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Il Pd cerca spazio a sinistra

“Ogni definizione è una limitazione”, dice il filosofo, e questo è ancora più vero nelle epoche di forte instabilità come l’attuale.

Indubbiamente la “definizione” dei fondatori del Pd è morta: il partito “tendenzialmente maggioritario” sognato da Veltroni, Prodi e compagni, un grande partito borghese, simile ai democratici Usa nei loro tempi migliori, inserito in un sistema politico fortemente bipolare o addirittura bipartitico, è fallito.

Oggi il Pd è il socio, neppure il principale, in una coalizione di quattro partiti. Il partito del 40 per cento, che portava oltre 3 milioni di persone alle primarie nei suoi primi anni, è un lontano ricordo. Le primarie del 2017 videro partecipare 1.838.000 votanti, quelle del 2019 1.582.000. Molto più drammatico il calo degli iscritti che hanno partecipato ai congressi di base: erano stati 462mila (su 820mila iscritti dichiarati) nel 2009, sono scesi a 266mila votanti nel 2017 e calati ulteriormente a 189mila (su 374mila iscritti) nel congresso del 2019, per il quale l’affluenza ebbe tali problemi che si dovette prolungare di alcuni giorni l’apertura dei seggi nelle sezioni.

Tra la sconfitta di Renzi nel referendum del 2016 e quella delle ultime elezioni politiche, il Pd era un partito che guardava nello stesso abisso in cui erano già precipitati il Partito socialista francese e il Pasok greco, che dopo essersi immolati per gli interessi del capitale sono stati quasi cancellati dallo scenario politico, abbandonati sia dall’elettorato di sinistra che dalla borghesia, per la quale una volta spremuti non erano più utili.

Da Renzi a Zingaretti

Il “Pd ideale” era quindi morto e sepolto, ma il “Pd realmente esistente” ha dovuto porsi il problema di non cadere in quell’abisso. Da qui il tentativo di Zingaretti di rispolverare un’immagine di sinistra e di ricostruire un insediamento nella società.

La svolta assume maggiore risalto con la scissione di Renzi e la fondazione di Italia viva, che dimezza le forze centriste nel Pd, con l’uscita di tre delle sei correnti di più chiara matrice borghese (anticipata dalle uscite di Calenda e Richetti), aumentando automaticamente il peso interno delle componenti di origine socialdemocratica riformista.

I tratti di questo riorientamento sono nettamente visibili.

1) Il Pd renziano era in rottura aperta e frontale con la Cgil, insultava il sindacato, demoliva l’articolo 18. Oggi il governo Conte convoca i sindacati ad ogni piè sospinto, apre tavoli di trattativa su ogni problema, promette di stabilizzare i precari nella scuola e di “alzare i salari agli operai” (Delrio). In questo smentisce anche la precedente posizione dei 5 Stelle, che teorizzavano la “disintermediazione”, ossia il rapporto diretto tra padroni e lavoratori, e tra governo e lavoratori, ignorando il sindacato e considerandolo come un ostacolo.

2) Il Pd attuale investe fortemente, in collaborazione con l’apparato della Cgil, per crearsi una base di consenso fra i giovani. Lo testimonia l’intervento crescente nei movimenti che più hanno coinvolto i giovani in questi mesi: le manifestazioni antirazziste e soprattutto gli scioperi per il clima.

Insomma, siamo passati da un Pd che faticava a portare in piazza le proprie bandiere e spesso subiva contestazioni, a un partito che tenta di conquistarsi un ruolo egemonico nei movimenti.

Il richiamo anti-Salvini

Si aggiunga che il cosiddetto “popolo della sinistra”, che era in rotta col Pd renziano, è in gran parte tornato all’ovile in base alla sempiterna teoria del “pericolo fascista alle porte” che da circa 25 anni, prima con l’antiberlusconismo e oggi con l’antisalvinismo, ha giustificato tutti gli opportunismi e tutti i tradimenti. Grazie a questo, oggi il partito di Zingaretti non ha nemici consistenti alla sua sinistra.

Questa linea è destinata a continuare, sia perché il Pd e il governo subiranno la strategia di logoramento da parte del nuovo partito di Renzi, sia perché con i 5 Stelle (e in particolare alcune loro correnti) ci sarà una concorrenza a sinistra, nell’agitare temi sociali come il salario minimo.

Sia chiaro, non stiamo parlando di una contraddizione di classe: un conto è un processo che riguarda alcune decine di migliaia di attivisti, un altro è la classe lavoratrice. La gran parte dei lavoratori non ha certo dimenticato le nefandezze di questo partito, né è disposta a dimenticarle in base a un generico richiamo democratico.

Tuttavia chi come noi lotta per la costruzione di un vero partito dei lavoratori nel nostro paese, deve essere consapevole di questo cambiamento: oggi esiste una sinistra riformista che cerca di reinsediarsi in un campo che negli scorsi anni aveva abbandonato.

Una direzione debole

La direzione di Zingaretti rimane debole, secondo la ricostruzione del Corriere della Sera anche dopo la scissione di Renzi i gruppi parlamentari rimangono fortemente spaccati: 45 deputati sarebbero riconducibili al segretario e alla corrente di Franceschini, che oggi lo appoggia e domani chissà, e 35 alle aree ex renziane rimaste nel Pd; ancora più sfavorevole il rapporto al Senato, con 14 senatori contro 19.

L’antisalvinismo è il principale collante per la stragrande maggioranza delle persone di sinistra, comprese buona parte di quelle che non sono organizzate nel Pd ma che accettano la nefasta logica del “meno peggio”. Lo si è visto chiaramente in agosto, quando di fronte alla crisi del governo gialloverde sono state pochissime le voci di chi, come noi, si è pronunciato in favore di nuove elezioni, mentre il 95 se non il 99 per cento della sinistra si appellava a Mattarella e tifava per l’accordo Pd-5 Stelle.

Tuttavia questo appello ha efficacia solo in alcuni settori di attivisti e simpatizzanti. La gran parte dei lavoratori ha rotto col Pd per le sue politiche economiche e sociali, culminate con la legge Fornero e il Jobs act, e non torna indietro solo sulla base di appelli democratici. Sul piano sociale la leva che il Pd può usare è quella del governo e dei provvedimenti che può prendere. Ed è qui che si vedrà molto rapidamente che il piatto piange.

Il Pd, in questo identico ai 5 Stelle, è disposto a fare promesse ai lavoratori, ma non è disposto a fare l’unica cosa che le può rendere credibili: condurre una lotta reale contro il capitale, colpire i profitti, le rendite, il capitale finanziario, i grandi patrimoni. Su questa contraddizione basilare si romperà il collo anche il “nuovo corso” di Zingaretti.

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