trasporto si rifiutano di ritirare i biglietti. Lo “sciopero della valigia” apre una stagione di lotte operaie che andrà avanti per anni, azienda per azienda, città per città. Le rivendicazioni principali sono aumenti salariali, salario minimo, tredicesima, 40 ore settimanali, 30 giorni di ferie pagate e nessun licenziamento senza giusta causa.
Queste rivendicazioni si legano alla richiesta di contratti collettivi. Privi di organizzazioni indipendenti legali, i lavoratori usano varie forme di lotta: picchetti all’ingresso delle aziende, assemblee, scioperi, disorganizzazione segreta del processo di produzione, diminuzione della produzione, manifestazioni.
Si tratta di lotte economiche offensive, sostenute dalla scarsità di forza lavoro in Portogallo. Il forte arruolamento nell’esercito e l’emigrazione di massa danno maggiore forza contrattuale ai lavoratori. A questo si lega il processo di radicalizzazione internazionale che attraversa l’Europa. Gli anni in cui comincia l’ondata di scioperi in Portogallo sono quelli del maggio francese e dell’autunno caldo italiano: situazioni rivoluzionarie o pre-rivoluzionarie che segnano i punti più avanzati di un immenso spostamento a sinistra nel continente fra lavoratori e giovani.
Anche settori non tradizionalmente d’avanguardia della classe operaia partecipano alle lotte. Nel gennaio e febbraio del 1969 i bancari eleggono delegati sindacali di opposizione a Lisbona e Porto; nel 1970 impongono il primo contratto collettivo dopo un’assemblea di 7mila lavoratori. Il governo risponderà l’anno successivo chiudendo la sede sindacale e sospendendo i già limitati diritti sindacali, ma questo non fermerà la lotta che andrà avanti anche nei due anni successivi. Dopo il tentato colpo di Stato dell’11 marzo ’75 i lavoratori delle banche avranno modo di tornare nelle prime fila della classe lavoratrice portoghese.
La radicalizzazione si riflette nei sindacati di regime. Nel 1969 Caetano, nei tentativi di parziale riforma, introduce una parziale libertà di elezione dei dirigenti sindacali. Questo diritto sarà poi tolto, ma dal ’69 al ’71 circa trenta sindacati sono conquistati da liste di opposizione. Questo processo di radicalizzazione e riorganizzazione delle organizzazioni della classe lavoratrice, in cui intervengono soprattutto elementi comunisti in clandestinità, culmina il primo ottobre 1970 con la fondazione della Intersindical, una confederazione sindacale che, attorno ai metalmeccanici, tessili e bancari, arriva a coordinare 47 sindacati. Su questo fronte si completano le rivendicazioni economiche con quelle politiche: libertà per le organizzazioni di classe indipendenti dal governo, democrazia interna e unità del movimento sindacale.
La risposta del governo è ancora una volta repressiva. Si emanano decreti-legge che modificano in senso restrittivo la vita interna dei sindacati, dichiarano illegale la Intersindical, negano il diritto a tenere riunioni, assemblee e manifestazioni pubbliche, sospendono o sciolgono le direzioni sindacali, applicano forme più dure di censura preventiva. La polizia politica distrugge le sedi sindacali e arresta molti attivisti.
Queste misure non sono però una prova di forza: si appoggia sull’unica risorsa rimasta, la repressione, che ormai non è in grado di fermare le mobilitazioni.
La rivoluzione si scava la sua via Nasce il Mfa
Lenin spiegò che ci sono quattro condizioni per una situazione rivoluzionaria: una spaccatura nella classe dominante; la piccola borghesia che oscilla fra borghesia e classe operaia; le masse che devono essere preparate a combattere e a fare grandi sacrifici per prendere il potere; un partito e una direzione rivoluzionaria pronti a guidare la classe operaia alla conquista del potere.
Alla vigilia del 1974 esistono tre di queste quattro condizioni. La classe dominante è incapace di risolvere le contraddizioni accumulatesi ed è divisa al suo interno; la piccola borghesia si sposta a sinistra e non è un sostegno stabile per il regime, anzi; la classe lavoratrice si sta sempre più radicalizzando e mobilitando.
I lavoratori non sono disposti a sopportare oltre. Nel paese c’è il 40% di analfabetismo, l’8,5% di mortalità infantile, 150mila persone, perlopiù contadini che si sono trasferiti verso le città, vivono in baraccopoli ai margini dei centri principali. I primi segnali della crisi economica danno un’accelerazione al processo. Dopo un periodo di aumenti salariali, gli stupendi vengono bloccati, con un’inflazione che nel ’72 e ’73 supera rispettivamente l’11% e il 19%. Come spesso avviene, sono i momenti di cambio della congiuntura economica a creare condizioni esplosive nella coscienza.
Il 15 aprile 1973 40mila lavoratori manifestano a Porto. Dall’autunno 1973 al 25 aprile 1974 scioperano 100mila lavoratori, in una situazione in cui lo sciopero è illegale.
In realtà il regime è condannato. Serve solo uno strumento effettivo per il suo abbattimento. Come mai era avvenuto prima di allora, questo strumento sarà l’esercito, l’apparato di repressione dello Stato. Il casus belli è un decreto, il 353/73, che prevede la possibilità per gli ufficiali di complemento di diventare ufficiali dell’esercito attraverso due corsi di un semestre presso l’Accademia Militare. Questo provvedimento colpisce gli ufficiali di carriera, che già hanno davanti una cupola gerarchica che blocca gli avanzamenti, e potrebbero in più essere superati da elementi con una minore anzianità di servizio. Il 9 settembre 1973 si tiene la riunione di fondazione del Movimento dei capitani, embrione di quello che sarà il Movimento delle forze armate (Mfa). All’inizio si tratta quindi di una lotta corporativa, per difendere i privilegi della casta degli ufficiali.
Mai come in questo caso però l’occasione concreta è un elemento casuale che dà sbocco a processi che necessariamente si dovevano manifestare in un modo o nell’altro. L’esercito portoghese all’alba della rivoluzione è un esercito numericamente molto grande, invischiato in una guerra senza speranza, che va avanti da 13 anni e che ha il vicolo cieco statunitense del Vietnam come pietra di paragone. In queste condizioni farsi sparare per guardare le spalle a qualche padrone seduto a migliaia di chilometri, in Portogallo o magari in Gran Bretagna, comincia a essere troppo, come emerge da alcuni testi scritti in quei mesi da soldati in Africa: “si paghi ai capitani che rischiano la propria vita per far andare avanti il progetto di Cabora Bassa e lo sfruttamento delle miniere della Diamang almeno la metà di quanto guadagna un ingegnere di quelle stesse società, il quale corre solo il rischio che i capitani non trovino più incentivi che li spingano a rischiare. Il paese sta sacrificando i suoi militari, ma non i suoi banchieri, i suoi industriali, i suoi ingegneri, i suoi avvocati”.
Molti degli ufficiali più giovani – proprio quelli oggetto del decreto 353/73 – sono in realtà universitari arruolati obbligatoriamente nell’esercito, che dato il livello di studio entrano come ufficiali di complemento. Sono studenti in uniforme e, per la precisione, attivisti studenteschi che hanno avuto elementi di formazione di sinistra, spesso rivoluzionaria, che hanno un passato nel movimento studentesco, e che per punizione sono stati mandati a combattere nelle colonie. Così facendo il regime, lungi dall’aver spento le proteste, le ha portate dentro all’esercito.
Questo aiuta a far evolvere il malcontento in un movimento di opposizione al regime e alla guerra coloniale, dove si uniranno ufficiali di carriera e di complemento, all’inizio opposti sulla questione del decreto 353/73.
Questo movimento trova espressione nel Movimento delle forze armate che, all’inizio del 1974, pubblica il documento “Il Movimento, le forze armate e la nazione”, dove spiega che “tutti sappiamo come, nell’opinione generale, le Forze armate siano state a lungo considerate come il supporto di una complessa struttura politico-economica alla cui costruzione la maggioranza dei cittadini non è chiamata a partecipare in forma diretta. Si ha infatti coscienza che una tale struttura non si sarebbe potuta mantenere attraverso gli anni, per quanta cura fosse stata posta alla preparazione delle organizzazioni poliziesca e giudiziaria, se i suoi dirigenti non avessero avuto la garanzia dell’ubbidienza assoluta da parte delle Forze armate”. Il documento prosegue spiegando che le forze armate, come semplici esecutrici delle volontà del regime, almeno avevano goduto di un prestigio, ma poi erano diventate il capro espiatorio delle sconfitte in Africa, in modo da non far incolpare il regime di una politica fallimentare. E conclude: “Non è con l’aumento degli stipendi né con i privilegi di vario ordine (…) che il potere politico riuscirà a colmare la breccia che si è aperta, profonda e dolorosa, nella coscienza della maggior parte dei militari. (…) Il prestigio delle istituzioni militari sarà ricostruito solo quando (…) fra esse e il popolo esisterà una fondamentale unità rispetto agli obiettivi da raggiungere. (…) Senza democratizzazione del paese non è possibile pensare a nessun’altra soluzione valida (…) Si tratta quindi, prima di tutto e sopra ogni altra cosa, di ottenere a breve scadenza una soluzione per il problema delle istituzioni nel quadro di una democrazia politica”.
Se lo Stato come strumento di oppressione di classe è innanzitutto, nelle parole di Engels, “un distaccamento di uomini armati”, l’apparato statale portoghese è, nonostante la sua ipertrofia numerica, nonostante il maniacale controllo della stampa, della radio, della scuola, un castello di carte pronto a crollare; rispecchia in fondo la debolezza della classe dominante portoghese nello scenario internazionale e l’impasse del regime. La debolezza è tale da portare la spaccatura fino ai livelli superiori dell’esercito, il che costituisce una peculiarità della rivoluzione portoghese. Abitualmente nelle rivoluzioni è la pressione della classe lavoratrice e delle masse a influenzare i livelli inferiori dell’esercito, perlopiù soldati e contadini in uniforme, e a farli passare dalla parte della rivoluzione; gli ufficiali di carriera invece, selezionati negli anni all’interno dell’apparato militare, restano dalla parte della classe dominante.
In Portogallo l’abbattimento del regime parte dall’interno dell’esercito e coinvolge gli ufficiali inferiori e medi, con qualche alto ufficiale. Questo è l’effetto delle contraddizioni all’interno dell’esercito ma soprattutto dello spostamento dei rapporti di forza nella società accumulatosi per decenni.
25 aprile 1974
Nei primi mesi del 1974 la decisione di rovesciare Caetano ormai è presa. Un fallito colpo di Stato il 16 marzo 1974 mostra lo stato di isolamento e disgregazione del regime. Un primo piano del Mfa prevedeva infatti che ci fosse un’azione militare contro il regime il 13 marzo. L’azione è rimandata, ma il 16 marzo il quinto reggimento di fanteria di Caldas de Rainha decide di provarci ugualmente da solo. Vasco Lourençco commenta: “si comportano come gli espontaneos, quei giovanotti irruenti che durante la corrida non riescono a trattenersi, saltano nell’arena e si fanno incornare”. I ribelli sono arrestati sulla strada per Lisbona, ma spiccano alcune note importanti: i ribelli erano meglio armati dei reparti fedeli che li hanno arrestati, l’esercito non aveva permesso l’intervento della Pide, e anche gli interrogatori successivi sono svolti solo dalla polizia militare. Addirittura il 18 marzo il quotidiano República scrive nelle pagine sportive, con il permesso della censura, il proprio sostegno a coloro che “nel fine settimana erano andati a Lisbona sognando la vittoria”, aggiungendo che “perdere una battaglia non era ancora perdere la guerra”.
Nei giorni successivi si definiscono meglio i dettagli per l’operazione vera e propria. Il 24 marzo si riunisce la Commissione di coordinamento del Mfa e Otelo Saraiva de Carvalho assume l’incarico di preparare un piano operativo. Le operazioni coinvolgeranno circa 6mila uomini, guidati in netta prevalenza da capitani trentenni.
Il 24 aprile sulle pagine di República c’è una recensione sul programma radiofonico Limite, di Carlos Albino, che è “molto migliorato nelle ultime settimane” e “da ascoltare assolutamente”. È il primo segnale segreto di allerta per l’Mfa, che avvisa di tenersi pronti la notte stessa per l’operazione. Il secondo, che dà l’indicazione di preparare le truppe nelle caserme, è la trasmissione su Radio “Emissores Associados de Lisboa” della canzone E depois do Adeus di Paulo de Carvalho: una canzonetta d’amore vincitrice dell’equivalente portoghese del Festival di Sanremo sarebbe così passata alla storia. È il terzo segnale però a simboleggiare la rivoluzione portoghese: alle 00,20, durante quella stessa trasmissione Limite recensita la mattina, è trasmessa Grândola Vila Morena di Josè Alfonso. A quel segnale le truppe si mettono in moto. Si occupano le stazioni radio e televisive, gli aeroporti, le sedi governative. Caetano è rifugiato a Palazzo del Carmo. Il regime cerca di mobilitare i reparti fedeli contro le truppe insorte: non ottiene risultati. La fregata Gago Coutinho, parte delle forze Nato in esercitazione, prende posizione davanti alle truppe guidate dal capitano Salgueiro Maia, che arriveranno poi ad arrestare Caetano. Il capitano di fregata riceve e trasmette l’ordine di aprire il fuoco, il capo della prima batteria non obbedisce; l’ordine è ripetuto alle altre batterie, la risposta è la stessa. La fregata si allontana e si dichiara neutrale. Di nuovo, il generale Junqueira dos Reis’ ordina al settimo reggimento di cavalleria di aprire il fuoco sugli insorti. Il sottotenente Sottomayor non esegue. Il generale ordina ai soldati di arrestare Sottomayor, i soldati non eseguono. Gli stessi episodi si ripetono ovunque. L’enorme apparato militare su cui si basava il regime si sgretola in poche ore. Il potere non è più nelle mani del governo. Il problema è che non si sa in che mani debba andare.
Le forze in campo
Il 25 aprile 1974 quasi nessuno ha difeso il governo di Caetano. Solo la Pide, la polizia politica, ha aperto il fuoco contro i manifestanti che ne circondavano la sede, uccidendo quattro persone. Sono gli unici morti della giornata: tale era la sproporzione delle forze in campo che il rovesciamento del regime è un atto pressoché privo di violenza.
Qui però emerge un problema: il Mfa è un movimento di ufficiali radicali, non un partito rivoluzionario. Manca di qualsiasi programma o politica chiari che vadano al di là dell’antifascismo, della cessazione della guerra, della democrazia e di un generico miglioramento delle condizioni di vita per le classi popolari. Gli ufficiali ragionano da ufficiali: hanno concepito l’azione del 25 aprile non come l’avvio di un processo rivoluzionario di massa ma come un cambio da un governo antidemocratico a uno democratico (borghese) per mezzo di un’azione militare. Il comunicato che diramano, nella richiesta alla popolazione di rimanere in casa, lo manifesta chiaramente:
“Qui il posto di comando del Movimento delle forze armate. Le Forze armate portoghesi fanno appello a tutti gli abitanti della città di Lisbona affinché si raccolgano nelle proprie case, nelle quali dovranno conservare la massima calma”.
Avviene però un fatto che cambia completamente la situazione. Se verso il 25 aprile erano state le contraddizioni presenti nella società, la radicalizzazione dei lavoratori, in ultima analisi le condizioni pre-rivoluzionarie a esprimersi all’interno dell’esercito e a generare l’azione del Mfa, ora l’azione del Mfa, anche se priva di un programma o di una linea politica, facendo crollare il regime, fa esplodere immediatamente la tensione rivoluzionaria che si era accumulata nella società. Contro le indicazioni dei comunicati la folla invade le piazze portoghesi. Fuori dall’edificio della polizia militare di Largo del Carmo, dove è ancora asserragliato Caetano, fra le truppe del Mfa e quelle della Guardia nazionale repubblicana che puntano le armi contro gli insorti, centinaia di persone si assiepano verso gli insorti, solidarizzando, offrendo cibo e sigarette. Il colpo di Stato progressista si trasforma per l’intervento delle masse nell’inizio di una rivoluzione e crea un legame strettissimo fra i soldati – operai e contadini in uniforme – e la classe lavoratrice portoghese.
Resta però il problema di una direzione. Nelle trattative per cedere il potere (che in verità non aveva già più) Caetano dichiara che non avrebbe discusso con un ufficiale sotto il grado di tenente-colonnello. Gli ufficiali dell’Mfa invece di rispondere con una risata e arrestarlo proseguono la trattativa e accettano la proposta dello stesso Caetano di trasmettere il potere al generale Spínola perché formi una Giunta di salvezza nazionale (Jsn – Junta de salvação nacional), “perché il potere non cada nella strada” come dichiara lo stesso Caetano. Spínola, messo precedentemente al corrente del colpo di Stato, aveva dichiarato di non condividerlo. Nelle trattative per il primo comunicato chiarisce che non vuole parlare di democrazia e la sua contrarietà all’indipendenza delle colonie. Il generale di brigata Gonçalves dichiarerà più tardi che Spínola aveva minacciato di chiedere al Sudafrica e agli Usa di intervenire con l’esercito nelle colonie africane.
A volte le parole della classe dominante possono essere chiarificatrici. Abel Pinheiro, capo di una delle grandi aziende portoghesi e poi vicepresidente del partito governativo di destra Cds, sposato con la nipote di Caetano, ricorda così quei giorni: “appena vidi Spínola in televisione tirai un sospiro di sollievo e mi dissi: questo è un colpo di Stato di destra. Ma due giorni dopo, quando collegarono di nuovo i telefoni, mi chiamò mia madre dalla Francia e fu una doccia fredda. ‘È un colpo di stato comunista’ mi disse ‘ho visto in televisione quei soldati con i garofani nei fucili. È proprio così che fanno i comunisti, distruggono la disciplina militare’. Mi sforzai di convincerla che aveva torto, ma lei continuava a ripetere quello che aveva detto, testarda. Solo il primo maggio, quando vidi quel mare di bandiere rosse, pensai che forse aveva ragione lei. E poi, beh, non ebbi più dubbi”.
Il primo maggio infatti si vedono le forze in campo: 600mila persone in corteo solo a Lisbona, praticamente tutta la popolazione adulta della capitale; più di un milione e mezzo in tutto il paese. Soldati, marinai e aviatori sfilano armati con i lavoratori.
150mila agenti della Pide emigrano nella Spagna di Franco. La classe dominante si aggrappa a Spínola e alla Giunta, composta da alti ufficiali di esercito, aeronautica e marina, per frenare il processo rivoluzionario, ma la Giunta non controlla niente. Fra i primi atti dichiara che si deve aspettare una decisione ufficiale per liberare i prigionieri politici rinchiusi nella prigione di Caixas, ma in 5mila circondano la prigione e ottengono la liberazione immediata.
Nei giorni successivi si prodigherà in appelli al rispetto delle gerarchie e della disciplina, senza sortire nessun effetto. Mantiene un potere illusorio solo per la mancanza di una struttura di potere alternativa.
Il Pcp e il governo
Come ricordavamo sopra, la quarta condizione per il successo della rivoluzione è l’esistenza di un partito in grado di dirigere le lotte e indicare la strada per la vittoria. Nel contesto dato, il primo ad essere chiamato in causa per tale ruolo è il Partito comunista portoghese (Pcp).
Il Pcp, esistente da prima dell’inizio dell’Estado novo, ha mantenuto un’attività clandestina, sotto una dura repressione, che lo rende l’unica organizzazione politica del movimento operaio con un reale radicamento e autorità il 25 aprile. Avrà modo di ricordare un anno dopo, alle elezioni per l’Assemblea costituente, che i suoi 247 candidati mettono insieme 440 anni passati in carcere. Il Pcp era sempre stato fedele interprete della linea di Mosca. Aveva aderito alla svolta del terzo periodo e alla successiva linea di fronte popolare e collaborazione con le forze borghesi per l’unità del cosiddetto “fronte democratico”. Per un periodo le riunioni della segreteria si tenevano direttamente a Mosca.
Sebbene i sindacati non siano sotto il sicuro controllo di nessuna forza politica all’inizio del 1974, il Pcp ha una presenza rilevante al loro interno, dove sviluppa un intervento dagli anni ’30, quando ha deciso di non costituire piccoli sindacati indipendenti ma di sviluppare un intervento all’interno di quelli di regime. Allo stesso modo nel 1967 si era espresso a favore delle diserzioni dall’esercito ma contro la diserzione dei propri militanti che, a meno che provocassero diserzioni collettive, dovevano condurre un’attività politica all’interno delle truppe.
Questo radicamento e questa autorità sono però al servizio dell’esigenza di Mosca di mantenere la coesistenza pacifica con le potenze capitaliste nordamericana ed europee. Abbattere il capitalismo in un paese dell’Europa occidentale uscirebbe da questo disegno, tanto più che una rivoluzione socialista vittoriosa in Portogallo darebbe una spinta alla classe lavoratrice in Urss per riconquistare la democrazia operaia. La linea proposta dal Pcp è quindi quella delle “due fasi”: la battaglia immediata deve essere per la rivoluzione democratica, e solo in un secondo momento si potrà discutere del socialismo. Alvaro Cunhal, segretario del Pcp, nell’intervento alla conferenza dei partiti comunisti del 23-25 gennaio 1974 a Bruxelles dichiara: “Per un Portogallo liberato dalla tirannia fascista e dal dominio monopolista, difendiamo una politica di sviluppo che diminuisca progressivamente la distanza che lo separa dai paesi sviluppati, che permetta un rapido elevamento del livello di vita, che conduca alla fine dell’emorragia della nostra migliore forza lavoro, al ritorno volontario degli emigrati, all’interesse e entusiasmo dei lavoratori portoghesi nel conseguimento di una vita migliore, libera e indipendente nella propria patria”.
Non si accenna alla lotta anticapitalista, al ruolo protagonista della classe operaia organizzata, a organismi di contropotere.
Nel giorno stesso del 25 aprile, quando crolla l’apparato statale borghese, c’è un vuoto di potere e le masse si mobilitano spontaneamente, il comitato esecutivo del Pcp emana un comunicato in cui dichiara che “Il Pcp è pronto a collaborare con tutti quelli che desiderano lottare uniti per la creazione di un governo provvisorio che instauri le libertà democratiche e la faccia finita con la guerra, e che promuova a breve termine elezioni per una Assemblea costituente attraverso la quale il Popolo portoghese scelga liberamente i suoi governanti e il suo destino”. Prosegue rivendicando lo scioglimento degli organismi del potere fascista, la liberazione dei prigionieri politici e il ritorno di chi è fuggito all’estero per ragioni politiche (fra cui vi è il segretario stesso, Cunhal), il riconoscimento delle libertà democratiche, la fine della guerra con negoziati con il governo della Repubblica della Guinea-Bissau, con il Mpla e il Frelimo in Mozambico. Il comunicato termina con un appello “Per la libertà, per la fine delle guerre coloniali, per l’indipendenza nazionale!”.
In sostanza, nel nome della fase della rivoluzione “democratica”, che non va superata al momento con rivendicazioni socialiste, il Pcp propone un governo con tutte le forze – anche quelle borghesi – che si oppongono al vecchio regime (in realtà sarebbe difficile trovarne una che non lo faccia in questo momento).
Il 3 maggio (dopo il ritorno del segretario Cunhal), dopo le straordinarie manifestazioni del primo maggio, il comitato centrale approva una “risoluzione sulla situazione politica” che “ratifica la posizione presa [dagli] organismi esecutivi sul governo provvisorio. La partecipazione al governo provvisorio di tutti i settori democratici rappresentativi (incluso il Pcp) sarebbe una garanzia per il proseguimento e la realizzazione di libere elezioni”. Introduce inoltre un punto che resterà fermo nella tattica dei mesi successivi: “Tutto il nostro popolo ha compreso immediatamente che dalla sua alleanza viva, fraterna e attiva con le Forze armate dipende la profondità e l’ampiezza del processo di democratizzazione iniziato con il 25 di aprile”. Si profila quindi una tattica codista nei confronti del Mfa, dove il Pcp si fa da garante dell’appoggio popolare al Mfa stesso in cambio del riconoscimento di un ruolo in un governo interclassista in cui possa poi provare a far valere il proprio peso. In questa tattica – riedizione della vecchia tattica dei fronti popolari che solo sconfitte ha portato ai comunisti – il grande assente è la classe lavoratrice, la cui azione è privata di ogni protagonismo e il cui ruolo è solo quello di massa di pressione a sostegno dei propri dirigenti nell’apparato statale.
Addirittura il partito si spinge oltre e avverte che “sono ugualmente pericolosi l’opportunismo di destra, che si manifesta nella tendenza ad abdicare dagli obiettivi fondamentali del movimento democratico, e l’estremismo di sinistra, che si esprime soprattutto nell’impazienza che non tiene conto del rapporto di forze e nell’attitudine ad azioni che dividono e disgregano. (…) Salvo casi molto particolari, iniziative di occupazione di consigli parrocchiali o consigli comunali, per esempio, non facilitano, ma, al contrario, creano gravi ostacoli in questo momento al processo di democratizzazione dell’apparato amministrativo e della vita portoghese in generale. Il Pcp combatterà fermamente l’opportunismo e l’avventurismo, che sono oggettivamente utili alla controrivoluzione”.
Esplode la lotta operaia
Insomma, il rapporto di forze è troppo sfavorevole per avanzare oltre la “democratizzazione dell’apparato amministrativo”. Ma qual è poi questo rapporto di forze?
A livello internazionale il capitalismo si trova nella prima seria recessione internazionale simultanea in praticamente tutti i paesi industriali sviluppati e c’è il più grande spostamento verso sinistra dalla fine della seconda guerra mondiale. Nella confinante Spagna Franco è completamente bloccato da un possibile intervento perché deve pensare al crollo del suo regime prima che a quello degli altri, l’unica cosa che può fare è ospitare i 150mila agenti della Pide che scappano oltreconfine. Gli Stati Uniti sono reduci dal pantano del Vietnam che ha incrinato la stabilità sociale interna. In Italia il Pci è al 30%, in Grecia nel 1975 sarebbe caduto il regime dei colonnelli.
In Portogallo il rapporto di forze è ancora più a favore della rivoluzione. A fronte di una borghesia del tutto paralizzata, parte un’ondata di lotte e scioperi travolgente che coinvolge praticamente tutte le aziende del paese: Timex, ferrovieri, Rádio Renascença, Cuf, Covina, supermercati Ac Santos, Torralta, Carris, Bayer Portugal, Firestone, Messa, Lisnave, Singer, Renault, le linee aeree Tap, costruzioni, Grao-Parà, farmaceutici, Melka, e altre ancora.
Si fanno sentire i battaglioni pesanti della classe operaia portoghese. Il 13 maggio 1.600 minatori a Panasqueira lottano per un salario minimo mensile di 6mila scudi, cure mediche gratis, tredicesima e l’epurazione dei fascisti. Il 15 maggio 8.400 lavoratori lavoratori dei cantieri navali Lisnave occupano i cantieri ed entrano in sciopero per la settimana di 40 ore e un salario minimo mensile di 7.800 scudi.
Si uniscono i lavoratori dei campi, con commissioni pro-sindacato nella regione del Alentejo, con i primi scioperi a giugno.
Dal 25 aprile al primo giugno sono registrati (sicuramente molto al ribasso) 158 scioperi, 35 occupazioni di fabbrica, di cui almeno 4 col sequestro dei padroni e/o dirigenti.
Si chiedono aumenti salariali, il salario minimo e la fine delle discriminazioni salariali, le 40 ore settimanali, non più di 5 giorni di lavoro a settimana, un mese di ferie pagate, la tredicesima e quattordicesima, la riassunzione dei licenziati.
Ma si comincia anche a mettere in discussione chi comanda in azienda: in fabbriche spesso occupate, nel 40% dei casi si chiede il controllo sui libri aziendali, nel 50% dei casi si chiede – e talvolta si procede in prima persona a farla – l’epurazione di polizia e fascisti dalle aziende. I giornalisti epurano le redazioni. Nell’esercito si chiede la fine della guerra e un nuovo regolamento di disciplina, nelle colonie i soldati portoghesi e i guerriglieri fraternizzano. Le lavoratrici domestiche, uno dei settori tradizionalmente più arretrati, formano un sindacato. Scendono in lotta gli studenti, e si sviluppano movimenti per l’emancipazione sessuale e i diritti civili. Il ponte sul Tago viene ribattezzato da “ponte de Salazar” a “ponte 25 Aprile”.
A conti fatti, i “rapporti di forza” non sembrano proprio così sfavorevoli. In aggiunta, i lavoratori si dotano di organi di autorganizzazione: le lotte nelle aziende sono condotte da consigli operai creati ad hoc, eleggibili e revocabili dai lavoratori. A fronte di un apparato statale borghese che si disgrega, le masse istintivamente pongono gli embrioni di un’altra struttura di potere, operaia. Sarebbe l’Abc di un partito rivoluzionario in questo contesto fare un appello alla strutturazione di questi consigli in ogni azienda e in ogni quartiere, e al loro collegamento nazionale per prendere in mano la gestione economica e politica del paese.
Ma questo, ancora una volta, supera la fase “democratica” e quindi per la direzione del Pcp non si può fare. La sfiducia nei confronti della classe lavoratrice è l’elemento fondamentale di questi dirigenti: considerano le masse come massa di manovra malleabile e incapace di portare avanti in prima persona la rivoluzione. Il protagonismo dei lavoratori deve anzi essere sedato perché ostacola la governabilità del paese e l’azione politica del partito verso il Mfa e gli altri partiti.
Il primo governo provvisorio
Dall’altra parte invece la borghesia si rende conto molto bene di quanto siano per lei sfavorevoli i rapporti di forza. La Giunta di salvezza nazionale fa appelli a “dominare l’impazienza e rispettare le gerarchie” il 2, il 3 e il 6 maggio. Appelli che cadono nel vuoto. L’11 maggio si dichiara contro le occupazioni delle case, ma il 19 deve legalizzarle. La Giunta è servita formalmente a “non far cadere il potere nella strada”, ma nei fatti è un potere che non controlla niente. In questa situazione la borghesia può appoggiarsi solo sui dirigenti dei partiti operai con un governo di fronte popolare per riorganizzarsi e tentare di fermare la rivoluzione in un modo o nell’altro. Guarda caso, proprio ciò che chiedono il Pcp e il Partito socialista (Ps).
Il primo governo provvisorio nasce il 16 maggio. Il primo ministro è Palma Carlos, avvocato liberale. Vice primo ministro è Sà Carneiro, segretario del Partito popolare democratico (partito borghese di centro-destra che si definisce in quel momento di centro-sinistra e che avrebbe poi cambiato il proprio nome in Partito socialdemocratico). Il Ppd ha anche il Ministero degli interni. Ministro della difesa è Firmino Miguel, militare spinolista. A Soares, segretario del Partito socialista, va il Ministero degli esteri, carica che userà per decantare le virtù democratiche di Spínola in giro per l’Europa, almeno fino al tentativo di colpo di Stato di Spínola. Il Ps prende altri due ministeri, fra cui quello della giustizia. Al Pcp viene dato un posto senza portafoglio (Cunhal) e il Ministero del lavoro. Come ebbe a dire Spínola: “si doveva responsabilizzare apertamente (il Pcp) nel governo”.
Responsabilizzare il Pcp nel governo vuol dire chiedere che faccia la sua parte nello scopo fondamentale del governo di unità nazionale: frenare le lotte, garantire che torni l’ordine. Il governo non durerà neanche due mesi. È investito dalla pressione delle lotte operaie che si rafforzano e ottengono un salario minimo di 3.300 scudi, un mese di ferie pagate, la riduzione dell’orario settimanale. Gli aumenti salariali sono in media del 35%, ma per chi era sotto il salario minimo sono spesso del 100%.
Una volta entrato nel governo, il Pcp indurisce ancora di più la propria posizione verso gli scioperi e ogni mobilitazione che alteri la produzione, denunciando che tali azioni sono, consapevolmente o meno, strumenti della reazione. La Intersindical, dove il Pcp ha un forte ruolo nella direzione, gli fa eco. Il 25 maggio convoca una manifestazione in appoggio al governo provvisorio; il Pcp nella sua prima occasione pubblica a Lisbona condanna “l’ondata generalizzata di scioperi che aiuta il fascismo”. Il 26 maggio le truppe disperdono con gas lacrimogeni e cariche a cavallo una manifestazione definita dal Morning Star (giornale del Partito comunista britannico) “turbolenta ed estremista”. Il 27 maggio un comunicato dell’esecutivo del Pcp intitolato “Sulle manovre della reazione” dichiara che “le masse popolari devono smascherare e respingere le richieste dei demagoghi e avventurieri di sinistra che, volendo far deragliare l’attuale processo di democratizzazione del paese, dimostrano un’incomprensione totale dei cambiamenti occorsi proponendo parole d’ordine assolutamente inappropriate per la situazione concreta e per l’attuale disposizione della classe operaia e del popolo. (…) L’impazienza nella lotta per soddisfare rivendicazioni, per quanto giuste esse siano, può creare condizioni propizie alla reazione fascista, al ritorno della tirannia fascista, che sarebbe ancora più crudele e sanguinosa”.
In effetti la reazione proverà più volte una soluzione bonapartista, che sarebbe stata crudele e sanguinosa, ma sarà respinta proprio dalla mobilitazione di massa, immediata e spontanea della classe lavoratrice, mentre il Pcp sarà disorientato fra appelli alla mobilitazione lanciati e ritirati e atti di fedeltà ai governi provvisori.
Nel comitato centrale del 17 giugno il Pcp si spinge a dichiarare che le rivendicazioni dei lavoratori “nell’attuale situazione economica e sociale, non possono evidentemente essere soddisfatte. È impossibile, senza un grave disturbo alla stabilità economica, ottenere nello stesso tempo aumenti considerevoli dei salari, diminuzione del numero delle ore settimanali, un aumento delle ferie pagate, ecc. (…) Settimane di 35/36 ore non corrispondono al livello di attuale sviluppo economico. Rivendicazioni non realistiche conducono a una strada senza uscita, a perturbazioni dell’equilibrio economico, all’aumento dei prezzi e all’aggravarsi dell’inflazione che annulla gli aumenti dei salari raggiunti”.
Così impossibile non è visto che, come detto sopra, alla fine i lavoratori ottengono importanti avanzamenti. È vero però che la situazione economica generale continua a peggiorare. I problemi sono due: il primo è che un cambio di regime politico non risolve magicamente i limiti del debole capitalismo portoghese, a maggior ragione mentre a livello internazionale la crisi peggiora; il secondo è che la classe dominante boicotta coscientemente l’economia vedendo messa in discussione la propria posizione.
Il boicottaggio è a tutto campo: si spostano i capitali all’estero, le banche bloccano i crediti alle aziende, si annullano gli ordini e le lavorazioni, si consegnano ordini sbagliati per bloccare la catena produttiva, si aumentano i prezzi delle materie prime, si licenziano in massa i lavoratori. Nel distretto di Evora gli agrari bruciano i campi di grano maturo.
Il Pcp riconosce queste come “armi usate dal grande capitale per cercare di creare grandi difficoltà e, se possibile, strangolare il regime democratico transitorio”. La risoluzione prosegue: “il programma del Mfa non prevede la realizzazione di profonde riforme sociali. Non prevede la nazionalizzazioni delle banche né delle grandi aziende monopoliste. Ma, se il grande capitale interviene con armi economiche per impedire la democratizzazione della vita politica e soffocare il nuovo regime, ha solo un’alternativa: o capitola o dovrà prendere mezzi adeguati a vincere questa resistenza”.
Pur avendo presente il ruolo giocato dal grande capitale, l’opzione della nazionalizzazione delle banche e dei monopoli viene lasciata come una possibilità futura e non come una necessità immediata e, ancora una volta, viene lasciato tutto nelle mani del Mfa, mentre l’azione organizzata dei lavoratori è del tutto assente dal discorso, anzi viene osteggiata.
Il Partito socialista
Questa posizione del Pcp apre una strada al Partito socialista, che inizialmente non gode né del radicamento né della tradizione dei comunisti. Il partito è stato fondato un anno prima, il 19 aprile del 1973, a partire dagli aderenti dell’Azione socialista portoghese. Al 25 aprile del 1974 conta qualche centinaio di iscritti, e come il Pcp avrà una crescita imponente nei mesi successivi.
Il Ps aderisce all’Internazionale socialista e Soares, il segretario, dopo l’attività democratica e da avvocato in patria, si è formato in esilio alla scuola della socialdemocrazia negli anni precedenti la rivoluzione, prima di tornare in Portogallo il 29 aprile. La stessa creazione del Ps è aiutata dalla Spd tedesca che l’anno prima mette insieme un gruppo di avvocati democratici portoghesi in Germania.
Lo scopo della direzione è quindi quello di frenare le mobilitazioni operaie al livello della democrazia parlamentare e legare il Portogallo alle socialdemocrazie europee e alla Cee. Il Ps aderisce infatti al primo governo provvisorio e si unisce in generale alle condanne verso gli scioperi e le mobilitazioni operaie che destabilizzerebbero l’economia. In certi casi però fa eccezione e scavalca a sinistra il Pcp. Ad esempio, il 19 giugno il governo ordina di chiamare l’esercito contro mille lavoratori delle Ctt (poste portoghesi). Il Pcp appoggia la condotta del governo e diversi iscritti strappano la tessera disgustati dall’azione antioperaia. Il Ps invece aveva vistosamente appoggiato lo sciopero e aveva insistito sul carattere democratico dell’organizzazione dello sciopero.
È con interventi di questo tipo che il Ps lavora per crearsi un’immagine di sinistra, perché ha dimensioni molto più ridotte del Pcp e non ha quasi radicamento nel movimento operaio. Deve conquistare posizioni e, in un contesto rivoluzionario, lo può fare solo spostandosi a sinistra.
Nei fatti non avanza proposte che superino le rivendicazioni democratiche, ma nella propaganda parla del socialismo come obiettivo. Usa come slogan “Partito socialista: un partito marxista” e arriva a pubblicare sul proprio giornale articoli di Trotskij, anche in chiave anti-stalinista viste le posizioni del Pcp. Così facendo, attrae un settore importante di giovani studenti e lavoratori che vedono nel Ps un partito con un modello di socialismo meno oppressivo e più democratico. Al primo congresso della Gioventù socialista parteciperanno 50mila persone e Soares parlerà di dittatura del proletariato, di Marx e di Lenin, nell’entusiasmo di massa. Tanto si dovette spostare a sinistra il dirigente che giocherà il ruolo decisivo nel soffocare il processo rivoluzionario. Ad ogni modo, in questa fase la crescita del Ps mostra la volontà delle masse di trovare un’organizzazione rivoluzionaria. Addirittura nel primo congresso del partito, che si terrà nell’autunno del 1974, pur con una direzione che parlava esplicitamente di socialismo come obiettivo (certo, per il domani), ci sarà un documento di opposizione più a sinistra che prenderà ben il 40% dei consensi. Questa opposizione, dovuta più alla radicalizzazione della situazione oggettiva che all’azione soggettiva di tendenze interne al Ps, rientrerà senza creare problemi nei mesi successivi, dando luogo a una scissione minoritaria degli elementi più di sinistra. Questi andranno poi a formare il Fronte socialista popolare (Fsp), che non inciderà nello sviluppo degli eventi successivi.
Il primo tentativo di Spínola e il secondo governo provvisorio
Anche se il governo provvisorio è guidato da un borghese liberale e il Financial Times il 29 maggio può scrivere che le politiche economiche della Giunta “sono state ampiamente ben accolte dalla comunità economica”, la classe dominante non può tollerare la situazione di fermento e cerca una via per fermarla.
Il 10 giugno prova a convocare manifestazioni contro il processo di decolonizzazione. L’esito è farsesco: qualche decina di persone a Lisbona e Porto. Questa è la base sociale che può mobilitare la reazione in quel momento (a proposito di rapporti di forza sfavorevoli!).
Si prova allora a dare una svolta bonapartista basandosi sulla figura di Spínola. Il piano, con l’appoggio delle preoccupate ambasciate straniere della Nato, prevede una maggiore concentrazione di poteri nelle mani del presidente e l’espulsione del Pcp dal governo (e magari del Ps).
Il 13 giugno si riuniscono i vertici del Mfa e la Jsn. Spínola propone di tenere a ottobre un referendum sulla questione coloniale e contestualmente le elezioni del Presidente della Repubblica. In pratica propone un referendum su se stesso per emergere come arbitro della situazione. Propone infatti allo stesso tempo di rinviare le elezioni dell’Assemblea costituente al 30 novembre 1976. La proposta è appoggiata da Sà-Carneiro, capo del Ppd, che arriva a chiedere lo stato di assedio. Il Mfa rifiuta di acconsentire alle proposte. Spínola allora muove Palma Carlos che chiede al Consiglio di Stato più poteri e minaccia le dimissioni. Chiede anch’egli elezioni del presidente entro 3 mesi, una Costituzione provvisoria e il rinvio al 1976 delle elezioni dell’Assemblea costituente. Anche qui trova un rifiuto. Il 9 luglio si dimette. Denuncerà alla fine “un clima di indisciplina sociale che è completamente contrario al mio temperamento e alle mie idee in merito alla democrazia”. Alla fine, invece di comportare uno spostamento a destra del governo, il tentativo porta Spínola a sacrificare il proprio primo ministro e ad avere un primo ministro spostato più a sinistra.
Il 18 luglio nasce il secondo governo provvisorio. Nuovo primo ministro è Vasco Gonçalves, del Mfa. Si rinforza la componente militare e soprattutto quella del Mfa. Gli spinolisti mantengono però il Ministero della difesa (Miguel) e prendono quello dell’informazione (Osorio). I liberali controllano i ministeri dell’economia (Vilar) e delle finanze (Lopes). Tutti i ministeri chiave sono nelle mani degli uomini della borghesia. Il Pcp e il Ps restano nel governo dichiarando di appoggiare il programma del Mfa di democratizzazione.
Spínola ha perso Palma Carlos ma ha mantenuto il proprio posto di presidente. Riprende però subito la sua campagna dichiarando il 18 luglio stesso che “il clima di anarchia non può continuare (…) ogni tentativo di sovvertire la disciplina sarà ritenuto dalla nazione un tradimento contro libertà e democrazia”.
Il 27 luglio Spínola dovrà riconoscere il diritto dei popoli africani all’indipendenza e all’autodeterminazione, rinunciando così alle tesi espresse qualche mese prima.
La commissione politica del Pcp commenta immediatamente: “Il Pcp afferma il suo deciso appoggio al presidente della Repubblica (!), al Movimento delle forze armate e al nostro governo provvisorio per dare realizzazione a questa decisione storica”.
Con i partiti operai passivi nei confronti del Mfa, e il Mfa privo di un programma che superi delle basilari rivendicazioni democratiche, le decisioni anche nel nuovo governo vengono dettate dai ministri borghesi e vanno soprattutto a colpire le possibilità di mobilitazione e sciopero dei lavoratori che, nonostante il ruolo passivo delle direzioni sindacali controllate dal Pcp, avevano messo spalle al muro il padronato portoghese nei mesi precedenti. Il 14 agosto una manifestazione in solidarietà al Movimento popolare per la liberazione dell’Angola viene repressa. Il 27 agosto il governo approva un attacco frontale al movimento operaio: si stabilisce che i contratti nazionali non saranno rinegoziati prima della scadenza (con un’inflazione a doppia cifra), si vieta lo sciopero alle forze militari e militarizzate, ai pompieri, alla polizia, ai magistrati; si proibiscono gli scioperi politici, gli scioperi di solidarietà e interprofessionali; si vieta l’occupazione dei locali durante gli scioperi. Si richiede un preavviso di 37 giorni per convocare uno sciopero. Le manifestazioni si possono tenere solo dopo le 7 di sera nei giorni feriali e dopo l’una il sabato. L’unico diritto che si lascia è alla borghesia: il diritto di serrata padronale.
L’attacco non riesce a frenare le lotte, che anzi si intensificano. A fine mese ci sono tre scioperi di grande importanza. Il primo è quello del Jornal de comèrcio, che si estende con sciopero di solidarietà a tutti i giornali, eccetto O Século e il Diário de Lisboa, controllati dal Pcp. Il Ps al contrario il 2 settembre condanna la “natura restrittiva della legge” in riferimento alla “attuale natura dinamica dei conflitti di lavoro”. Più passerà il tempo, più il Ps giocherà la carta della “democrazia” contro il governo e soprattutto contro il Pcp, accusati di voler instaurare un regime antidemocratico.
Il secondo sciopero, il 28 agosto, è dei lavoratori della compagnia aerea di bandiera, la Tap (Transportes aéreos portugueses); i lavoratori chiedono l’epurazione delle forze armate (solo poche decine di ufficiali erano stati epurati da aprile) e la partecipazione dei lavoratori al controllo dell’azienda.
Ma è soprattutto il terzo sciopero a chiarire i rapporti di forza. Il 12 settembre 7mila operai dei Cantieri navali di Lisbona (Lisnave) sfilano fino al Ministero del lavoro per chiedere l’epurazione dell’azienda e la revoca delle leggi antisciopero. I lavoratori distribuiscono alla popolazione un comunicato che dichiara: “Non siamo con il governo, quando promulga leggi antioperaie, restrittive della lotta dei lavoratori contro lo sfruttamento capitalista. Lotteremo attivamente contro la ‘legge sullo sciopero’ perché è un colpo profondo alle libertà dei lavoratori. Ripudiamo il diritto che i padroni hanno di mandare in miseria migliaia di lavoratori, perché la legge della serrata è una legge contro gli operai e a protezione dei capitalisti”. Il governo chiede l’intervento dei miliari contro la manifestazione. Ricorda un soldato: “Prima di pranzo circolavano voci sul fatto che dovevamo partire, e immaginammo che fosse Lisnave. Ci siamo riuniti a mezzogiorno e il comandante ci ha detto che aveva ricevuto una telefonata su una manifestazione al Lisnave, guidata da una minoranza di agitatori di sinistra e che dovevamo impedire che si tenesse. Eravamo armati come non lo eravamo mai stati, con G3 (fucili d’assalto, ndr) e 4 caricatori. (…) La manifestazione è iniziata ed è venuto avanti un fiume umano che urlava ‘i soldati sono i figli dei lavoratori’, ‘i soldati domani saranno lavoratori’ e ‘le armi dei soldati non devono essere girate contro i lavoratori’. Il comandante si è reso conto presto che non avremmo seguito i suoi ordini, ed è stato zitto. Ce ne stavamo là, con le braccia abbassate, e alcuni piangevano”. I soldati si aprono e fanno passare il corteo. Il racconto continua: “tornati in caserma, il comandante non era troppo infastidito, ma ci disse che in futuro avremmo dovuto obbedire agli ordini. I giorni successivi furono vivaci. Prima della riunione mattutina in molti urlavano gli slogan della manifestazione, ‘i soldati sono figli dei lavoratori’, ‘basta con lo sfruttamento capitalista’”.
Il 28 settembre
È in questa situazione che Spínola prova a dare l’affondo decisivo. Il 10 settembre il Presidente della Repubblica riconosce la Guinea-Bissau come paese indipendente; nel suo discorso fa appello alla “maggioranza silenziosa del popolo portoghese”, che deve “svegliarsi e difendersi attivamente dai totalitarismi estremisti”. Qualche giorno prima aveva già avuto modo di dire che coloro che stavano portando al caos economico “non sono portoghesi, ma traditori del popolo”. Di nuovo, l’11 settembre, fa un secondo appello televisivo perché “la maggioranza silenziosa del popolo portoghese reagisca contro il comunismo”. In questo giorno Spínola è già informato della creazione di una commissione organizzativa della manifestazione che si deve tenere a Lisbona.
Cos’è la “maggioranza silenziosa”? È la base sociale che la reazione pensa di poter ricoagulare attorno alla figura bonapartista di Spínola, a un tempo “eroe della rivoluzione” e “uomo dell’ordine”. C’è il settore reazionario degli ufficiali, che si attivano per dare appoggio militare, ci sono i grandi e medi padroni, rovinati dal caos economico ed estenuati dal non avere più il controllo delle proprie aziende; ci sono i contadini piccoli proprietari del Nord. É proprio il Nord del Portogallo la zona dove si concentra la base della reazione, e infatti una partita decisiva si giocherà sui trasporti dal Nord verso Lisbona.
L’organizzazione della manifestazione è inondata di risorse economiche che arrivano dai grandi gruppi finanziari portoghesi, le famose “sette famiglie”: migliaia di comunicati e volantini vengono stampati e distribuiti, addirittura lanciati da aerei che sorvolano Lisbona. La famiglia Champalimaud offre anche proprie tenute come base per operazioni militari di supporto. La banca Espirito Santo presta i soldi necessari per l’affitto di mille autobus che dovrebbero portare i manifestanti dal Nord. Per aumentare la partecipazione, a Guimareas si distribuiscono biglietti per una partita di calcio a Lisbona, si offrono viaggi a Fatima passando dalla capitale.
Intanto si attivano, finanziano e armano gruppetti neofascisti e si prendono accordi con dei commando di paracadutisti per la guardia al palazzo presidenziale.
Il piano di Spínola è semplice: una grande manifestazione che serva come plebiscito per il Presidente della Repubblica, l’esplosione di disordini che permettano la convocazione dello stato di assedio, la concentrazione dei pieni poteri nelle mani di Spínola stesso.
Il 26 settembre i generali Spínola e Vasco Gonçalves assistono a una corrida organizzata annualmente dalla Lega dei combattenti. Nel discorso introduttivo si dedica la corrida “ai morti d’Oltremare, ai combattenti, al popolo caduto sul campo dell’onore”; risponde il grido dello stadio “Portugal, Portugal, Ultramar, Ultramar!”. La faccia terrea di Vasco Gonçalves testimonia che il Mfa ha ricevuto con chiarezza il messaggio della minaccia che si prepara. Fuori dallo stadio ci sono scontri fra i sostenitori di Spínola e i suoi oppositori, che la commissione organizzativa della manifestazione così commenta: “Sono definiti i due campi. Si è realizzato il primo atto della nostra grande manifestazione”.
La reazione in effetti riesce per la prima volta a mobilitare qualcosa di serio dal 25 aprile. È molto incerto però il successo dell’operazione, e fra le formazioni borghesi ci sono spaccature. Nel governo solo tre ministri spinolisti appoggiano le tesi del Presidente della Repubblica in una riunione il 27 settembre. Appoggia Spínola anche il Cds (Centro democratico social, formazione a destra del Ppd). Il Ppd, che fa parte del governo, dichiara che “le parole del Presidente della Repubblica sono (…) un avviso solenne e un consiglio, tanto per il Portogallo quando per Angola e Mozambico”. Come a dire: “tifiamo per te, buona fortuna, ma preferiamo restare in tribuna”. Fuor di metafora, un settore della borghesia non si fida del successo dell’operazione e preferisce tenere una posizione che lasci un’agibilità politica anche in caso di sconfitta.
Nel campo dei partiti operai, il segretario del Ps Soares viaggia allegramente all’estero tutto il mese come se nulla fosse. Il 17 settembre a Washington incontra Kissinger, presumibilmente informato del piano di Spínola, il 22 tiene un discorso all’assemblea generale dell’Onu. In Portogallo, il partito non si attiva contro i piani di Spínola.
Il Pcp si rende conto meglio del rischio e si attiva. Come? Denunciando la chiamata alla maggioranza silenziosa come offensiva reazionaria, chiedendo “l’unità e l’accordo di tutti i partiti e le organizzazioni democratiche (…) nella lotta contro le manovre e le cospirazioni della reazione e del fascismo” e dichiarando “indispensabile che sia dato tutto l’appoggio al governo provvisorio e al Mfa” perché si epuri l’apparato statale. In pratica, si chiede di dare appoggio al governo al cui interno stanno i cospiratori e l’unità di tutte le organizzazioni democratiche, fra cui per esempio c’è il Cds che appoggia Spínola. Ancora una volta, l’unica via che trovano i dirigenti stalinisti è accodarsi al Mfa per un’azione all’interno dell’apparato statale borghese. Non c’è traccia di appelli alla mobilitazione dei lavoratori, a scioperi, a comitati di soldati che dirigano l’epurazione nelle caserme, all’armamento dei sindacati e di comitati di autodifesa operaia.
Fortunatamente i lavoratori non aspettano il Pcp per muoversi. Il 26 il sindacato dei trasporti fa un appello per bloccare il trasporto dei manifestanti: i ferrovieri e gli autisti dei bus rispondono all’appello e non muovono i mezzi. Gli organizzatori minacciano di usare camion per portare i manifestanti, e in risposta a Lisbona si costruiscono barricate per impedirne l’accesso. La sera del 27 la Intersindical e i partiti della sinistra lanciano finalmente un appello via radio e i lavoratori scendono in strada. La mattina a Porto 100mila lavoratori manifestano contro il tentativo di golpe.
In effetti il tentativo di golpe, per quanto limitato, è messo in atto e porta a uno scontro nell’apparato statale. Nella notte del 26 il Copcon (Comitato operativo del continente, organizzazione militare del Mfa sotto la direzione di Otelo de Carvalho, creata l’8 luglio precedente) conduce degli arresti di “sospetti implicati in un golpe controrivoluzionario”. Spínola ritira a Carvalho il comando del Copcon e lo passa a Costa Gomes, suo vice. Ordina anche un’operazione militare della Guardia nazionale repubblicana (Gnr, formazione rimasta fedele al regime il 25 aprile) per occupare tutte le stazioni radio, tranne che la Emissora nacional. Il 28 il Presidente della Repubblica propone le dimissioni del primo ministro dopo averlo messo di fatto in stato di arresto. Gonçalves risponde proponendo la dimissione dei generali che appoggiano il tentato golpe, di un ministro spinolista e una limitazione delle facoltà del Presidente della Repubblica. Intanto le forze del Copcon sostituiscono quelle della Gnr alle stazioni radio. Spínola prova un’ultima volta a chiedere lo stato di assedio, poi si impegna a dimettersi.
Le sorti di questo scontro tutto interno all’apparato statale sono state decise fuori dai palazzi dalla mobilitazione di massa sostanzialmente autorganizzata della classe lavoratrice. Esattamente un anno prima in Cile il generale Pinochet, sostenuto dall’oligarchia cilena e dall’imperialismo statunitense aveva portato a termine un sanguinoso colpo di Stato contro il governo di Unidad popular di Allende. I lavoratori portoghesi scendono in piazza il 28 settembre urlando “il Portogallo non sarà il Cile dell’Europa!”. Avevano imparato la lezione. A differenza loro, non era stato così per le direzioni del Ps e del Pcp.
È possibile una rivoluzione pacifica?
Il fallito colpo di Stato del 28 settembre mostra come il rapporto di forze fosse manifestamente a favore della classe lavoratrice. In queste condizioni non solo gli attacchi della reazione vengono respinti, ma la sproporzione delle forze in campo fa sì che non ci sia neanche bisogno dell’uso della violenza. Questo è di grande insegnamento su come si svolgono le rivoluzioni.
Uno degli argomenti usati abitualmente dalla classe dominante per spaventare i lavoratori è che la rivoluzione è un avvenimento violento, che si lascia dietro una scia di sangue. La prima cosa che rispondiamo è che le rivoluzioni non avvengono per la cospirazione di qualche truculento comitato rivoluzionario ma perché le masse non possono più sopportare le proprie condizioni di esistenza date dal sistema capitalista. La violenza è insita in un sistema di sfruttamento: obbligare una persona a lavorare per l’80 per cento della propria giornata cosciente per sopravvivere, impedire di avere tempo libero per avere uno sviluppo personale, privare della cultura e delle migliori risorse dell’umanità, distruggerne la salute fisica e mentale per spremere fino all’ultima goccia di profitto, o condannare alla disoccupazione, far morire per malattie curabili, far patire la fame a miliardi di persone mentre si distruggono migliaia di tonnellate di cibo inutili per “il mercato”, tutto questo ha molto a che fare con una violenza sistematica che subiamo ogni giorno. Una società in cui una classe sfrutta un’altra ha la violenza come pane quotidiano e genera una risposta, anche violenta, da parte di chi subisce lo sfruttamento. Per questo la classe dominante si dota di un apparato di repressione che rivendica il monopolio legale della violenza: lo Stato. Chiunque abbia fatto uno sciopero, una manifestazione, un picchetto, un’occupazione ha presente da che parte sta l’apparato statale normalmente e come la violenza sia usata per fermare le lotte che rischiano di mettere in discussione chi comanda nella società. Quando la borghesia si sente più a rischio, non esita a dare ancora più poteri e autonomia all’apparato statale, come nel caso dei regimi bonapartisti e fascisti, che fanno un uso del tutto indiscriminato della violenza per reprimere anche le più timide forme di protesta. Arresti, pestaggi e torture sono all’ordine del giorno, come lo erano in Portogallo prima dell’aprile ’74, e si apre la strada a esecuzioni, guerre e stermini di massa. La cosiddetta “democrazia liberale” (cioè la democrazia borghese) è una forma politica che il capitalismo assume quando le tensioni sociali sono sotto il livello di guardia, il bonapartismo è la faccia del capitalismo quando rischia di essere rovesciato. Non accettiamo quindi la morale delle anime belle della borghesia illuminata.
Detto ciò, è falso dire che la rivoluzione deve essere necessariamente violenta. Ed è sbagliato, come fanno a volte alcuni elementi estremisti, sognare la rivoluzione sanguinosa in cui “si regolano tutti i conti”, o dire che ci si deve per prima cosa preparare alla guerra civile. La rivoluzione, o più precisamente la rivoluzione socialista, è semplicemente quel processo in cui le masse, e la classe lavoratrice in primo luogo, prendono nelle proprie mani la gestione della società, smettono di farla funzionare per il profitto di una infima minoranza e cominciano a dirigerla in maniera razionale e pianificata secondo i bisogni sociali. Fucilazioni e bagni di sangue non hanno nulla a che vedere con questo. Qualunque serio dirigente rivoluzionario è contrario all’uso della violenza ingiustificata, anche perché essa spaventa le masse e le rende passive. Il problema è un altro: per completare questa trasformazione, i mezzi di produzione devono essere tolti alla classe dominante e messi sotto proprietà statale e controllo democratico dei lavoratori. Il potere deve essere tolto dalle mani della classe dominante e del suo apparato repressivo e dato a consigli e assemblee di lavoratori che possano decidere cosa è necessario fare per far progredire il complesso della società. Qui sorge il vero problema della violenza: nessuna classe dominante nella storia dell’umanità ha mai ceduto il proprio potere senza provare a difenderlo con tutti i mezzi possibili.
Il punto però è: quali sono questi mezzi possibili? L’arma estrema per la classe dominante è l’esercito. Ma nel momento di avanzata della rivoluzione, quando la classe lavoratrice è mobilitata e decisa, l’esercito tende a spaccarsi su basi di classe, i soldati – lavoratori e contadini in uniforme – passano dalla parte della propria classe e l’apparato statale si disgrega.
È quando la classe dominante è isolata e disorientata che la rivoluzione può essere pacifica. La rivoluzione d’Ottobre del 1917 fu sostanzialmente pacifica fino all’intervento di 21 eserciti stranieri e alla guerra civile aperta dall’aristocrazia e dalla borghesia espropriata. La rivoluzione portoghese ha mostrato la possibilità di una rivoluzione pacifica forse come nessun’altra rivoluzione nella storia. Il rapporto di forze nella società era talmente a favore della rivoluzione che tre tentativi colpi di Stato (giugno-luglio ’74, 28 settembre ’74, 11 marzo ’75) furono respinti quasi senza spargimento di sangue. Quando si mandava l’esercito a disperdere le manifestazioni, i soldati solidarizzavano con i lavoratori. Quando poche truppe venivano usate dalla reazione, subito si ritiravano davanti alla mobilitazione di massa. Ci volle più di un anno perché la reazione mettesse insieme una base sociale di un certo peso. In questo periodo si sarebbe potuto abbattere il capitalismo non una ma cento volte, e senza la minima violenza. Ma era necessaria una direzione rivoluzionaria che portasse a compimento il processo in modo rapido ed efficace, come fu il Partito bolscevico nell’ottobre ’17. Aspettare e cercare una conciliazione con la classe dominante è invece fatale: l’unica volontà della classe dominante in una simile situazione è spazzare via i lavoratori e le loro organizzazioni, colpevoli di averla sfidata in campo aperto. Mostrarsi deboli è un invito all’aggressione. Lasciare alla borghesia i mezzi di produzione e una possibilità di recupero per l’apparato statale borghese è il modo migliore per provocare l’esplosione della violenza. In ultima analisi, una trasformazione pacifica della società sarebbe del tutto possibile se i sindacati e i dirigenti riformisti fossero preparati a usare la colossale forza che è nelle loro mani.
Da un punto di vista storico, lo sviluppo internazionale della classe lavoratrice e il peso che ha assunto nel mondo rendono oggi più che mai possibile una rivoluzione pacifica, a patto di saper garantire una direzione marxista. Come spiegava Trotskij in Se l’America diventasse comunista, illustrando le diverse condizioni statunitensi rispetto a quelle russe “Una guerra rivoluzionaria non è combattuta da una manciata di uomini al vertice – quel 5-10% che detiene i nove decimi della ricchezza americana; questo manipolo potrebbe reclutare il suo esercito controrivoluzionario tra le classi medie. Ciononostante, la rivoluzione potrebbe attrarre queste ultime alla sua bandiera dimostrando loro che solo appoggiando i soviet sarà assicurata la loro salvezza. Tutti quelli al di sotto di questa fascia sono già economicamente pronti per il comunismo. Il crack economico ha devastato la vostra classe operaia e ha già assestato uno schiacciante colpo ai contadini (…). Non c’è ragione per cui questi gruppi dovrebbero contrapporre una resistenza dura alla rivoluzione; non hanno nulla da perdere purché, naturalmente, la direzione rivoluzionaria adotti una politica lungimirante e moderata nei loro confronti.
Chi altro potrebbe combattere contro il comunismo? La vostra guardia di caporali di miliardari e multimiliardari? I vostri Mellon, Morgan, Ford e Rockfeller? Cesseranno di lottare non appena non riusciranno più a trovare gente che lotti per loro”.
Oggi questo rapporto di forze nella società è ancora più favorevole alla rivoluzione.
Il Mfa si struttura
Il tentato colpo di Stato del 28 settembre mette gli ufficiali radicali del Mfa davanti alla realtà: gli spinolisti e i settori reazionari che si erano messi dietro all’operazione di Spínola vogliono riprendere il controllo della situazione e sono disposti a usare la violenza per farlo. La forza relativa che il Mfa ha avuto nell’apparato statale è derivato dalla sua disgregazione, ma c’è un tentativo di riaggregarne il settore più reazionario, anche all’interno del Mfa stesso, e questo settore reazionario non userebbe gli stessi mezzi pacifici con cui è stato trattato. Il 2 ottobre un’irruzione del Copcon nella sede del Partito del progresso (di destra) a Lisbona trova un arsenale e piani militari, pare che i reazionari in fuga il 28 settembre abbiano lasciato in un edificio di fronte alla sede del governo un fucile di precisione puntato sulla porta di Vasco Gonçalves. Sono argomenti forti, così il Mfa decide una parziale epurazione nell’esercito. Si stabilisce una nuova età per il pensionamento degli ufficiali: 62 anni per gli ammiragli, 60 per i generali, 57 per i colonnelli. In questo modo Spínola è mandato nella riserva; il nuovo presidente è Costa Gomes. Gli spinolisti però mantengono una presenza sia nel Mfa sia nelle forze armate, soprattutto nell’aviazione.
Il settore più radicale del Mfa, non potendo confidare sul complesso dell’apparato statale, vede soprattutto la necessità di dare una maggiore strutturazione al Movimento. Si era già dotato di una propria struttura militare, interna alle stesse forze armate, il Copcon. Non si tratta di un’organizzazione militare a parte, ma di un centro di direzione autonomo rispetto allo Stato Maggiore delle forze armate. É nei fatti un elemento di dualismo di potere all’interno dell’esercito stesso, il braccio armato del Mfa.
Il 22 settembre era stato creato il Consiglio dei 20, nuovo organismo dirigente del Movimento che si basa sull’Assemblea dei delegati (o Assemblea dei 200), a cui partecipano delegati eletti dai tre rami delle forze: esercito, marina e aviazione.
Si crea anche il gruppo di “dinamizzazione culturale” affidato alla V divisione. Questo gruppo stamperà un Bollettino informativo, voce del settore di sinistra del Mfa. Comincia soprattutto un imponente lavoro di alfabetizzazione del paese, con la costruzione di scuole anche nelle aree rurali, spesso con l’aiuto della popolazione che si offre di lavorare gratuitamente quando l’esercito fornisce gli materie prime e attrezzi. Anche i medici e gli infermieri militari viaggiano per insegnare i fondamentali di igiene alimentare, di pronto soccorso, della cura dei neonati e delle madri. Si tengono discussioni su diritti civili, divorzio, emancipazione femminile. La Chiesa, che col regime deteneva praticamente il monopolio sull’istruzione, si oppone con tutti i mezzi possibili, i preti dicono ai fedeli che chi partecipa ai programmi culturali è condannato all’inferno.
È così che ufficiali e sottufficiali del Mfa si trovano in un ruolo sempre più centrale nello scontro di classe. Se prima del 25 aprile erano state le peculiarità dell’esercito portoghese a renderlo il punto di rottura delle tensioni sociali, nei mesi successivi è la combinazione della debolezza della borghesia e della mancanza di direzione rivoluzionaria del proletariato a fare emergere progressivamente il Mfa come arbitro dello scontro. Privo di una chiara visione di classe, e in fondo prodotto della radicalizzazione della piccola borghesia nell’esercito, con una lotta di tendenze, sia operaie sia borghesi, al suo interno, il Mfa si muove influenzato dalla forza degli avvenimenti.
Scrive Engels ne L’origine della famiglia: “Eccezionalmente tuttavia, vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché uguali, cosicché, il potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe”. In questo caso le forze non sono uguali, ma la mancanza di una direzione impedisce alla classe operaia di usare la propria forza. Così la direzione del Mfa prova una impossibile mediazione fra le classi, respingendo i tentativi golpisti ma cercando di riportare l’ordine nelle lotte operaie, rafforzando le proprie strutture politiche e militari. L’illusione di fondo è quella di poter avere un forte Stato borghese protagonista di politiche genericamente progressiste. Come queste strutture si orienteranno sarà invece effetto non tanto dei piani dei dirigenti del Mfa ma della lotta di classe.
A questo accentramento di potere in un settore militare dell’apparato statale il Pcp si dichiara a favore, nel suo tentativo di avere un rapporto privilegiato con il Mfa. I partiti borghesi, Ppd in testa, si dichiarano contrari non per amore della libertà ma perché temono uno spostamento troppo a sinistra del Mfa.
Il terzo governo e il controllo operaio
Il terzo governo provvisorio, dopo il 28 settembre, vede l’uscita degli spinolisti. Restano invece il Ppd, che si era tutelato apposta, e prende più forza il Mfa.
Le condizioni economiche peggiorano. Già dal 18 ottobre il governo decide di creare un gruppo di lavoro per stendere un piano di azione economico-sociale. Il gruppo è costituito da Rui Vilar, Silva Lopes, Maria de Lourdes Pintasilgo e Erik Lundberg e coordinato da Melo Antunes. Si tratta degli elementi liberali del governo, espressione diretta della borghesia al suo interno, coordinati da un elemento moderato del Mfa: anche nel terzo governo è chiaro chi prende le decisioni.
Il 12 novembre è invece il Bollettino informativo, della sinistra del Mfa, a denunciare l’assenza di una politica economica coerente.
La linea economica del governo, che non mette in discussione il capitalismo, è un vicolo cieco, e anche i settori di sinistra trovano solo la soluzione di chiedere sacrifici ai lavoratori. Gonçalves propone una domenica di lavoro per la nazione il 6 ottobre. La risposta è forte, a riprova dell’appoggio dei lavoratori al processo rivoluzionario, ma un giorno di lavoro in più non può certo risolvere il problema. Il Pcp lancia allora la “battaglia della produzione”. È in realtà una parola d’ordine che radicalizza la sua opposizione alle lotte operaie.
Ma la classe lavoratrice non si fa intimorire. Se l’ondata di scioperi durante il primo governo provvisorio aveva avuto soprattutto rivendicazioni economiche, e ad agosto-settembre si erano sfidate le leggi antisciopero, nell’autunno-inverno la questione centrale è il controllo delle aziende. Già dal 25 aprile i lavoratori rivendicavano un ruolo nella direzione e il controllo operaio di aziende come Arsenal, Carris, Banco de Fomento e Cgd, radio Emissora Nacional y Seculo, Metropolitano, Portugal e Colonias, Renault, Ciba-Gey e Sandoz-Wander, Ucal. In Itt si rivendica l’elezione capo personale, in Tap degli amministratori.
Si calcola che fra maggio e ottobre 1974 si siano sviluppate 4mila Commissões de trabalhadores (Cts – Commissioni dei lavoratori, o commissioni operaie), sempre dopo plenarias, cioè assemblee dei lavoratori. Spesso sono le commissioni dei lavoratori a controllare i libri contabili, i licenziamenti, le assunzioni. In alcuni casi esistono coordinamenti di queste commissioni.
Di fronte al sabotaggio economico della borghesia, in molti casi sono queste commissioni operaie che provano a risolvere i problemi. Succede quando i lavoratori rompono il boicottaggio delle forniture, inviando i prodotti contro le indicazioni dei padroni. Succede quando le commissioni provano a coordinarsi per razionalizzare i circuiti commerciali.
Un esempio è il tentativo dei lavoratori di tre catene di supermercati (Nutripol con 350 lavoratori, Pão de Açúcar con 2.500, Ac Santos con 450) di costruire un enorme gruppo autogestito nella distribuzione. Il 30 ottobre la direzione della Nutripo aveva sospeso il pagamento dei salari denunciando difficoltà di cassa; i lavoratori avevano occupato i negozi e tenuto i soldi delle vendite. Un mese dopo il padrone aveva ceduto e pagato i salari. Il 10 dicembre l’azienda minaccia ancora di non pagare gli straordinari; l’11 i lavoratori tornano a occupare i negozi, chiedono che lo Stato si appropri degli utili dell’azienda e che confischi i beni personali degli amministratori. Il 9 gennaio il padrone dichiara fallimento. I lavoratori si oppongono alla chiusura, si costituiscono come cooperativa e si fondono con i lavoratori di Ac Santos e Pão de Açucar, eleggendo una commissione di amministrazione del nuovo gruppo.
In questo periodo c’è un salto di qualità anche nelle lotte dei lavoratori dei campi. Dopo le rivendicazioni economiche di aumento del salario, riduzione dell’orario e garanzia del posto di lavoro, dopo le commissioni pro-sindacato e la risposta degli agrari che licenziano e lasciano i campi incolti, il 10 dicembre è occupata la prima tenuta, Monte Outerio. Sono 775 ettari, di cui solo 200 coltivati. Alla base dell’occupazione stanno le provocazioni e i licenziamenti del padrone.
Il 9 febbraio 1975 si riunisce la prima Conferenza dei lavoratori agricoli del Sud. Lo slogan della conferenza è: “Liquidazione dei latifondi, la terra a chi lavora”.
Intanto nelle città si rafforzano le commissioni dei “moradores”, gli inquilini. Fuori dalle città ci sono comitati di villaggio.
Di fatto si generalizzano elementi di potere operaio dentro e fuori dalle aziende. Perché questi embrioni si estendano e ci possa essere una pianificazione economica sotto il controllo dei lavoratori è però necessaria la nazionalizzazione delle leve dell’economica. Questa rivendicazione si fa man mano più insistente.
Il 2 gennaio si sente la voce dei bancari, i lavoratori del settore strategico per la gestione dell’economia, che nell’assemblea generale dei sindacati dei bancari chiedono la nazionalizzazione delle banche per “difendere gli interessi del popolo portoghese contro l’imperialismo, i monopoli e i latifondisti”.
Pcp e Ps sull’unità sindacale
L’appello alla nazionalizzazione non è raccolto dai partiti operai, anche se a parole dicono di lottare per una società socialista.
Il 20 ottobre 1974 si tiene il congresso del Pcp, il primo dopo la clandestinità. Le rivendicazioni massime a cui si arriva sono “liquidazione dei monopoli e promuovere lo sviluppo economico generale”, “controllo statale dell’attività della banca privata”, “appoggio e aiuto a crediti e altri stimoli per le imprese, piccole e grandi”, “fiscalizzazione e controllo statale delle aziende che si mostrano incapaci di compiere la propria funzione”, “rafforzamento delle imprese pubbliche”, “requisizione statale delle terre non coltivate”, “forte tassazione dei grandi proprietari rentier che non coltivano”. Rivendicazioni come nazionalizzazione, riforma agraria, coordinamento delle commissioni operaie non se ne vedono.
Anche il Ps nella pratica si rimette alle linee economiche del Mfa; prova ne è il fatto che Melo Antunes, responsabile del piano economico del governo, scriva abitualmente su Portugal Socialista, organo del Ps. Dopo la sconfitta del 28 settembre anche l’imperialismo statunitense presta maggiore attenzione al Ps come possibile opzione alternativa alle soluzioni bonapartiste. Kissinger invia una propria delegazione in Portogallo per testare l’affidabilità di Soares, al quale pochi giorni dopo la crisi di fine settembre aveva detto: “Il Portogallo è perduto. Le consiglio di restare negli Usa, perché è meglio che non diventi un secondo Kerenskij”. Due mesi dopo, il 13-14 dicembre, Soares, come abbiamo anticipato, parla di dittatura del proletariato al congresso nazionale del Ps. Non poteva fare altrimenti in una situazione del genere.
Nel gennaio 1975 c’è il primo conflitto serio fra Pcp e Ps. Il tema è una proposta di legge che prevede un’unica centrale sindacale per i lavoratori portoghesi, nega la libertà di corrente sindacale e mette l’Intersindical sotto il controllo dello Stato. La legge rientra nella concezione del Mfa di mettere sotto tutela il movimento operaio per esserne l’arbitro. Il Pcp appoggia il progetto, perché ha un ruolo dominante nella direzione dei sindacali e soprattutto dell’Intersindical e in questo modo impedirebbe la costituzione di sindacati concorrenti. I gruppi del-l’estrema sinistra si schierano a favore del principio di unità sindacale. Il Ps, che peraltro stava lavorando a una scissione sindacale dopo aver conquistato molti nuovi quadri sindacali sulla base del suo posizionamento tattico a sinistra del Pcp sulle libertà sindacali, protesta perché la misura è antidemocratica. Alla testa dell’opposizione è Salgado Zenha, Ministro della giustizia e dirigente della destra del Ps. Gli slogan del Ps sono a sinistra: “né dirigismo, né pluralismo, sindacalismo di base”. Su questa campagna il Ps crea la propria caratterizzazione come partito del “socialismo nella libertà”, contro l’impostazione centralista e burocratica del Pcp.
Il dibattito è molto sentito nel paese, visto che il 50 per cento dei lavoratori è ormai sindacalizzato ed è un esempio chiaro della mancanza di alternative che si ritrova la classe lavoratrice portoghese. Sebbene sia corretto tutelare e costruire l’unità della classe operaia, questa non si può imporre dall’alto con un decreto; l’unità – l’unità reale – della classe si può ottenere solo dando il massimo grado di democrazia all’interno delle organizzazioni. Questo è ancora più sentito in un paese che esce da 48 anni di dittatura bonapartista, negazione di qualsiasi diritto democratico e sindacati corporativi controllati dal regime. Le posizioni del Pcp gli alienano progressivamente settori di classe operaia – oltre che di piccola borghesia – che non sono disposti a mettere in discussione la propria libertà. Dall’altra parte, il generico richiamo alla “democrazia” del Ps è del tutto vano se non si accompagna a rivendicazioni che superino un’economia capitalista. Perché la democrazia si deve fermare ai cancelli delle fabbriche, al cui interno devono essere i padroni a comandare? Cosa vuol dire difendere la libertà sindacale mentre si appoggiano le misure antioperaie dei ministri borghesi del governo?
Il confronto si decide a favore della legge di unità sindacale, con un corteo di massa convocato per il 14 gennaio dall’Intersindical, a cui aderiscono il Pcp, il Mdp (Movimento democratico portoghese – nei fatti un’appendice a sinistra del Pcp), il Mes (Movimento della sinistra socialista) e il Fsp. Il 20 gennaio la legge è approvata dal Consiglio dei ministri, il 28, dopo un certo dibattito, dall’assemblea del Mfa.
Il Ps è riuscito così a emergere molto nel dibattito, ma è ancora il Pcp che vince la battaglia. Proprio in questo periodo peraltro il Pcp cambia tattica sulle commissioni operaie, non contrapponendo più il sindacato alle commissioni operaie nelle fabbriche ma lavorando per prendere il controllo delle commissioni. È lo stesso principio che aveva permesso alla burocrazia della Cgil durante l’autunno caldo di riprendere il controllo dei consigli di fabbrica in Italia. Anche il Pcp in quel periodo prende il controllo di diverse commissioni operaie, come quella di Lisnave, Stenave, Siderurgia, Efacec e Sorefame, legando queste commissioni all’Intersindical.
Posizionamenti
Nel febbraio del 1975 il Mfa fa un ulteriore passo avanti nella definizione del proprio ruolo all’interno dell’apparato statale, dopo la strutturazione autunnale. Il 6 febbraio l’Assemblea dei 200 dà mandato al Consiglio dei 20 di elaborare una proposta di istituzionalizzazione del Mfa. Lo stesso giorno dà pieni poteri alla Giunta per “epurare e dare moralità allo stile di vita nazionale e opporsi alle manovre contro l’economia, la difesa nazionale e l’ordine pubblico”. Il 12 febbraio Soares a sua volta fa appello alla Giunta perché ponga “fine allo stato di insicurezza sociale in Portogallo rendendo chiari i propri obiettivi e i propri scopi”. Paradossalmente, è solo il borghese Ppd a denunciare la Giunta di minare il ruolo dei partiti civili, perché si rende conto di non avere influenza sui militari. Il 17 febbraio l’Assemblea dei 200 prende conoscenza della proposta del Consiglio dei 20 sull’istituzionalizzazione del Mfa. Il 20 febbraio si svolge l’incontro della Commissione degli 8 (espressione del Mfa) con i leader politici di Ppd, Ps, Pcp, Mdp, Cds sulla proposta. Il nucleo della proposta è il riconoscimento degli organismi del Mfa come organismi statali e un loro potere decisionale o di veto sulle altre istituzioni dello Stato. Prepara il terreno a una Costituzione bonapartista militare, che però ha al suo centro il Mfa, che la borghesia non controlla. Così, più aumentano gli elementi di bonapartismo, più si accende lo scontro all’interno del Mfa, in cui si esprimono le tendenze in lotta nella società.
Intanto il 21 febbraio il governo illustra il piano economico a cui lavora da mesi. La dichiarazione di Melo Antunes è significativa: “Il governo non seguirà una via avventurista che porrebbe in questione i rapporti di produzione nei paesi dell’Europa occidentale”. Il piano in effetti è più modesto delle misure che sono state prese nel secondo dopoguerra in Italia e Francia, o dal governo laburista britannico. Prevede il controllo parziale di alcune industrie, l’esproprio di una minoranza di terre, un aumento di investimenti stranieri, il possesso statale del 51% dei settori strategici: miniere importanti, petrolio, petrolchimica, gas naturale, acciaio, tabacco, armi. Oltre a questo, iniezione di aiuti statali contro fallimenti e disoccupazione, un miglioramento dei servizi sanitari e una riforma dello stato sociale. Si parla di nazionalizzazione ma delle sole banche emittenti. Tutto questo da fare in addirittura tre anni. Antunes lo definisce un piano “rivoluzionario”, il che dà la misura del limite massimo che si pone il governo. Il piano è appoggiato da Ps e Pcp, che si guardano bene dall’andare oltre. Abbastanza indicativo che sia appoggiato anche alla Confederazione dell’industria portoghese (Cip). Non a caso, ma proprio perché è un piano dove le nazionalizzazioni sono uno strumento per sostenere i settori in crisi con i capitali pubblici. Non è un piano contro il capitalismo, ma per salvare il capitalismo portoghese.
Ma i fatti si muovono rapidamente e la situazione è già precipitata. Per tutto il mese, parallelamente alla discussione sull’assetto dell’apparato statale, ci sono provocazioni reazionarie. Il 7 marzo la Nato fa manovre al largo delle coste portoghesi per spaventare le masse e gli ufficiali. È organizzata una manifestazione, a cui non aderiscono i partiti del governo, vengono mandate le truppe a reprimere ma ancora una volta si uniscono al corteo, addirittura sfilando dietro ai lavoratori. Nella seconda metà del mese circolano voci di preparativi di colpo di Stato. Il 27 febbraio Soares denuncia che “una profonda spaccatura nella società portoghese e infine un blocco economico o un intervento straniero” sono “possibilità che non possono essere escluse o prese alla leggera”.
Dal 3 all’8 marzo si tengono le elezioni per i consigli militari e c’è un cambio di rapporti di forza notevole. Sono eletti molti ufficiali spinolisti, mentre vengono sconfitti candidati di primo piano del Mfa, fra cui Melo Antunes, Vasco Gonçalves, e Otelo de Carvalho. Per gli spinolisti è il segnale che il terreno è pronto per l’attacco. L’11 marzo va in scena il tentativo di golpe militare più serio del processo rivoluzionario.
11 marzo
I piani per l’11 marzo andavano avanti da tempo, secondo Alpoim Calvão dal fallimento del 28 febbraio, per trovare il modo di “limitare i danni” contro l’avanzata del comunismo. Lo spostamento a destra della casta militare crea le condizioni per entrare in azione, con l’appoggio delle banche, che finanziano ancora una volta l’operazione, e dell’ambasciata statunitense.
Alle 11,45 un attacco aereo colpisce la caserma del Ral-1 (Reparto di artiglieria leggera), uno dei reparti più a sinistra dell’esercito. Nell’attacco muore un soldato e ci sono 15 feriti. Un quarto d’ora dopo i paracadutisti del reggimento di Tancos circondano la caserma. Si intima la resa del comandante del Ral-1. Intanto a Largo del Carmo la caserma della Guardia repubblicana viene occupata da ufficiali spinolisti.
L’azione militare è abbastanza debole, ma ancora un volta è la forza della rivoluzione a liquefare i piani golpisti, con una dinamica che ha dell’incredibile. Nella situazione di stallo fuori dalla caserma del Ral-1 arrivano operai e abitanti dei quartieri vicini, che si assiepano intorno alla zona e chiedono ai paracadutisti di desistere dall’attacco. Il capitano dei paracadutisti, Sebastião Martins, va a parlare con il capitano della caserma Diniz de Almeidam, che gli dice che hanno ricevuto ordini gli uni opposti agli altri. I due alla fine decidono di andare a consultare i superiori. I paracadutisti scopriranno poi di aver ricevuto indicazioni false: era stato detto loro che dovevano bloccare cospiratori anarchici che si erano impossessati della caserma. Un’altra versione è che nella caserma si stesse preparando un’esecuzione sommaria di 1.500 persone. I paracadutisti e le truppe scelte, esagitati, avventuristi, selezionati con cura dai superiori, sono di norma i settori più reazionari delle forze armate. L’11 marzo 1975, fuori dalla caserma del Ral-1, nel mezzo di un processo rivoluzionario, circondati da lavoratori che chiedevano loro di non rendersi strumento della controrivoluzione, i paracadutisti lasciano le proprie posizioni, dichiarano “noi non siamo fascisti”, fraternizzano con i lavoratori e vanno ad abbracciare i soldati dell’artiglieria che circondavano. Intanto nella base aerea 3, da dove è partito l’attacco, i sottufficiali si ammutinano e arrestano un generale golpista. In tutto il paese intanto, spontaneamente e rispondendo all’appello dell’Intersindical e dei partiti operai, i lavoratori hanno alzato barricate, organizzato picchetti fuori dalle stazioni radio e televisive, nelle banche, e nei quartieri, bloccato le aziende. Sono assaltate la casa di Spínola e le sedi del Cds a Lisbona e del Ppd a Porto. Manifestazioni di massa a Lisbona fino alla notte, insieme alle truppe del Ral-1, chiudono la giornata.
Gli ufficiali coinvolti nel golpe e Spínola possono solo salire su un elicottero e fuggire in Spagna.
“Il capitalismo è morto”
È una legge della dialettica, oltre che della fisica, che a ogni azione corrisponda una reazione. Nella lotta di classe Marx lo tradusse dicendo che la rivoluzione necessita della frusta della controrivoluzione per avanzare. Questo è vero ancora di più quando manca una direzione rivoluzionaria e le masse devono trovare la strada per tentativi e sulla base degli avvenimenti. La dinamica di fondo della rivoluzione portoghese è stata dettata proprio da questa legge: a ogni tentativo della reazione è corrisposta una mobilitazione delle masse che si è riflessa in uno spostamento a sinistra nella direzione. è successo col primo tentativo di golpe di palazzo e il passaggio dal primo al secondo governo provvisorio; è successo con la tentata manifestazione della “maggioranza silenziosa” e il passaggio al terzo governo provvisorio; succede l’11 marzo, a un livello ancora superiore.
I lavoratori delle banche avevano già avuto modo di stare in testa alle lotte nel 1969, per l’elezione dei propri delegati sindacali, e avevano avanzato nel gennaio del 1975 la rivendicazione della nazionalizzazione del sistema bancario.
Sono al cuore del boicottaggio economico della borghesia portoghese e straniera: vedono coi propri occhi quotidianamente i flussi di capitali in uscita, i crediti negati o, ancora peggio, i flussi di denaro che vanno a finanziare le operazioni della reazione, primo fra tutti il tentativo del 28 settembre. A questo si somma un altro elemento: il settore bancario è poco controllato dal Pcp. Questo fa sì che i dirigenti sindacali non possano esercitare con la dovuta forza l’azione di freno che applicano invece nelle categorie dove sono più presenti.
Subito dopo il tentato golpe dell’11 marzo, i bancari entrano in sciopero, occupano gli uffici, fanno picchetti ed esigono la nazionalizzazione dell’intero sistema bancario portoghese. In quei giorni all’entrata delle banche campeggiano striscioni come “banca del popolo” o “la banca appartiene al popolo”. I lavoratori delle assicurazioni seguono l’esempio e fanno lo stesso.
Assemblee operaie si riuniscono in tutto il paese ed esigono la nazionalizzazione dei principali gruppi: Cuf, Crge (gas ed elettricità), Ctt.
Il Mfa la notte stessa dell’11 marzo ha un’assemblea, che sarà definita “l’Assemblea selvaggia”, in cui si destituiscono gli ufficiali spinolisti, si decide l’istituzionalizzazione del Movimento e la nascita del Consiglio della rivoluzione, che va a sostituire la Giunta e il Consiglio dei 20, e a cui vengono dati poteri totali per “dirigere e portare fino in fondo la rivoluzione in Portogallo”.
Il 14 marzo si istituisce l’Assemblea del Mfa, che nei fatti già esisteva, cambiando la composizione: ci saranno d’ora in poi sergenti e sottufficiali in egual numero degli ufficiali. L’assemblea sarà composta da 120 membri dell’esercito, 60 della marina e 60 dell’aviazione.
Sono arrestati 131 militari golpisti fra cui il comandante dei paracadutisti Rafael Durão e il maggiore José Sanchez Osório, leader del Partito democratico cristiano, che sarà messo fuori legge il 18 marzo. Sono arrestati anche uomini d’affari, oltre a sette membri della famiglia Espirito Santo e Jorge e José Manuel de Mello, direttori della Cuf. Poi saranno tutti liberati.
Soprattutto, il 14 marzo il governo approva la nazionalizzazione delle banche e delle assicurazioni con indennizzo solo per i piccoli risparmiatori. Sono nazionalizzate, fra le altre, Espirito Santo, Português do Atlântico, Borges e Irmâo, Pinto e Sotto Mayor, Totta e Açores, Fonsecas e Burnay.
Nei giorni successivi si nazionalizzano 14 imprese di produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica, 5 imprese petrolifere, 4 grosse imprese di trasporti e il governo di impegna a nazionalizzare settori fondamentali come le miniere, la petrolchimica, la cellulosa, i cantieri navali, l’industria metalmeccanica pesante e dare inizio alla riforma agraria. Nei campi del Sud sono già occupate centinaia di migliaia di ettari, gestite da Unità collettive di produzione. Decine e decine di fabbriche sono in autogestione, la proprietà privata è più che altro un’illusione.
Complessivamente si arriva a nazionalizzare più del 50 per cento dell’intera economia. Considerando che le banche e le assicurazioni controllavano gran parte delle aziende rimaste private, la percentuale reale è molto più alta. È in questo momento che il Times pubblica il celebre titolo: “Il capitalismo in Portogallo è morto”.
Il movimento che si scatena dopo l’11 marzo pare inarrestabile, e la casta degli ufficiali lo asseconda. Dichiara per la prima volta che l’obiettivo è il socialismo. Nel giro di pochi minuti, i partiti che fino a quel momento avevano ritenuto la nazionalizzazione delle banche e la lotta per il socialismo qualcosa da rimandare a un lontano futuro, cambiano idea e si accodano, per l’ennesima volta, al Mfa, che si trova sempre di più solo alla guida del processo rivoluzionario.
Il Mfa e la possibilità del bonapartismo proletario
Una delle basi fondamentali del materialismo storico è il fatto che le condizioni materiali di esistenza determinano, in ultima analisi, la coscienza. Questo comporta che persone con determinate idee, in condizioni diverse, possano agire in modo diverso, e possano anche andare in direzioni che inizialmente non avevano preso minimamente in considerazione. Quando Fidel Castro progettò di partire per Cuba e iniziare una guerriglia contro Batista, non aveva nessuna intenzione di arrivare a rovesciare il capitalismo. Desiderava solo togliere il popolo cubano dal giogo della dittatura e dall’oppressione imperialista. Per farlo, però, si trovò costretto a nazionalizzare le leve dell’economia, soprattutto dopo che lo sbarco alla Baia dei Porci gli aveva chiarito che l’unica soluzione che avrebbero accettato l’oligarchia cubana e l’imperialismo statunitense sarebbe stata la sua morte. Per fare un esempio più recente, quando nel 1998 Chavez andò al potere in Venezuela, non era un rivoluzionario. Era un militare che aveva provato un colpo di Stato progressista sei anni prima, che amava il suo popolo e voleva migliorarne le condizioni di vita. In un primo periodo si limitò a sviluppare alcune riforme, fra cui la Mision Robinson, per garantire una scolarizzazione di base nel paese (non sfuggono i punti di contatto col progetto di dinamizzazione culturale della V divisione portoghese). Non voleva espropriare l’oligarchia venezuelana, ma trovare un compromesso che permettesse migliori condizioni di vita per il popolo. Queste riforme però andavano a ledere gli interessi della classe dominante venezuelana, che organizzò nel giro di due anni un colpo di Stato e una serrata padronale. In quel momento Chavez si rese conto che, se fosse stato sopraffatto, avrebbe perso il potere politico e certamente anche la vita. Fu la mobilitazione di massa dei lavoratori venezuelani, specialmente di Caracas, che gli permisero di superare questi attacchi, e da allora approfondì il suo rapporto col popolo e nazionalizzò alcuni settori, minoritari, dell’economia; quel processo rivoluzionario, anche dopo la sua morte, potrà concludersi solo con la definitiva nazionalizzazione dei mezzi di produzione e la loro gestione pianificata da parte dello Stato o con un ritorno al potere dei partiti borghesi e una feroce stagione di reazione. Questi due esempi, diversi per molti versi e certamente nell’esito, mostrano che la rivoluzione non è un copione scritto una volta per tutte a cui delle classi operaie e delle direzioni create in laboratorio si devono attenere, ma è un processo vivo che parte dalle condizioni materiali date e stravolge molte volte la situazione cercando la sua via.
In Portogallo, dopo l’11 marzo 1975, esisteva una reale possibilità, per un breve lasso di tempo, che il processo rivoluzionario approdasse a uno Stato operaio deformato, cioè uno Stato in cui l’economia è nazionalizzata e pianificata centralmente, ma il potere politico è concentrato in una casta e non esercitato democraticamente dai lavoratori. Il Mfa si trovò, sulla base della pressione della classe lavoratrice, a nazionalizzare la maggior parte dell’economica nazionale. Oltre che per la pressione dal basso, gli ufficiali presero questa decisione perché si resero conto che, se la manifestazione della “maggioranza silenziosa” prima, o il tentato golpe dopo, avessero avuto successo, sarebbero stati in buona parte arrestati o eliminati fisicamente. I 48 anni di regime salazarista e l’esempio cileno dell’anno prima rendevano questo concetto molto chiaro nella mente degli ufficiali. Il capitalismo mondiale era in crisi e il debole capitalismo portoghese non offriva loro una possibilità di sviluppo per il paese. La mobilitazione rivoluzionaria esercitava una pressione fortissima per farla finita con il capitalismo. Dall’altra parte però i militari non erano un partito politico composto di lavoratori, ma pur sempre una casta a parte, abituata a un funzionamento gerarchico e antidemocratico. Si erano trovati inoltre, in tutti i passaggi cruciali, a dover prendere in mano la situazione scavalcando i partiti operai, i cui dirigenti erano un freno e non un motore per la rivoluzione. Erano influenzati dalle masse ma avevano un rapporto diretto (Mfa-popolo, lo chiameranno poi) di tipo bonapartista in cui cercavano l’unità col popolo ma non si rimettevano a organismi di potere operaio. Uno Stato operaio in quel momento non avrebbe quindi probabilmente preso le forme di uno Stato operaio sano, gestito cioè in modo democratico dai lavoratori attraverso organismi come consigli di operai e soldati, o di quartiere, coordinati fra loro, ma in modo autoritario dagli ufficiali del Mfa, magari attraverso un nuovo partito fantoccio, unico legale.
Era, fra l’altro, l’unico modello alternativo al capitalismo esistente in quel momento, in Urss, Cina, Jugoslavia, Cuba, nell’Est Europa. Non tanto per il ruolo del Pcp, ma per il loro peso, questi regimi avrebbero fornito un esempio su cui modellarsi, anche se sulla base di una diversità nazionale (e d’altronde il nazionalismo è un elemento caratterizzante degli Stati operai deformati).
Se storicamente Stati operai deformati sono nati per la debolezza della classe operaia nei rispettivi paesi (tranne che nei casi della Polonia e della Cecoslovacchia, dove l’Urss ha giocato un ruolo determinante), non era questo il caso del Portogallo. Piuttosto, un tale regime si sarebbe affermato per la debolezza del capitalismo e la mancanza totale di una direzione politica. La forza della classe operaia portoghese non avrebbe però permesso una stabilizzazione di un regime del genere. Con un’economia pianificata che avrebbe dato vigore a un nuovo sviluppo delle forze produttive, presto i lavoratori, che avevano un peso determinante nella società, avevano alle spalle una rivoluzione e avevano già dato vita a commissioni operaie nelle fabbriche (anche se non collegate fra loro), sarebbero tornati a lottare per ottenere una vera democrazia operaia.
La possibilità di un regime bonapartista proletario in Portogallo raggiunge il suo apice fra l’11 e il 25 aprile 1975. Già il 10 aprile il Ministro per le comunicazioni sociali dice che forse è stato un errore permettere la formazione di partiti politici in Portogallo. L’11 aprile è approvato ufficialmente il patto Mfa-partiti, cioè l’accordo quadro che determina alcuni punti da inserire nella Costituzione a cui si dovrà lavorare nei mesi successivi. L’accordo prevede che il Mfa nomini una commissione che accompagni i lavori dell’Assemblea costituente nella stesura della nuova Costituzione; che nessun partito di opponga all’istituzionalizzazione del Mfa; che il Consiglio della rivoluzione (Cdr) abbia diritto di veto sulla Costituzione; che il Presidente della Repubblica sia eletto dall’Assemblea del Mfa e dalla futura Assemblea legislativa (quindi che il Mfa abbia potere di veto sul Presidente della repubblica); che il Mfa abbia forti poteri di controllo sul governo provvisorio e sull’Assemblea legislativa; che il Presidente della Repubblica nomini il primo ministro; che il Mfa debba approvare la nomina del Ministro della difesa, dell’amministrazione interna e della pianificazione economica; che le Forze armate abbiano un ruolo indipendente. Infine, che “la Costituzione dovrà consacrare i principi del Programma del Mfa, le conquiste legittimamente ottenute lungo il processo, così come gli sviluppi del Programma imposti dalla dinamica rivoluzionaria che in modo chiaro e irreversibile ha impegnato il paese in una via originale verso un Socialismo portoghese”.
Lo sviluppo che abbiamo appena descritto, che pareva il più probabile in quelle due settimane, sarà bloccato dalle elezioni dell’Assemblea costituente, che consegneranno un rapporto di forze diverso e ridaranno alla reazione la possibilità di bloccare quel processo, usando la direzione del Ps come strumento sul campo. Questo riaprirà anche lo scontro all’interno del Mfa per determinare il settore egemone, scontro che si chiuderà solo il 25 novembre.
Il Ps apre lo scontro
Il 25 aprile si tengono le elezioni per l’Assemblea costituente. I risultati vedono un netto successo del Ps che prende il 38,87% dei voti; il Ppd 26,38%, il Pcp 12,53%, il Cds 7,65%, il Mdp 4,12%. Il Mfa aveva dato indicazione di votare scheda bianca, ma alla fine le bianche sono solo il 6,94%. Un altro 4% è diviso fra i gruppetti dell’estrema sinistra. A Lisbona il Ps prende il 46% e il Pcp il 19%.
Le elezioni sono sempre uno specchio distorto della situazione politica e sono un terreno dove hanno un peso maggiore gli elementi più arretrati. Se nella lotta rivoluzionaria sono le avanguardie e i settori avanzati a determinare gli sviluppi, nelle elezioni il voto di un membro, per fare un esempio, della commissione operaia di Lisnave, o di un soldato del Ral-1 vale come quello di un contadino del Nord che è stato passivo per tutti questi mesi. Ciononostante, i voti per i partiti operai (Pcp, Ps, Mdp, estrema sinistra) e del Mfa, sommati, corrispondono ai due terzi del totale. Tale è la base di sostegno per il socialismo in questo momento. Tutti questi partiti infatti dichiarano come proprio obiettivo il socialismo, non sarebbe altrimenti comprensibile il successo del Ps sul Pcp. Il punto fondamentale è che le masse si trovano a scegliere fra due partiti che parlano entrambi di socialismo, ma fra cui il Pcp è identificato con gli Stati operai deformati dell’Est Europa, burocratici e antidemocratici, e attacca continuamente le mobilitazioni operaie, mentre il Ps difende il suo modello di “socialismo nella libertà”. Per dare un esempio, il volantino del Ps verso il primo maggio recita “controllo operaio e autogestione”.
Da questo momento il Ps apre uno scontro frontale con il Pcp per il controllo nei sindacati, nelle amministrazioni locali, nel governo provvisorio, nel Mfa. In questa offensiva si manifesta il cambio ormai generale di orientamento della classe dominante portoghese e dell’imperialismo, sia statunitense che europeo. Bruciata ogni possibilità di svolta militare, salvo provocare ulteriori salti avanti della rivoluzione, l’unica possibile carta da giocare è Soares.
Il primo terreno di scontro è la manifestazione del primo maggio 1975. Il Ps pretende che possano prendere la parola al comizio finale solo i dirigenti del Pcp, del Ps e del Mdp (non del Mes e del Fsp) sulla base di un principio di rappresentatività. La controproposta dell’Intersindical è che non prenda la parola nessun dirigenti di partito. Il Ps, che è alla ricerca di un pretesto, convoca a questo punto un corteo separato che finisce insieme a quello della Intersindical, con un comizio parallelo. Finito il comizio separato, Soares prova a raggiungere il palco dell’Intersindical, ma un militante dell’Intersindical lo blocca; la cosa genera degli scontri fra militanti del Ps e del Pcp, trasmessi in diretta. Il giorno dopo il Ps convoca un corteo di protesta con lo slogan “si deve rispettare la volontà popolare”, chiedendo elezioni interne al sindacato.
República, il casus belli
Il 19 maggio si apre il secondo terreno di scontro, il “caso República”. A seguito delle discussioni sull’orientamento del giornale, il 2 maggio i lavoratori revocano il direttore Raul Rêgo, accusandolo di aver trasformato República in un “organo ufficioso del Ps”, e lo sostituiscono con Belo Marques. Il 22 maggio i ministri del Ps decidono di non presentarsi alle riunioni del governo per protesta, aprendo una crisi di governo. Il Pcp dichiara di non essere coinvolto nelle azioni dei lavoratori ma non prende posizione contraria. In effetti è vero che il direttore di República aveva fatto del giornale un organo ufficioso del Ps, ed è corretto che i lavoratori vogliano avere il controllo della redazione. Dall’altra parte però l’accesso alla stampa deve essere garantito alle organizzazioni del movimento operaio sulla base della loro influenza nella classe e del loro riconoscimento. I lavoratori di República capiscono che il Ps si sta spostando a destra, ma l’unica risposta che trovano è un’azione che li fa passare come censori del Pcp o del Mfa, con la quale non riescono a conquistare la base del Ps, ma anzi la compattano attorno alla direzione del partito che, in risposta alla chiusura, pubblica nientemeno che gli scritti di Marx contro la censura in Prussia. Il 6 giugno il Consiglio della rivoluzione, che prima era stato neutrale nello scontro, propone che il giornale sia riaperto sotto la vecchia direzione. Il 18 un comunicato del Copcon solidarizza con i lavoratori: la polarizzazione torna ad acutizzarsi anche nel Mfa, fra un settore conciliatore attorno ai dirigenti governativi e uno più radicale attorno al Copcon. Il 24 si tiene una manifestazione partecipata contro l’occupazione della redazione. Lo slogan più cantato è “República è del popolo, non di Mosca”. Il 10 luglio il giornale riapre, sotto il controllo dei lavoratori, con un nuovo direttore indicato dal Consiglio della rivoluzione, Pereira de Carvalho. Il Ps organizza un’altra manifestazione sotto la redazione, in cui vengono bruciate in piazza decine di copie del giornale.
Sulla base di questa crisi il Ps fa un altro passo avanti: lascia il governo e lancia un’ondata di proteste in tutto il paese. Il 17 luglio il Ppd farà lo stesso. È la fine del quarto governo provvisorio.
Tendenze sociali e politiche
Il “caso República” è solo un necessario terreno di scontro perché si possano esprimere le tendenze che si sono sviluppate nella prima metà dell’estate del ’75, in cui molte cose cambiano. Anche se uscirà dal governo solo a luglio, già dal 2 giugno il Ps si schiera con i partiti borghesi Ppd e Cds nelle sedute dell’Assemblea costituente, lasciando all’opposizione Pcp e Mdp. Il Ps progressivamente attrarrà sempre meno dalla sua sinistra e diventerà invece punto di riferimento di settori piccolo-borghesi e reazionari.
Esiste una base sociale per lo spostamento a destra dei rapporti di forza. Dopo l’11 marzo si nazionalizza man mano la maggior parte dell’economia (le nazionalizzazioni vanno avanti nel corso di aprile, maggio, giugno fino all’inizio di luglio) ma non si completa l’opera con una nazionalizzazione totale e, soprattutto, non si sviluppa alcuna pianificazione, né alcun controllo da parte dei lavoratori. Questo comporta il peggioramento delle condizioni di vita soprattutto dei contadini e della piccola borghesia urbana: aumento dei prezzi, speculazione, rovina dei circuiti commerciali, assenza di una vera politica di credito e distribuzione.
Al tempo stesso al governo c’erano Pcp, Copcon, Mfa, Consiglio della rivoluzione. I problemi così restano e soprattutto la piccola borghesia comincia ad essere esasperata dalle difficoltà economiche e a chiedere ordine e tranquillità. A questo settore si sommano, soprattutto dalla fine di luglio, i retornados: almeno mezzo milione di portoghesi che vivevano nelle colonie e che, come effetto della decolonizzazione, devono tornare in Portogallo, una terra che magari non avevano mai visto. Spesso hanno perso tutto e questo radicalizza contro la rivoluzione i loro sentimenti, già non esattamente progressisti vista la vita che facevano prima. Un articolo dell’Economist del 16 agosto 1975 così descrive il problema riguardo all’Angola: “Così la maggior parte di loro, in un modo o nell’altro, dovranno andare in Portogallo [essendo rifiutati da paesi limitrofi come il Sudafrica]. Ma questa non è una bella prospettiva per la giunta portoghese, assalita dalle sommosse e assediata dalla disoccupazione. I bianchi dell’Angola non amano l’esercito che, dicono, li ha venduti. La maggioranza di loro è conservatrice per istinto e in gran parte vengono dal Nord del Portogallo, l’attuale roccaforte dell’opposizione anti-comunista. Quando recentemente è stato chiesto a un bianco cosa avrebbe fatto una volta tornato in Portogallo, ha risposto che se non avesse potuto trovare un lavoro si sarebbe unito all’Elp, l’esercito fascista clandestino”.
In effetti gli organizzatori dell’11 marzo hanno nel frattempo messo in piedi alcune organizzazioni terroristiche, fra cui soprattutto l’Elp e il Mdlp, fiancheggiati dai partiti borghesi e appoggiati logisticamente dalla Spagna. Sono organizzazioni minoritarie, che non possono lanciare un’offensiva frontale, ma che saranno usate per una lunga serie di azioni contro sedi e attivisti della sinistra, soprattutto del Pcp. Hanno terreno libero soprattutto nel Nord, base della reazione che si appoggia soprattutto sui contadini e dove la Chiesa rialza la testa con una campagna sistematica contro la “minaccia comunista”.
Anche la Chiesa trova il suo terreno di scontro: il 27 maggio i lavoratori di Rádio Renascença (radio cattolica) occupano gli studi e cambiano lo slogan della stazione da “Rádio Renascença, emittente cattolica portoghese” a “Rádio Renascença al servizio dei lavoratori”. Il 18 giugno si fronteggiano una manifestazione e una contro-manifestazione sotto il Patriarcato, il Ps dichiara il suo appoggio alla Chiesa cattolica. Il giorno dopo di nuovo manifestazione e contro-manifestazione. I cattolici urlano “vogliamo amore, giustizia e pace”. Intanto si preparano a incendiare le sedi del Pcp nel Nord.
Dall’altra parte il movimento operaio era tornato comunque a premere in maggio e giugno. In giugno ci sono scioperi e occupazioni alla Sofil, Leonesa e Tlp, questi ultimi si uniscono alle manifestazioni contro l’aumento del biglietto nei trasporti. Il 23 giugno i lavoratori Cuf chiedono la nazionalizzazione dell’azienda e la sua epurazione. Il 4 luglio i lavoratori delle commissioni operaie coordinate nella Cintura industriale di Lisbona manifestano a favore del potere popolare. Nell’Alentejo si generalizza l’occupazione delle terre, fino a 200mila ettari. I lavoratori della Sacor a maggio dichiarano che sono pronti a cedere benzina e gas gratis alle aziende con problemi economici dalle quali i padroni sono scappati.
Non c’è più quel rapporto di forze sovrastante dei mesi precedenti: a riprova di quanto dicevamo sopra, è stata proprio la mancanza di una direzione rivoluzionaria decisa a ricreare le condizioni per un aumento della violenza nello scontro.
Il Pcp non sa rispondere all’offensiva reazionaria: denuncia la campagna anticomunista, chiede l’appoggio dei lavoratori, ma poi torna sempre a dire che questo appoggio deve esprimersi nel sostegno codista al governo e al Mfa. Chiama a un rafforzamento degli organismi operai nelle fabbriche, ma poi di nuovo dice che devono obbedire in tutto al Mfa. Dichiara che “l’Assemblea costituente ha come scopo elaborare la nuova Costituzione e non deve intervenire in nulla della politica quotidiana né nell’attività del governo”. Pone così la questione solo come scontro fra diversi settori dell’apparato borghese; davanti all’offensiva del Ps in nome di una astratta “democrazia” contro l’accentramento di poteri nelle mani del Mfa non sa contrapporre la democrazia operaia alla democrazia borghese.
Il Mfa vive un altro cambiamento della situazione interna. Il settore di sinistra perde progressivamente l’egemonia che ha avuto in marzo-aprile. Lo scontro nella società si riflette nel Mfa polarizzando progressivamente una sinistra che farà fronte con il Pcp e un centro-destra che farà poi fronte con il Ps. La sinistra presenta un “Documento-guida di alleanza popolo-Mfa” in cui si parla di rafforzamento del carattere statale dell’economia, battaglia per aumentare la produzione e riforma agraria; strutturazione di organismi di potere popolare a partire dai consigli di fabbrica e di quartiere e sostituzione graduale dello Stato borghese; tutto sotto il controllo del Mfa che detiene il monopolio sull’uso della forza. È lo sviluppo della tendenza di marzo-aprile ma con rapporti di forza ormai mutati.
Accelerazione
Da luglio queste linee di tendenza precipitano in avvenimenti serrati e rotture più definite. L’8 luglio l’Assemblea del Mfa approva il Documento-guida, ma anche un programma scritto dal settore moderato. Si istituzionalizzano le commissioni operaie e di inquilini. Il 10 luglio il Ps esce dal governo. Dal 10 al 17 luglio ci sono manifestazioni a favore del Documento-guida. L’11 luglio il Ps e il Ppd criticano il Documento-guida e attaccano l’Assemblea del Mfa. Il 13 luglio si nazionalizza Carris (trasporti). Lo stesso giorno c’è il primo vero assalto a una sede del Pcp a Rio Maior, insieme a una sede del Fsp. Nel resto del mese saranno 86 gli attacchi, fra assalti e incendi, alle sedi di Pcp, Intersindical e partiti dell’estrema sinistra. Nel Nord esercito, Copcon e Mfa sono impotenti. Il 15 luglio in una manifestazione del Ps per la prima volta si grida “Il popolo non sta con l’Mfa”, Soares chiede le dimissioni di Gonçalves. Il 16 luglio una manifestazione a Lisbona organizzata da commissioni operaie controllate da gruppi dell’estrema sinistra grida “controllo operaio, scioglimento della Costituente!” e “governo provvisorio no, governo popolare sì”. Il 17 luglio anche il Ppd lascia il governo; c’è una manifestazione di comitati di soldati controllati dall’estrema sinistra a cui però partecipano soldati del Ralis (ex Ral-1) che urlano “dittatura del proletariato”.
Il 18 e il 19 luglio il Ps convoca le prime manifestazioni davvero di massa contro il governo. Il 18 ci sono 50mila persone allo stadio Das Antas a Porto. Pcp e Intersindical chiamano i lavoratori alla mobilitazione per impedire le mobilitazioni sull’esempio della battaglia contro la “maggioranza silenziosa”, ma il tentativo non riesce. Le masse sono spaccate, i settori avanzati della classe lavoratrice sono in ritirata. Il 19 alla Fonte luminosa di Lisbona ci sono 100mila persone. L’anticomunismo dilaga, si urla “Cunhal al Terrafal” (dove c’era una prigione politica gestita dalla Pide) e “Cunhal in Siberia”. Soares non spende una parola per denunciare gli attacchi squadristi alle sedi del Pcp, che è il suo nemico principale. Il 20 luglio il Copcon dichiara che in caso di tentativi della reazione saranno usate le armi, se necessario. Il 20, 21 e 22 c’è un’escalation di attacchi a sedi del Pcp, Mdp e estrema sinistra. Il 23 luglio Vasco Lourenço fa una riunione con 60 ufficiali e 5 sergenti di fanteria in cui si critica il settore di sinistra del Mfa, in particolare Otelo de Carvalho e la V divisione. Il documento che ne nasce sarà poi ritirato, ma il giorno dopo c’è la prima riunione del “Gruppo dei nove” che prepara una battaglia per il controllo del Mfa; ne fa parte anche Melo Antunes, già responsabile del piano economico triennale e che si dimette il 29 luglio dal governo.
I Nove e il Copcon, spaccatura nel Mfa
L’8 agosto nasce il quinto governo provvisorio, sempre presieduto da Gonçalves. Ha contro la destra, il Ps, la maggioranza dell’Assemblea costituente e un settore significativo del Mfa. È un governo in balia degli scontri politici che ne determineranno il futuro.
Il 7 agosto il Gruppo dei nove aveva infatti presentato il proprio documento. I Nove sono Melo Antunes, Vasco Lourenço, Sousa e Castro, Vitor Alves, Pezarat Correira, Franco Charais, Canto e Castro, Costa Neves, Vitor Crespo. Precisano che rifiutano di essere definiti “divisionisti” e rivendicano il programma originario, solo democratico, del Mfa. Accettano astrattamente che lo si possa superare ma, spiegano nel documento, le nazionalizzazioni si sono succedute “a un ritmo impossibile da assorbire, per molto dinamico che fosse il processo e per grande che fosse l’adesione del popolo, senza un grave rischio di rottura del tessuto sociale”; denunciano una “disgregazione molto rapida delle forme di organizzazione sociale ed economica che servivano da supporto a larghi strati di piccola e media borghesia”; denunciano la “decomposizione delle strutture dello Stato”, “forme selvagge e anarchiche di esercizio del potere”; accusano il Mfa di non essere stato imparziale fra i partiti; dichiara che esiste un “gruppo sociale estremamente minoritario (parte del proletariato della zona di Lisbona e parte del proletariato dell’Alentejo)” che si proclama avanguardia rivoluzionaria e si distacca dal resto del paese. Dichiara quindi che va rifiutato un modello di totalitarismo burocratico che richiama i paesi dell’Est Europa e che la democrazia e la libertà sono irrinunciabili. Propone infine che si mantengano i legami con l’Europa. Tutto questo sempre in nome del socialismo e di una società senza classi.
I temi presenti nel documento dei Nove ne riprendono alcuni del documento del Ps “Vincere la crisi, salvare la rivoluzione” di poco tempo prima. Lì il Ps parlava di “creare nel paese un clima di fiducia, lavoro e disciplina” e “riaffermare il principio che le commissioni di quartiere e operaie sono la forma del potere popolare, ma che non pretendano di convertirsi in un potere parallelo all’apparato statale”.
Al documento dei Nove risponde il 12 agosto il documento “Autocritica rivoluzionaria del Copcon e proposta di lavoro per un programma politico”, che fa da riferimento per la sinistra del Mfa. Il documento dice che le proposte dei Nove porteranno inevitabilmente a un recupero della destra. Pone il problema dell’impossibilità di costruire il socialismo senza porre in discussione la democrazia borghese. “In una struttura borghese sono i partiti borghesi e riformisti quelli che hanno le maggiori finanze per far arrivare la loro voce a tutto il paese. In una struttura borghese non c’è un tentativo di dibattito e soluzione dei problemi concreti, ma solo demagogia politica fatta di giochi di parole per intossicare e confondere il popolo, che dopo 48 anni di fascismo non era in condizioni di distinguere questi giochi di parole. Si deve riconoscere una forte responsabilità al Mfa per aver fatto delle elezioni un punto di onore, aspetto questo ben sfruttato dalle forze interessate in questo tipo di elezioni. L’inattività di quattro governi provvisori non è solo frutto del dirigismo che il Pcp ha tentato di imporre, infiltrandosi nell’apparato dello Stato e negli organi di Comunicazione sociale, perché il Ps, il Ppd e il Mdp, che erano presenti, dividono le responsabilità che oggi cercano di negare. Dai partiti a destra del Ps, e anche dalla direzione di questo, non ci si può aspettare niente di più che il tentativo di fermare e invertire la marcia del processo rivoluzionario per garantire i privilegi dell’alta borghesia e lo sfruttamento sfrenato dei lavoratori. L’insistenza del Mfa nel cercare di risolvere le contraddizioni attraverso soluzioni di compromesso negoziate con partiti borghesi, e la copertura data alle manovre dei partiti, provoca il discredito dei militari davanti ai lavoratori”. Il documento propone quindi di dare il potere politico ai consigli di soldati, di fabbrica, di quartiere.
Nonostante sia un testo che prepara la svolta a destra, il documento dei Nove non ha tutti i torti quando descrive l’isolamento della “avanguardia rivoluzionaria”. Una rivoluzione non è un avvenimento in un unico atto, ma un processo che ha fasi di avanzata e fasi di riflusso. Il primo periodo è solitamente caratterizzato da un clima gioioso e di unità: si è rotto il precedente ordine, tutto pare che debba avanzare verso il meglio. In quella fase sono i conciliatori e i riformisti ad essere spinti avanti, e la reazione si nasconde dietro di loro, come era avvenuto col primo governo provvisorio. Successivamente le masse si rendono conto che i problemi fondamentali non sono stati risolti. Questo da un lato dà una base per uno spostamento a destra, soprattutto della piccola borghesia e dei contadini, dall’altro crea impazienza fra i settori più avanzati, che si dicono “non è questo ciò per cui abbiamo lottato”. In quel momento i settori di avanguardia fanno un salto in avanti che può diventare la base di una vittoria della rivoluzione, ma è necessario che questo avanzamento qualitativo si diffonda alla maggioranza (almeno) della classe lavoratrice; aprire uno scontro frontale in quel momento può essere letale alla rivoluzione, dando alla reazione l’occasione di eliminare proprio il settore più avanzato quando i rapporti di forza glielo permettono. Questo fu l’errore dell’insurrezione tedesca del 1919, che permise la liquidazione dell’avanguardia rivoluzionaria, e al contrario fu la bontà della tattica dei bolscevichi nel luglio 1917, quando frenarono un prematuro tentativo di prendere il potere per conquistare prima la maggioranza della classe lavoratrice e affondare poi il colpo nell’ottobre.
Nel settembre 1975 l’avanguardia della classe lavoratrice portoghese si rende conto che la rivoluzione le sta scivolando via fra le dita e si mobilita istintivamente per difenderla; questa mobilitazione si riflette nel settore di sinistra del Mfa, specialmente in Otelo de Carvalho, che ha una connessione istintiva con le masse. Non essendo però formato al marxismo, si muove empiricamente, avanzando e arretrando; e alla classe manca un partito. Per questo sarà sconfitta.
La schizofrenia del Pcp e i grupusculos
Lo scontro nel Mfa scende in strada. Il 15 agosto Ps e Ppd fanno una manifestazione a sostegno del documento dei Nove, il 20 agosto a Lisbona risponde una manifestazione di 100mila persone a sostegno del documento del Copcon, dove il Pcp si unisce senza dare troppo nell’occhio ai gruppi dell’estrema sinistra. È una delle tante svolte tattiche di questi mesi del Pcp. Lo scontro nel Mfa infatti fa crollare tutto l’impianto tattico del Pcp, che puntava a conquistare una forte influenza in un solido apparato statale e in un solido Mfa. Questo progetto va in frantumi nelle stesse settimane in cui il partito è sotto un attacco politico del Ps e fisico da parte della reazione. I dirigenti, nel panico, cominciano un forsennato zig-zag. Contro le manifestazioni del Ps del 18-19 il Pcp denuncia un tentato colpo di Stato e chiama i lavoratori e l’Intersindical alle barricate. Accusa il Ps di socialfascismo (accusa rivolta a sua volta dal Ps al Pcp…). Il 27 luglio però la commissione politica del Pcp dice che è necessario rafforzare l’unità di comunisti, socialisti, cattolici, e non cattolici. Il 20 agosto partecipa all’ultimo momento a una manifestazione convocata dalle commisioni operaie controllate dai gruppetti di estrema sinistra. La sera stessa Cunhal dice che il Pcp potrebbe anche far cadere il governo per tornare a una grande coalizione. Il giorno dopo la direzione del partito dà indicazione ai militanti comunisti di cercare il contatto con i socialisti, ma due giorni dopo denuncia un tentativo di golpe e entra nel Fur (Fronte di unità rivoluzionaria) con i gruppetti; il 27 fa una manifestazione con il Fur, il giorno dopo abbandona il Fronte e riapre a quelli che due giorni prima denunciava come golpisti. Ci si può aspettare che i militanti comunisti fossero un pochettino disorientati.
L’unica proposta che la direzione del Pcp non fa è quella corretta: una proposta di fronte unico alla direzione del Ps per un governo operaio che salvi la rivoluzione, rifiutando il modello burocratico e spiegando che la “democrazia” non è un concetto astratto, ma che è reale solo se è democrazia operaia. I dirigenti del Ps avrebbero accettato? Molto probabilmente no, ma finalmente si sarebbero compromessi con la propria base, agli occhi della quale (almeno di una parte rilevante di essa) continuavano a giustificare l’ostilità verso il Pcp dicendo di voler difendere la democrazia dagli stalinisti burocratici (cosa che in effetti i dirigenti del Pcp erano).
Allo stesso modo i piccoli gruppetti settari avevano orientamenti spesso deliranti. Non ne abbiamo quasi trattato perché il peso che hanno avuto nella rivoluzione portoghese è stato molto limitato. Va detto però che esistevano almeno 47 gruppetti rivoluzionari o pseudo-tali, detti grupusculos. Alcuni di essi erano codisti verso il Pcp, come il Mes, altri passavano il tempo a prepararsi alla lotta armata, come il Prp/br, altri proclamavano i propri partiti rivoluzionari e chiamavo le masse a sé, ma le masse guardavano altrove. Sia chiaro, in un contesto rivoluzionario come quello anche questi gruppetti arrivarono ad avere qualche migliaio di militanti, giornali settimanali, a volte quotidiani, con 10-15mila copie. Ma il 25 novembre il Ps era arrivato a contare 60mila iscritti e il Pcp 100mila, senza contare le rispettive organizzazioni giovanili. Tutti insieme i grupusculos alle elezioni di aprile avranno un 4%, e soprattutto, nonostante potessero aver guadagnato qualche posizione ad esempio nelle commissioni operaie, non riusciranno mai a incidere davvero nei processi. Eppure abbiamo visto gli spazi che si aprivano all’interno delle organizzazioni di massa, nei sindacati e nello stesso Ps, soprattutto nella prima fase della rivoluzione. Fra i più grandi, ci furono due gruppi maoisti, il Pcp(m-l), ufficialmente riconosciuto da Pechino, e il Mrpp. Entrambi aderivano alla visione stalinista delle due fasi, entrambi passavano la propria giornata ad accusare il Pcp di socialfascismo. Il Mrpp era contro il Mfa, contro il Copcon, contro il Pcp, tutti socialfascisti. E in risposta finì nelle piazze convocate dal Ps contro il Pcp. Entrambi appoggeranno le forze borghesi il 25 novembre 1975, quando la rivoluzione portoghese veniva fermata.
Il sesto governo e il dualismo di potere
A inizio settembre il Gruppo dei nove decide di farla finita col quinto governo. A Tancos, dopo tre giorni di riunioni preparatorie, si decide un’epurazione dei gonlçalvisti dal Consiglio della rivoluzione, il 12 settembre Gonçalves smette di essere primo ministro. Il 19 settembre vede la luce il sesto governo provvisorio, presieduto da Pinheiro de Acevedo. Il governo fotografa la svolta a destra, ci sono quattro ministri del Ps e due del Ppd. Il Pcp entra anche in questo governo ponendo come unica condizione il riconoscimento del governo del Mpla in Angola, che era strumentale ai fini dell’Urss.
Al carattere più a destra del nuovo governo risponde la crisi di disciplina del Mfa e nell’apparato gerarchico. Otelo de Carvalho il 20 settembre dichiara che se il governo porterà avanti una politica di destra, lui passerà all’opposizione. Il giorno stesso il governo ritira al Copcon il potere di intervento nelle occasioni di ordine pubblico e si prepara a costruire la Ami (Gruppo militare di intervento), una struttura simile al Copcon ma con un’altra catena di comando, a cui saranno assegnate parte delle truppe del Copcon, ma che non avrà mai grande appoggio. Il 29 settembre il governo dà ordine di occupare le stazioni radio e televisive, a eseguire l’ordine è proprio il Copcon. Chiude, fra l’altro Rádio Renascença, autogestita. Il giorno stesso ci sono manifestazioni dei gruppetti di sinistra sotto il Ministero delle comunicazioni. Otelo de Carvalho va a calmare gli animi, ma viene fischiato. Visibilmente turbato, fa autocritica e dichiara: “mi manca una struttura politica. Se avessi questa cultura, che non ho, potrei essere il Fidel Castro dell’Europa”. Era peraltro reduce da un viaggio a Cuba nell’estate.
A questa manifestazione risponde una convocata dal Ps e dal Ppd per dare appoggio al governo. La parola d’ordine è “Disciplina!”.
Mentre il governo controlla la cupola gerarchica, nasce la prima vera organizzazione sindacale interna all’esercito: Soldados unidos vencerão (Suv – Soldati uniti vinceranno). Organizzano manifestazioni a Porto, poi il 6 ottobre scendono in piazza in 50mila con i lavoratori. A Lisbona sfilano armati e al termine della manifestazione vanno alla prigione e liberano quattro compagni precedentemente arrestati per la loro attività politica. Nelle manifestazioni si vedono cartelli come “Disciplina rivoluzionaria: sì. Disciplina reazionaria: no. Operai, contadini, soldati marinai, uniti vinceremo. Soldati sempre sempre al fianco del popolo”.
L’ultima frase riprende il nuovo giuramento alla bandiera rivoluzionaria, che i soldati del Ralis (ex Ral-1) sostituiscono al normale giuramento alla bandiera, e che viene inaugurato la mattina del 21 novembre alla presenza di delegati delle commissioni dei lavoratori delle fabbriche vicine e delle commissioni di inquilini del quartiere. Il giuramento recita: “Noi, soldati, giuriamo di essere fedeli alla Patria e lottare per la sua libertà e indipendenza. Giuriamo di essere sempre, sempre al fianco del popolo, al servizio della Classe Operaia, dei contadini e del popolo lavoratore. Giuriamo di lottare con tutte le nostre forze, accettando volontariamente la Disciplina Rivoluzionaria, contro il Fascismo, contro l’Imperialismo, per la democrazia per il potere popolare, per la vittoria della rivoluzione socialista”.
A settembre, ottobre e novembre c’è l’ultima grande ondata di scioperi, contro i licenziamenti, contro la mancanza di generi alimentari, contro il governo. Il 7 ottobre manifestano i metalmeccanici, il 9 ce ne sono 250mila in sciopero. Il 6 novembre ci sono scontri fra proprietari agricoli medi e grandi e lavoratori giornalieri, con 2 morti e 22 feriti. Lo stesso giorno i lavoratori del Ministero delle comunicazioni manifestano chiedendo l’epurazione del Segretario di Stato, la polizia carica la manifestazione sparando.
Il 12 novembre comincia lo sciopero dei lavoratori edili. Il giorno dopo Lisbona è attraversata da un corteo di 100mila operai edili, il più grande corteo di una sola categoria di lavoratori sino a quel momento. Sono tutti presi di sorpresa. Gli operai assediano e sequestrano l’Assemblea costituente, costringendo il governo a firmare per un salario minimo nel settore. Vengono mandate le truppe per rompere l’assedio, ma i soldati solidarizzano con gli operai, e pasteggiano insieme con sardine e vino mentre i deputati non possono uscire. A questo punto Otelo rompe definitivamente con il governo. Il Pcp si dissocia dall’assedio e il massimo che riesce a proporre è il ritorno di Gonçalves al governo; intanto continua ad essere contemporaneamente nel governo e nelle manifestazioni contro il governo.
Il 16 novembre c’è una grande manifestazione convocata dalla prima Assemblea delle commissioni dei lavoratori della Cintura industriale di Lisbona. Aderiscono anche i comitati dei lavoratori agricoli dell’Alentejo. È la famosa “avanguardia rivoluzionaria” descritta nel documento dei Nove. Partecipano anche il Pcp e le forze del Fup (nuovo nome del Fur dopo l’uscita del Pcp). Al termine del corteo viene letto un messaggio di Otelo del Carvalho. É un enorme corteo di 200mila persone. Lo slogan è “Avançar, avançar, poder popular” (avanzare, avanzare, potere popolare), e circola la voce che si istituirà la “Comune di Lisbona”.
La manifestazione del 16 può essere l’inizio del coordinamento degli elementi di dualismo di potere che sino a quel momento sono rimasti isolati nelle fabbriche, nei campi, nei quartieri, nelle caserme. L’avanguardia deve lavorare per conquistare la maggioranza della classe lavoratrice, per darsi un’organizzazione nazionale del dualismo di potere, con una struttura di commissioni e spiegare pazientemente a chi ancora non è arrivato alla conclusione che solo il potere operaio può risolvere la situazione. Ma manca una direzione che ponga questi compiti, e così tutto ciò non viene fatto.
Il 25 novembre
Il Gruppo dei nove decide di provocare l’avanguardia perché si esponga in campo aperto. Per prima cosa tutela il governo, che il 19 novembre dichiara una serrata e si trasferisce con la Costituente a Porto, nel Nord del paese. Il Ps dichiara all’Assemblea: “Si può considerare come ultima risorsa la possibilità di trasferire i legittimi organi di sovranità democratica in un altro punto del territorio nazionale se a Lisbona i responsabili militari non hanno autorità e decisione sufficienti per assicurare il normale funzionamento delle istituzioni del potere centrale”. Si fanno circolare voci di preparativi di colpi di Stato, di destra come di sinistra. Poi arriva la provocazione vera: Otelo de Carvalho viene sostituito al comando della regione militare di Lisbona da Vasco Lourenço, uno dei Nove.
Questo scatena la reazione dei paracadutisti della base aerea di Tancos, che erano in quel momento in rotta con i vertici militari. Rádio Renascença aveva infatti riaperto il 21 ottobre sotto il controllo dei lavoratori. Il governo aveva pensato di farne esplodere il trasmettitore, ma la guarnigione di Lisbona si era rifiutata di fornire l’esplosivo senza spiegazioni. Il 7 novembre una squadra di 60 paracadutisti l’aveva poi distrutto, ma il giorno dopo c’era stata una manifestazione di protesta dei sottufficiali che denunciano di essere stati strumentalizzati dal governo nell’operazione, e i paracadutisti della caserma di Tancos avevano chiesto di entrare nel Copcon. Il 10 l’assemblea di Tancos si era espressa contro l’operazione alla Radio. I vertici militari, in risposta, il 17 avevano mandato in licenza 1.200 paracadutisti, che però avevano rifiutato l’ordine. Il Copcon era solidale, e così l’Intersindical e la Cintura industriale di Lisbona che avevano fatto scioperi di solidarietà.
I paracadutisti nella mattina del 25 novembre occupano la base aerea di Tancos. Occupano poi le caserme di Montijo, Montereal, Monsanto, Ota e la Direzione generale della regione aerea di Lisbona. Si unisce anche la caserma del Ralis. La richiesta è: ridare il comando a Otelo. L’azione è spontanea, la confusione totale. Alcuni lavoratori vanno a chiedere le armi alle caserme, senza ottenerle. Gli scioperi convocati in solidarietà sono tardivi e inefficaci, perché i lavoratori non erano stati preparati. La massa dei lavoratori resta passiva. Le truppe guidate da Jaime Neves e altri membri del comando militare rioccupano una dopo l’altra tutte le caserme.
I dirigenti dell’insurrezione sono arrestati, il Copcon disciolto. Si avvia un’epurazione contro gli elementi collegati al 25 novembre nell’esercito e nelle redazioni. Il giuramento alla bandiera rivoluzionaria è annullato. Il Pcp è espulso dal governo.
Controrivoluzione in forma democratica
Dopo il 25 novembre 1975 la classe dominante portoghese e l’imperialismo erano riusciti a fare il grosso: avevano decapitato il movimento, che restava senza più alcuna direzione, con il Ps saldamente dalla parte della controrivoluzione e il Pcp completamente paralizzato.
Subito dopo il fallimento dell’insurrezione alcuni elementi fascisti dell’Elp vanno a cercare i dirigenti sindacali per eliminarli e il Ppd chiede una svolta autoritaria. Ma il Ps e Melo Antunes rifiutano e, al contrario, fanno un appello antifascista. Il settore più lungimirante della controrivoluzione non voleva l’ennesimo tentativo bonapartista che provocasse il movimento. La classe operaia portoghese era troppo forte e il processo rivoluzionario era andato troppo avanti.
L’operazione era stata guidata da chi si era formato negli anni a tradire il movimento operaio dirigendolo: la socialdemocrazia. Da mesi si ripetevano gli incontri internazionali sulla situazione portoghese. Il 2 agosto alla riunione dell’Internazionale socialista a Stoccolma era stato creato il Comitato di appoggio al socialismo democratico in Portogallo, il 5 settembre a Londra il Comitato per l’amicizia e la solidarietà con la democrazia e il socialismo in Portogallo. I dirigenti socialdemocratici gestivano le trattative per far arrivare i prestiti della Cee e dal Fmi all’economia portoghese in crisi. In definitiva, solo questo appoggio economico ha permesso alla controrivoluzione di stabilizzarsi in forma democratica.
A riprova della forza del movimento, anche dopo il 25 novembre il governo ha continuato a definirsi rivoluzionario. Ci sono voluti mesi e anni per ristabilire una disciplina nell’esercito e solo molto gradualmente sono state introdotte le prime privatizzazioni.
Per un nuovo 25 aprile
Così come le paure che non si riescono ad affrontare a volte vengono rimosse dalla memoria, la rivoluzione portoghese del 1974-75 è stata oggetto di un tentativo di rimozione da parte della classe dominante portoghese, nei libri di storia, nei giornali, nelle scuole. Il 25 aprile si ricorda solo come la pacifica liberazione dal regime salazarista. Eppure in quei mesi le borghesie e le burocrazie di mezzo mondo guardavano con il fiato sospeso gli avvenimenti di Lisbona. In quel contesto, il rovesciamento del capitalismo in Portogallo avrebbe innescato con ogni probabilità un effetto domino nei paesi dell’Europa dove alla crisi economica si aggiungevano movimenti di massa con caratteristiche rivoluzionarie o pre-rivoluzionarie. In Francia e in Italia i lavoratori avrebbero risposto all’appello, in Spagna e in Grecia il crollo dei regimi di Franco e dei colonnelli sarebbe stato solo il primo passo di una rivoluzione che dalle rivendicazioni democratiche sarebbe passata subito a quelle sociali e al crollo del capitalismo. Gli eserciti di questi paesi subivano già l’influenza delle lotta portoghese. Il 24 novembre ’75 erano state segnalate mobilitazioni di solidarietà con i paracadutisti di Tancos in Spagna e Italia; negli armadietti dei reparti corazzati britannici erano appese foto dei soldati con i garofani nei fucili. L’internazionalizzazione della rivoluzione avrebbe contribuito a superare rapidamente anche le possibili caratteristiche bonapartiste di uno Stato operaio portoghese. Allo stesso modo un’avanzata rivoluzionaria in Portogallo e in Europa avrebbe dato coraggio alla classe operaia sovietica che avrebbe sfidato a viso aperto la burocrazia stalinista recuperando le tradizioni di democrazia operaia della rivoluzione d’Ottobre. La catena si spezza nel suo anello più debole. In quel momento la catena del capitalismo europeo si poteva spezzare in Portogallo.
Oggi la catena del capitalismo è molto più debole rispetto al 1974. I rapporti di forza nella società si sono spostati ancora di più a favore della classe lavoratrice. La crisi rende impossibile alla borghesia internazionale trovare le risorse finanziarie che furono utilizzate nel ’75 per far rientrare le lotte, basta guardare la Grecia. La classe lavoratrice portoghese è tornata ad alzare la testa. Negli ultimi anni, contro le misure di austerità, ci sono state manifestazioni ancora più grandi di quelle degli anni della rivoluzione. Sullo striscione di apertura di una di esse, c’era scritto “O povo é quen mais ordena” (è il popolo che più comanda). È una frase di Grândola Vila Morena. Oggi come allora arriverà il segnale per riaprire una battaglia che è stata solo interrotta. Il compito dei rivoluzionari è imparare dalle lezioni del passato perché la prossima volta si possa vincere.