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In queste ultime settimane assistiamo a un fuoco di propaganda senza molti precedenti, teso a glorificare i “valori europei”. L’Unione Europea sarebbe l’ultimo baluardo della democrazia, l’unica salvezza per la “cultura occidentale”. “Qui si fa l’Europa o si muore” gridano gli opinionisti nei talk show, parafrasando Garibaldi. Addirittura l’ex comico Roberto Benigni, ora giullare di corte, l’ha definita “la più grande costruzione politico-economica degli ultimi 5mila anni”.
Ma cos’è veramente l’Unione Europea? Perché è nata? Quali interessi difende?
Un’Europa culla della democrazia?
Il processo che ha condotto all’Unione Europea è iniziato negli anni ’50 del secolo scorso. Dapprima sei paesi (tra cui Francia, Germania e Italia) costituirono la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nei fatti un gigantesco cartello a tutela delle multinazionali del settore, e poi nel 1957 diedero vita alla Comunità Economica Europea. La CEE era un’unione puramente economica.
Nel secondo dopoguerra si verificò un boom economico senza precedenti: con i mercati in espansione, l’abolizione dei dazi doganali nella CEE a sei paesi (poi estesa a dodici) realizzò un mercato di centinaia di milioni di persone a favore delle multinazionali europee, in primis quelle tedesche e francesi. L’integrazione delle economie europee era favorita dagli USA, anche attraverso il Piano Marshall. Desideravano un’Europa nell’orbita di Washington, in grado di aiutare nel contrasto all’URSS: infatti coincideva sostanzialmente con la NATO.
Le borghesie europee unificavano i mercati, mentre la democrazia poteva aspettare. All’inizio il parlamento europeo aveva un ruolo “consultivo” ed era nominato dai governi; solo dal 1979 venne trasformato in assemblea elettiva, ma il suo potere è sempre stato limitato. L’Unione Europea non ha mai avuto nemmeno una Costituzione.
Nel 1993, con il Trattato di Maastricht, il Consiglio Europeo (la riunione dei capi di governo dei 27 Stati europei) è divenuto l’organo decisionale dell’UE. La politica economica è invece nelle mani della Banca Centrale Europea, che è totalmente indipendente sia dalle altre istituzioni europee che dai governi nazionali. Il direttivo della BCE è costituito dai governatori delle banche centrali e dai sei membri del comitato esecutivo, nominati dal Consiglio Europeo. Le decisioni sono appannaggio degli Stati più potenti, in primo luogo della Germania.
Un’Europa dei popoli?
A oltre 150 anni dalla pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista, la definizione di Marx e Engels rispetto ai governi “comitati d’affari della borghesia” mantiene tutta la sua validità.
Il Trattato di Maastricht indicava i requisiti che i singoli Stati dovevano soddisfare per far parte dell’euro: un rapporto PIL-deficit inferiore o pari al 3%, un rapporto PIL-debito pubblico minore del 60% e un tasso di inflazione inferiore all’1,5%. Era un programma per l’austerità permanente, applicato fin dalla metà degli anni ’90 e di cui i governi di centrosinistra, come quelli di Prodi e D’Alema in Italia, furono i promotori entusiasti. Sono loro che avviarono le prime massicce privatizzazioni delle aziende statali e che introdussero la precarietà nei contratti di lavoro.
Un’Europa senza frontiere?
Dal 1985 è stato creato lo spazio Schengen, che ha abolito i controlli alle frontiere dei paesi aderenti all’accordo omonimo. Assieme ai Progetti Erasmus, costituisce la base dell’illusione di un continente senza più confini. Secondo l’accordo, tuttavia, in qualunque momento i controlli alle frontiere si sarebbero potuti ripristinare “in risposta a gravi minacce per la sicurezza interna”. Ciò è successo più volte, ad esempio in occasione dei cortei “no global” come quello di Genova 2001; più di recente, nel novembre 2024, ben otto paesi (tra cui Italia, Germania e Francia) hanno sospeso Schengen fino al giugno 2025.
Se all’interno dell’UE si coltivava la finzione di un continente senza frontiere, all’esterno si costruiva la “fortezza Europa” contro i migranti. Solo negli ultimi dieci anni, almeno 30mila uomini, donne e bambini sono morti nel Mar Mediterraneo. Per tenere lontano milioni di profughi, soprattutto siriani, l’UE ha finanziato la Turchia di Erdogan con 11 miliardi di euro tra il 2016 e il 2024. Un altro mezzo miliardo è andato ai signori della guerra in Libia per rinchiudere i migranti nei lager tristemente famosi.
Un’Europa della pace?
C’è chi a sinistra difende l’Unione Europea perché avrebbe garantito 80 anni di pace. La memoria di questi pacifisti è proprio corta. La CEE negli anni ’90 ha portato avanti, nel cuore dell’Europa, piani per l’indipendenza di Croazia, Slovenia e Bosnia che fecero deflagrare la guerra civile in Jugoslavia e ha appoggiato i bombardamenti della NATO sulla Serbia nel 1999.
Nel 2014 l’UE ha appoggiato attivamente il movimento reazionario “Euromaidan” in Ucraina, la cui affermazione ha provocato la guerra civile nel paese.
L’UE è costituita da paesi colpevoli di crimini tremendi durante i movimenti d’indipendenza delle loro colonie negli anni ’50 e ’60. Basti pensare alla repressione francese nei confronti del FLN in Algeria, con almeno 300mila morti, o ai massacri del colonialismo belga in Congo, solo per fare due esempi. Il dominio economico è continuato anche dopo l’indipendenza, assicurato militarmente dalle missioni dei caschi blu dell’ONU.
Il vero volto dell’Unione Europea
I “valori fondativi” dell’Unione Europea sono dunque il profitto e il mercato capitalista. Valori unificanti finché il capitalismo è in ascesa, divisivi quando entra in declino: concetto confermato pienamente dopo la recessione del 2008-2009. Il debito dei singoli Stati è schizzato vero l’alto a causa dei salvataggi di banche e grandi imprese e la moneta unica, che aveva già legato in maniera rigida economie molto diverse fra loro, ha contribuito ad accentuare gli squilibri fra le nazioni stesse. Viene confermata la previsione che facemmo nel 1997, alla vigilia dell’introduzione dell’euro: “Lungi dal condurre verso una maggiore integrazione europea, (la moneta unica) avrà l’effetto opposto, aggravando enormemente le tensioni e i conflitti tra gli Stati nazionali.” (Alan Woods, Un’alternativa socialista all’Unione Europea)
Anelli deboli come Portogallo, Grecia o Italia non potevano essere lasciati al loro destino, pena un effetto domino e il crollo dell’euro. Così nel 2010 fu creato il “Meccanismo Europeo di Stabilità” o Fondo Salva Stati. La BCE sarebbe intervenuta e avrebbe concesso prestiti ai paesi in difficoltà, ma dietro condizioni draconiane fissate dalla “Troika” (Commissione Europea, BCE e Fondo Monetario Internazionale) che i governi dei paesi “salvati” avrebbero dovuto seguire come veri e propri diktat.
Nell’agosto 2011 Draghi e Trichet (all’epoca presidente entrante e uscente della BCE) inviarono una lettera al governo Berlusconi. Nella missiva si pose un aut-aut all’Italia: se non si fossero applicate le misure contenute, la BCE non avrebbe acquistato più i titoli di Stato italiani. Tra i provvedimenti vi erano tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, liberalizzazioni su larga scala, licenziamenti più facili e controriforma delle pensioni (la celebre Legge Fornero). Berlusconi fu messo da parte e per portare avanti le politiche di lacrime e sangue chieste dall’Europa fu chiamato Mario Monti, che si mise alla guida di un governo tecnico con l’appoggio di tutto l’arco parlamentare (Lega esclusa).
L’esperienza della Grecia
Alla Grecia toccò una sorte ancora peggiore. La Troika impose dal 2010 ben tre memorandum (programmi di aggiustamento economico) all’insegna dell’austerità più spietata. La spesa pubblica venne tagliata del 32,4% tra il 2010 e il 2016, salari e pensioni videro un crollo tra il 40 e il 60%, il PIL crollò del 25%. Il patrimonio statale verrà saccheggiato dai capitalisti europei e cinesi.
La risposta delle masse greche ai diktat della Troika non si fece attendere e fu formidabile. Si organizzarono ben trenta scioperi generali, mentre sul versante politico i giovani e i lavoratori portarono al potere alle elezioni del 2015 Syriza, un partito di sinistra, sulla base di un programma contro l’austerità. Il leader di Syriza, Tsipras, nominato primo ministro, convocò un referendum il 5 luglio 2015 per chiedere ai greci di respingere il terzo memorandum inviato dalla Troika. Bruxelles si servì di ogni mezzo contro il governo di Atene (compresa la chiusura delle banche) e la propaganda dei mass media di tutta Europa fu martellante, ciò nonostante il No (Oxi) vinse con oltre il 61% dei voti.
Quale fu la risposta della Troika al voto popolare? Imporre un memorandum ancora più duro, che Tsipras purtroppo accettò. La direzione di Syriza si illudeva di poter riformare l’Unione Europea e credeva che la volontà dei greci sarebbe stata ascoltata a Bruxelles. Ma le istituzioni europee rimasero sorde, contava solo la stabilità dell’euro. Tsipras non voleva rompere con il capitalismo e capitolò alla Troika.
Ventotene e la “riforma” dell’UE
Tutta la storia dell’Unione Europea dimostra che è un’istituzione creata a difesa degli interessi della borghesia. Eppure c’è ancora qualche anima candida che auspica un ritorno a un fantomatico progetto originario e cita il “Manifesto di Ventotene” come modello per un’Europa libera, giusta e progressista.
Non sprecheremo inchiostro sulle parole della Meloni, che attacca Ventotene per mere questioni di bottega. Il manifesto redatto da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi è lontanissimo da un testo comunista. Gli autori volevano fornire le basi per lo sviluppo del capitalismo nel dopoguerra, ritenuto possibile solo sulla base di uno Stato europeo federale. Nel passaggio “la proprietà̀ privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio” si spiega che lo Stato dovrebbe regolare l’iniziativa del capitalista, non certo impedirla. Il manifesto rivolge a riguardo un appello esplicito agli “imprenditori che, sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche e dalle autarchie nazionali”.
La cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali allo Stato federale europeo è tuttavia un’utopia reazionaria. “L’esistenza di profondi conflitti di interessi tra i capitalisti di diversi Stati nazionali, come le linee di frattura in geologia, inevitabilmente causerà una rottura a un certo punto (…) Nel momento in cui riusciranno a raggiungere una maggiore integrazione, significherà puramente un maggior grado di dominazione delle banche e dei monopoli sulle vite delle persone. Per questo non è solo un’utopia, ma un’utopia reazionaria. Non c’è nulla di progressivo in questo.” (Alan Woods, op. cit.).
I due principali ostacoli allo sviluppo delle forze produttive, l’esistenza dello Stato nazionale e della proprietà privata dei mezzi di produzione, non possono essere superati all’interno del sistema capitalista. Nonostante tutta la retorica sulla necessità di maggiore integrazione, gli interessi delle borghesie nazionali sono contrapposti e non potranno che divaricarsi ancor di più a causa della stagnazione economica.
Le politiche che ogni economia dovrà perseguire per non soccombere nella competizione mondiale, come il protezionismo e l’intervento statale a sostegno delle borghesie, accentueranno questi fenomeni.
La nostra alternativa
Tutti i tentativi di opporsi all’Unione Europea su base nazionale sono miseramente falliti. Eppure, c’è ancora chi ripropone ipotesi simili anche all’interno della sinistra “radicale”. La rottura dell’UE senza la rottura con il capitalismo è un’utopia ugualmente reazionaria ed è prigioniera di un equivoco di fondo: credere che le borghesie nazionali, liberatesi (non si sa come) del legame con le istituzioni sovranazionali del capitale, diventino magicamente più progressiste.
I comunisti rivoluzionari sono invece contro l’Unione Europea perché sono contro tutti i capitalisti, in tutto il mondo.
Allo stesso tempo non siamo per il ritorno alle piccole patrie: l’alternativa all’UE può essere solo internazionalista ed è rappresentata dagli Stati uniti socialisti d’Europa. In questa proposta ci rifacciamo al programma della Terza Internazionale, l’Internazionale di Lenin che adottò la medesima parola d’ordine (gli Stati uniti sovietici d’Europa). Una federazione socialista che esproprierebbe le banche, il capitale finanziario e i monopoli e introdurrebbe una pianificazione economica sotto la gestione democratica e il controllo dei lavoratori, per soddisfare i bisogni della maggioranza della popolazione.
Un’Europa dei lavoratori non verrebbe calata dall’alto: naturalmente la rottura rivoluzionaria avverrebbe prima in un paese, che rivolgerebbe un appello a tutti i lavoratori degli altri paesi perché siano protagonisti del rovesciamento della dittatura del capitale in tutto il continente. Sarebbe un’unione volontaria che garantirebbe piena libertà a tutte le nazioni di sviluppare la propria cultura e la propria lingua; liberando l’economia dal giogo del profitto, assicurerebbe uno sviluppo armonico delle risorse (di cui nessun paese possiede l’esclusiva) e della gestione del territorio. Rappresenterebbe un primo passo verso un mondo senza barbarie, verso una Federazione socialista mondiale.