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La lotta di classe in Italia dal ’45 al ’48

Ripubblichiamo questo articolo del 2005 sulla lotta di classe in Italia nell’immediato secondo dopoguerra, disponibile anche all’interno dell’opuscolo “La Resistenza, una rivoluzione mancata”, acquistabile qui nel formato cartaceo.

 

 

di Roberto Sarti

L’Italia appena dopo la Liberazione nell’aprile del ’45 si presentava come un paese distrutto. Fuori uso il 60 per cento delle strade, irrecuperabili il 20 per cento delle industrie, dimezzata rispetto all’anteguerra la produzione agricola.

Due milioni erano i vani ad uso abitativo andati distrutti, un milione quelli gravemente danneggiati. La disoccupazione arrivava a due milioni di persone, di cui la metà nell’industria.

Allo stesso tempo l’Italia non era un paese in ginocchio. Milioni di lavoratori e contadini avevano lottato e sconfitto il fascismo e il nazismo e di conseguenza guardavano al futuro a testa alta e pieni di fiducia. Cacciati i fascisti, ora sarà il turno dei padroni, pensano. I tre anni che seguiranno, invece, riserveranno molte amarezze al proletariato italiano.

Il Nord Italia era stato liberato dai partigiani e dall’insurrezione che durò dal 21 al 25 aprile, gli alleati arrivarono solo quando i nazisti erano già fuggiti. Ma nei Protocolli di Roma, firmati dal Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) Alta Italia con gli alleati e il governo Bonomi, era già stata siglata la subordinazione del movimento di Liberazione. Con questo accordo la direzione partigiana si impegnava, al momento della vittoria sui nazifascisti, a riconoscere il governo militare alleato, a cui avrebbe passato i poteri e consegnato le armi quando richiesto.

Così quando nel giugno del 1945 si insediò il nuovo governo, con Ferruccio Parri, uno dei comandati partigiani più noti, Presidente del Consiglio, sembrava che la Resistenza fosse giunta al potere. In effetti sarà il governo dove la sinistra avrà posizioni di maggior prestigio. Parri era anche ministro dell’Interno, il socialista Nenni vicepresidente con deleghe all’epurazione, mentre i comunisti avevano Togliatti alla Giustizia, Gullo all’Agricoltura e Scoccimarro alle Finanze.

Il governo del Cln pareva in una posizione davvero invidiabile per avviare un radicale cambiamento di questo paese. Ma i dirigenti comunisti e socialisti non avevano alcuna intenzione di intraprendere una simile opera.

D’altro canto per gli alleati, la borghesia italiana e i suoi partiti, il “governo del Cln” rappresentava una fase di transizione scomoda, da concludere al più presto, necessaria per screditare “gli uomini del Nord”, i dirigenti che avevano condotto la resistenza, e per approntare un’alternativa moderata, attorno alla Democrazia Cristiana appena nata.

Per i padroni italiani gli obiettivi principali erano due, nei convulsi mesi successivi alla fine della guerra: ripristinare il normale funzionamento dell’apparato dello stato e riprendere il controllo delle fabbriche e dell’economia.

Su molte fabbriche di Milano e Torino sventolava la bandiera rossa. I padroni si erano eclissati, e la produzione avveniva sotto il controllo dei Cln aziendali, che in realtà assomigliavano molto ai consigli di fabbrica, quelli di venticinque anni prima durante il biennio rosso.

Ma questi consigli non affronteranno mai il problema di chi dovesse comandare in fabbrica, e soprattutto mai si coordineranno fra loro come potere alternativo a quello dello stato borghese. In molte aziende ci si concentrerà sull’aspetto, importante ma non risolutivo, dell’epurazione degli elementi più legati al fascismo.

Fin dall’inizio l’amministrazione militare alleata rese ben chiaro che non avrebbe mosso un dito per favorire i rifornimenti e la ripresa produttiva nelle fabbriche controllate dai lavoratori. D’altro canto Einaudi, governatore della Banca d’Italia, si oppose a qualunque tipo di credito per pagare stipendi e forniture. Le aziende controllate dai lavoratori si trovarono così in un vicolo cieco.

Il padronato si schierò frontalmente contro i consigli di gestione. La Confindustria in una lettera al Governo del gennaio 1946 sosteneva che tali istituti avrebbero “compromesso irrimediabilmente l’efficienza della nostra economia”, costituendo persino “un elemento deleterio per la pace sociale”. (1)

Dal momento che l’imperialismo e le strutture di comando borghese si opponevano a qualunque possibilità di controllo operaio, il proletariato aveva bisogno di una strategia alternativa. La direzione del Pci preferì invece assecondare gli alleati e le forze moderate del governo. Gli sforzi degli operai dovevano essere diretti, secondo Di Vittorio, allora Segretario generale della Cgil, a “sviluppare la produzione, incrementare il lavoro, che costituisce l’unica via di salvezza”. (2)

E ancora sui Consigli:

A mio giudizio la questione dei consigli di gestione non deve assumere nessun carattere rivoluzionario, perché nessuno oggi ha in Italia all’ordine del giorno il problema rivoluzionario di carattere classista. Noi in Italia siamo tutti d’accordo di dover costruire un solido regime democratico che assicuri l’iniziativa privata nell’ambito degli interessi generali della Nazione. Errano quindi quei compagni che fanno il paragone fra i consigli di gestione oggi e i consigli di fabbrica nell’immediato dopoguerra, i quali avevano esigenze di carattere strettamente rivoluzionario, classista”. (3)

Tornati in sella i padroni, i consigli di gestione cominciarono ad avere un carattere sempre più consultivo fino a sparire del tutto alla fine degli anni ’40.

Il controllo dell’apparato statale

Un altro aspetto centrale dello scontro di classe nel 1945 fu il controllo dell’apparato statale. Smantellate le brigate partigiane come forza autonoma, restava il problema di una serie di prefetti e questori nominati direttamente dal Cln. Ben difficilmente essi sarebbero stati strumenti docili a disposizione per azioni repressive. Tra il 1945 e il 1946 si riportò sotto controllo della classe dominante l’apparato dello stato, rimuovendo tutti i prefetti e i questori che provenivano dalla Resistenza. Al tempo stesso, artefice Palmiro Togliatti, Ministro della Giustizia, si concesse nel giugno del 1946 l’amnistia a circa 400mila fascisti e repubblichini. Quasi tutti i principali gerarchi fascisti uscirono dal carcere.

Nel 1960 si calcolò che 62 dei 64 prefetti erano stati funzionari sotto il fascismo, così come tutti i 135 questori e i loro 139 vice. Solo cinque di questi ultimi avevano partecipato in qualche modo alla resistenza. (4)

Il governo Parri si rivelò inoltre incapace di intervenire sui problemi economici più scottanti. L’inflazione era galoppante ed erodeva il tenore di vita degli operai nelle città. Il costo della vita crebbe di 23 volte tra il 1938 e il 1945, i salari aumentarono solo della metà. Al meridione la situazione era ancora più insostenibile. Nel 1947 un bracciante della provincia di Foggia guadagnava poco più della metà rispetto a un suo pari della provincia milanese.

Il comunista Scoccimarro tentò di affrontare alla radice il problema, sostituendo con una lira nuova cento lire vecchie. L’intenzione era quella di eliminare l’eccessiva quantità di denaro in circolazione. Chiaramente questo colpiva i grossi speculatori, tutta quella medio-alta borghesia che aveva accumulato fortune durante la guerra. La burocrazia statale boicottò l’iniziativa in tutti i modi: prima attraverso l’ostruzionismo delle forze borghesi al governo, poi mancò la carta per stampare le nuove banconote, infine scomparvero le matrici!

Nulla di fatto anche per un’imposta progressiva sui patrimoni, accantonata e poi riproposta qualche anno dopo da De Gasperi, snaturandone però il carattere.

Sommerso dalle difficoltà, quando i liberali aprirono la crisi, Ferruccio Parri non potè far altro che dimettersi nel novembre del 1945. Al suo posto i tre grandi partiti “antifascisti”(Pci, Psiup, Dc) si accordarono per nominare Alcide De Gasperi, segretario della Democrazia Cristiana.

Con la fine del governo Parri svaniva uno degli slogan principali del Partito Socialista, quello del “Governo del Cln”. L’idea, che pareva riecheggiare la parola d’ordine leninista sul “governo dei soviet”, si basava in realtà su un equivoco di fondo, quello di considerare i Comitati di Liberazione nazionale come un embrione di potere alternativo. In realtà i Cln non erano degli organismi rappresentativi della classe operaia, e nemmeno più in generale delle classi oppresse. Erano degli organismi interclassisti, dove anche la borghesia aveva riservato un posto. Come succede spesso in queste alleanze di fronte popolare in una situazione rivoluzionaria, gli esponenti della classe dominante preferiscono non apparire, stare nell’ombra mandando avanti i dirigenti riconosciuti della classe operaia. Il loro ruolo politico è invece preminente, essi orientano, come abbiamo visto durante la Resistenza, il programma e gli obiettivi politici.

Inoltre per il Pci i Cln dovevano essere delle strutture temporanee che “fiancheggino e sostengano l’azione governativa” e come enti locali “finché non sia possibile ricostruire questi organismi sopra una base democratica”. (5)

Il primo governo De Gasperi

Il 1946 si aprì con un nuovo governo, quello De Gasperi. Era un governo spostato a destra, dove le sinistre mantenevano alcune posizioni di prestigio ma dove i partiti della borghesia rafforzavano la loro presenza. Il liberale Corbino divenne il nuovo ministro del Tesoro e subito accantonò ogni timido proposito di riforma.

Togliatti accolse favorevolmente questo cambiamento. Ciò non ci deve stupire: gli avvenimenti parevano inserirsi a perfezione nella strategia della “democrazia progressiva” e della “via italiana al socialismo” che abbiamo descritto nei precedenti articoli di questa rivista.

Oltre al condizionamento di Stalin, secondo cui l’Italia doveva rimanere capitalista, Togliatti e la direzione del Pci credevano veramente di trovarsi in un governo progressista del paese. La loro strategia era quello di un governo di ricostruzione nazionale, da attuarsi non in opposizione alla borghesia ma con l’attivo coinvolgimento dei capitalisti onesti. Togliatti sognava una collaborazione duratura tra i tre grandi partiti di massa: la Dc, il Psi e il Pci. In questo possiamo vedere, tra l’altro, un’errata caratterizzazione della Democrazia Cristiana, vista come la mera continuazione del Partito popolare di Don Sturzo come rappresentante le classi medie “progressiste”.

Il ventennio fascista aveva completamente screditato il Partito Liberale. Esso era rimasto un partito di élite, completamente inservibile per competere sul terreno elettorale coi partiti comunisti e socialisti. La Dc poteva godere di un consenso di massa, contando sull’appoggio della Chiesa e degli Stati Uniti d’America e facendo leva su un programma interclassista che faceva appello alle classi medie, impoverite dalla distruzione della guerra. I capitalisti italiani scelsero questo partito per difendere i propri interessi. De Gasperi ebbe ben chiaro l’importanza dell’appoggio della classe imprenditrice e lo espresse in modo esplicito in un famoso discorso con cui preparava l’estromissione delle sinistre dal governo, nell’aprile 1947:

Vi è in Italia un quarto partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l’aumento dei prezzi e le campagne scandalistiche. L’esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l’Italia senza attrarre nella nuova formazione di Governo, in una forma o nell’altra, i rappresentanti di questo quarto partito, del partito di coloro che dispongono del denaro e della forza economica.” (6)

De Gasperi comprendeva perfettamente l’inconciliabilità degli interessi del capitale con quelli dei lavoratori e, soprattutto, che chi deteneva il potere economico, determinava le scelte del potere politico. Tutti concetti che i dirigenti comunisti si ostinavano a rifiutare. Anzi, Togliatti nutriva enormi illusioni e fiducia nel politico trentino. A Camilla Ravera che gli esprimeva i suoi dubbi rispondeva “Ma no credi a me, io e De Gasperi siamo d’accordo su un sacco di cose, dalla riforma agraria all’unità sindacale. Vedrai faremo insieme un buon lavoro” e “il Migliore” ricorderà anni dopo: “Avevamo letto un programma elaborato da De Gasperi e in quel programma si rivendicavano (…) un maggior numero di nazionalizzazioni di quante non ne rivendicassimo noi.” (7)

La strategia di De Gasperi e della borghesia era ben chiara. Servirsi della sinistra fin quando fosse necessario, coinvolgerla in tutto il lavoro sporco, per poi sbarazzarsene.

La rinascita del sindacato

A livello sindacale il patto di Roma del giugno 1944 aveva sancito la ricostruzione di un sindacato a livello nazionale, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil). Quest’ultima crebbe rapidamente e all’inizio del 1945 aveva già un milione di iscritti solo al Sud. Le lotte impetuose del proletariato avevano strappato importanti risultati, come aumenti medi dei salari del 65% alla fine del 1944 rispetto al 1942, la tredicesima mensilità e dopo la Liberazione, il blocco dei licenziamenti e l’istituzione della scala mobile dei salari.

La formazione di un unico sindacato rifletteva la spinta all’unità della base operaia, ma le modalità di costruzione del gruppo dirigente erano del tutto verticistiche. Il comitato direttivo era composto da 15 elementi, 5 per ogni componente, la segreteria da tre, egualmente distribuiti, senza tener conto dell’effettiva forza a livello di base. La componente democristiana era del tutto sovrarappresentata, ma il fatto era giustificato da De Vittorio e Togliatti al fine di preservare “l’unità antifascista”. Il secondo congresso della Cgil, tenutosi a Firenze nel giugno 1947, confermò questa valutazione: i comunisti ottennero il 55,8%, i socialisti il 22,6%, il 13,4% la corrente cristiana.

Ogni sforzo della componente cristiana all’interno della Cgil sarà diretto a frenare gli slanci di combattività del movimento operaio italiano. Lo scontro era sulla natura stessa del sindacato. Nella discussione sul nuovo statuto della Cgil, i dirigenti democristiani si opposero violentemente all’articolo 9 che prevedeva la possibilità di indire scioperi politici. Achille Grandi, massimo esponente democristiano nella Confederazione, spiegò che gli scioperi politici erano legittimi sotto una dittatura o in un regime di transizione, ma inammissibili in una democrazia compiuta. In un contesto del genere, disse, “la Repubblica si difende in Parlamento”. (8) Una concezione che relegava il sindacato ad una dimensione “economicista”, cioè di difesa esclusiva dei salari, negando il suo ruolo di difesa degli interessi complessivi della classe. In quegli anni la componente democristiana bollava ogni sciopero come politico, ostacolando l’azione dei lavoratori.

Nel frattempo gli industriali lanciarono un attacco a tutto campo nei confronti del movimento operaio, tutta una serie di conquiste dei lavoratori, come il blocco dei licenziamenti, non erano più tollerabili ai loro occhi. Quest’ultimo venne aggirato in modo parziale nel gennaio 1946 e poi sospeso definitivamente l’anno dopo, sempre attraverso un accordo tra Confindustria e Cgil. Tra febbraio e marzo 1946 240mila operai, il 13% della forza lavoro settentrionale, vennero licenziati. Attraverso le lotte alcuni furono reintegrati, ma un anno dopo seguirà un’altra ondata di licenziamenti, che arrivano al numero di 50-60mila a Milano e 35-40mila a Genova nell’ottobre 1947. Allo stesso tempo il costo della vita arrivava alle stelle. Fatto pari a 100 nel 1938, raggiunse quota 5.334 nel settembre 1947, mentre il livello dei salari (sempre fatto pari a 100 nel 1938) arrivava solo a 4.670.

Sul carovita subito fu convocato il primo sciopero generale post-Liberazione, il 4 Luglio 1945, che partendo da Torino si estese subito in tutto il Piemonte e in Lombardia. Altri scioperi esploderanno in tutto il paese a più riprese nel 1946-47, ma i partiti di sinistra faranno di tutto per limitarli a un livello puramente economico. La direzione Cgil addirittura accettò che i salari non aumentassero per tutto il 1946.

I discorsi di Togliatti durante l’Assemblea Costituente sono illuminanti in proposito. Ecco che cosa diceva il segretario del Pci nel gennaio 1947: “Si parla di ondate di scioperi politici che avrebbero scosso la compagine nazionale. Ho fatto una ricerca in proposito: noi siamo il paese dove hanno luogo meno scioperi. Non ha avuto luogo negli ultimi anni in Italia nessuno sciopero politico. Anzi, io desidero andare più in là: siamo un paese nel quale le organizzazioni operaie hanno firmato una tregua salariale, cioè un patto che è unico nella storia del movimento sindacale. (…) Da parte delle classi lavoratrici e dei sindacati operai si danno tutti gli esempi e si compiono tutti gli sforzi necessari per mantenere la disciplina della produzione, l’ordine e la pace sociale.” (9)

Ma questo non poteva bastare ai dirigenti democristiani per preservare l’unità sindacale, definitivamente affossata dopo l’attentato a Togliatti nel luglio 1948.

Nei primi mesi del 1946 i dirigenti comunisti mostravano ancora una fiducia illimitata per quanto riguarda “l’alleanza dei tre grandi partiti antifascisti”. Ai loro occhi la prova del referendum che aveva sancito la vittoria della repubblica, il 2 giugno 1946, era stata superata e De Gasperi aveva respinto con fermezza i tentativi golpisti del re e di settori dell’Esercito. La monarchia era del tutto screditata agli occhi non solo del proletariato per il suo appoggio al fascismo e la disfatta della guerra ed era ormai inservibile anche per la borghesia come strumento di difesa dei propri interessi. La democrazia repubblicana rappresentò da allora il sistema di dominio e di controllo migliore per i capitalisti (ed anche per l’imperialismo). I dirigenti democristiani si limitarono a prenderne atto e a prepararsi per essere i migliori amministratori politici di tale sistema.

Il referendum riflesse però una spaccatura tra Nord e Sud, se il sì alla Repubblica prevalse a livello nazionale con il 54,2% dei voti, al sud la Monarchia si impose con oltre il 60% dei consensi. Le vicende della lotta di Resistenza, più radicata al nord, incisero fortemente su questo risultato.

Le classi oppresse meridionali cominciavano a muoversi in modo massiccio proprio in quei mesi e non ci fu un riflesso diretto sul voto. Dobbiamo inoltre aggiungere l’astrattezza per molti settori più arretrati delle masse di una consultazione referendaria rispetto a una forma istituzionale nazionale, quando a livello locale la struttura dello stato era rimasta praticamente inalterata. Ancora più importanti furono gli errori della direzione del Pci nei confronti del Meridione e della questione agraria che affronteremo più avanti.

Il risultato delle elezioni per l’assemblea costituente rappresentò una delusione cocente per il Pci. La Democrazia Cristiana si imponeva come il primo partito, col 35% dei voti. Il Psiup era il primo partito della sinistra a Milano e a Torino ed a livello nazionale otteneva il 20,7%. Seguiva al terzo posto il Pci col 19% dei voti. Le sinistre e particolarmente i comunisti si confermavano maggioritari nelle città operaie del Nord, ma pagavano la collaborazione di governo, in un periodo dove il tenore di vita delle masse era migliorato ben poco.

La discussione sulla nuova Costituzione

Togliatti e i suoi speravano di ottenere risultati significativi nella discussione della nuova Costituzione. Là finalmente si sarebbero potuti delineare i punti salienti della “democrazia progressiva”. Le forze conservatrici riuscirono però a strappare alle sinistre una concessione, secondo cui l’assemblea Costituente non avrebbe avuto poteri legislativi ma solo la facoltà di discutere la Legge fondamentale dello Stato. Sarà compito del governo formulare leggi e decreti. La preoccupazione di De Gasperi e soci era chiaramente che, in un’assemblea dove le sinistre avevano oltre il 40 per cento, le spinte ad approvare leggi radicali sarebbero state troppo forti.

Oggi la Costituzione Italiana è avvolta da una sacralità quasi surreale, impossibile criticare i suoi contenuti, specie a sinistra. Davanti all’attacco della destra a tutti i diritti fondamentali, la Costituzione pare a molti l’unica diga che la sinistra possa contrapporre. I principi contenuti in essa si devono difendere con ogni mezzo, sentiamo ripetere.

La Costituzione italiana è piena di principi e di buone intenzioni, che però non sono mai stati realizzati. Come spiegò Piero Calamandrei, “Per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa.” (10)

Nella prima parte (i “principi fondamentali”) ci sono anche contenuti avanzati, si riconosce il diritto al lavoro e all’uguaglianza, l’esproprio entro i limiti di legge, ecc. Allo stesso tempo si ribadisce che l’iniziativa economica privata è libera e si legittimano tutte le strutture dello stato borghese: magistratura, Forze armate, Parlamento e così via.

Ad ogni modo nel febbraio 1948 la Corte di Cassazione stabilì che bisognava distinguere tra quelle parti della costituzione di immediata attuazione (“norme prefettizie”) e quelle da realizzarsi in un futuro non meglio precisato (“norme programmatiche”). Così anche dal punto di vista della legge i “sacri principi” potevano rimanere lettera morta. Questa è la ragione per cui tutta una serie di leggi e codici del regime fascista sono in vigore a tutt’oggi, anche se in palese contraddizione con la Costituzione stessa.

Inoltre non sempre le sinistre riuscirono, come citato in precedenza, a far prevalere contenuti progressisti. Famosa è l’approvazione, nel marzo del 1947, dell’articolo 7 riguardante i Patti Lateranensi firmati nel 1929 tra il Vaticano e Mussolini. Tutte le sinistre parevano compatte nel rifiutare il Concordato, che mina alle fondamenta l’uguaglianza religiosa dei cittadini. La Chiesa Cattolica alzava le barricate da tempo per conservarne la validità e l’accordo sembrava impossibile. A sorpresa Togliatti schierò il gruppo parlamentare comunista a favore dei Patti, con grande stupore dei socialisti e delle altre forze laiche. “La classe operaia non vuole nel paese una scissione per motivi religiosi” (11), argomentò il segretario del Pci. Approvato l’articolo più controverso e ottenuta una chiara vittoria, la Democrazia Cristiana si sarebbe mossa velocemente verso l’estromissione delle sinistre dal governo.

Mentre i dirigenti comunisti e socialisti accettavano qualsiasi compromesso per mantenere “l’unità delle forze democratiche”, la Dc, gli altri partiti conservatori e la borghesia preparavano l’alternativa. Scelba, un esponente dell’ala più reazionaria della Dc, diventava ministro dell’Interno e la repressione delle lotte assunse sempre più un carattere generalizzato, con l’utilizzo dei celeberrimi reparti della Celere. A livello internazionale, si sviluppò in quei mesi la rottura tra l’Urss e il blocco occidentale. L’Italia entrava nell’orbita degli Stati Uniti che si ergevano ad unica grande superpotenza capitalista sulle macerie della guerra. L’intervento dell’imperialismo americano attraverso il Piano Marshall contribuì in maniera non indifferente a risollevare il capitalismo italiano e all’affermazione della Dc come partito egemone nella società.

Le lotte nel Meridione

In precedenza abbiamo evidenziato brevemente le ragioni della vittoria della monarchia e dei partiti di destra al Sud. Una delle ragioni addotte per suffragare la tesi dell’impossibilità della rivoluzione in Italia in quegli anni è proprio l’arretratezza politica delle masse meridionali.

Nulla può essere più lontano dalla verità. La Resistenza nelle regioni meridionali fu debole, se si eccettuano le meravigliose quattro giornate di Napoli del 1943. Lo sbarco alleato in Sicilia rese infatti inutile uno sviluppo del movimento simile a quello del centro-nord. Ma scioperi e occupazioni di terre esploseo a partire dal 1944, si estesero l’anno successivo e raggiunsero la punta massima nel 1946-47. Le lotte si concentrarono attorno all’applicazione dei decreti Gullo, dal nome del ministro dell’agricoltura, comunista, durante il governo Bonomi.

Questi decreti sull’assegnazione delle terre incolte e malcoltivate, che intervenivano sui patti di mezzadria e su altri rapporti tra i contadini e gli agrari, non erano niente di rivoluzionario, anzi riprendevano decreti dei governi liberali dell’epoca prefascista. Il fatto nuovo fu che questi tentativi di moderata riforma erano firmati per la prima volta da un ministro comunista. Le masse contadine lo vedevano come un primo passo verso la conquista di pieni diritti nelle campagne e cominciarono a mobilitarsi per la loro attuazione.

La struttura della proprietà nelle campagne gridava allo scandalo: in Sicilia 282 proprietari possedevano il 20,6% dei terreni agricoli e forestali, mentre i contadini senza nemmeno un pezzo di terra erano il 38, 8% della popolazione agricola e insieme ai braccianti superavano il mezzo milione di persone. L’occupazione delle terre non coltivate assumerà proporzioni di massa, con vere e proprie situazioni insurrezionali che si estenderanno dal Fucino alla Capitanata, dalla Calabria alla Sicilia. Allo stesso tempo si scatenerà la repressione dello Stato che in Sicilia sarà accompagnata da quella della mafia al soldo degli agrari.

Nell’estate del 1945 fu la Puglia che insorse, con la popolazione che incendiò gli edifici comunali e le residenze dei proprietari terrieri ad Andria, Minervino, Bisceglie, Corato, Canosa. Manifestazioni di massa avvennero anche in Calabria, a Catanzaro, e poi nel marzo dello stesso anno tutta la popolazione di Andria si sollevò, ebbe la meglio sulla polizia e cominciò a regolare i conti con gli agrari. Per diversi giorni i contadini e le loro famiglie furono padroni della città, finché l’intervento congiunto di Di Vittorio, che appositamente volò da Roma per rivolgere un appello all’ordine alle masse, e la repressione delle Forze armate riuscirono a fermare la rivolta. Decine di morti e centinaia di feriti costituiranno il tragico bilancio di una situazione preinsurrezionale che coinvolse tutta la Puglia nei primi mesi del 1946.

In Sicilia il movimento per l’occupazione delle terre ebbe dimensioni di massa. Nel settembre del 1946 decine di migliaia di contadini occuparono i latifondi in gran parte della Sicilia fino ad arrivare allo sciopero generale del 28 settembre. A Sciacca diecimila contadini, di cui seimila a cavallo, protestarono contro i continui intralci rispetto all’assegnazione delle terre. Stato e mafia repressero e uccisero senza pietà: tutti i giorni venivano ammazzati dirigenti contadini o sindacali.

L’attuazione dei decreti Gullo ricevette un duro colpo dalla magistratura borghese, uno dopo l’altro tribunali pieni di magistrati dal passato fascista dichiararono illegali i decreti. Nulla di strano, visto che il Guardasigilli Togliatti durante il suo mandato non tentò nemmeno un timido tentativo di riforma dell’Amministrazione giudiziaria.

I contadini e i braccianti dimostrarono una grande capacità organizzativa. Gli iscritti alla Federterra, il sindacato agricolo della Cgil, all’inizio del 1945 erano già 120mila nella sola Sicilia. Il problema era costituito dal programma con cui i leader comunisti e socialisti si posero alla guida del movimento. Per questi ultimi, la causa dei problemi della Sicilia non era il capitalismo, ma la mancanza di una riforma agraria che “miri ad estendere e rafforzare la piccola e media proprietà,distruggendo il latifondo e i suoi residui feudali”, nelle parole di Togliatti.(12)

Il ragionamento restava tutto interno allo sviluppo della democrazia progressiva, e nel sud il compito immediato era lo sviluppo del capitalismo. I dirigenti comunisti e socialisti sembravano ciechi davanti al comportamento dei capitalisti veri, in carne ed ossa. Al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia, questi ultimi nominarono in decine di piccole e grandi città latifondisti, mafiosi ed ex fascisti alle cariche di sindaco e prefetto. Agrari e mafiosi entrarono nella Democrazia Cristiana, di cui costituiranno la spina dorsale d’ora in poi. Un’altra parte contribuì a fondare il movimento separatista, che nei suoi tratti essenziali ebbe un carattere reazionario, pur facendo leva sui reali problemi di arretratezza del Sud. Non neghiamo che esistevano frange progressiste ed anche rivoluzionarie all’interno del movimento, ma erano minoritarie ed aderirono ben presto al Pci o al Psiup.

Separatisti e fautori dello Stato unitario si trovarono alla fine uniti nel comune obiettivo di schiacciare il movimento contadino e operaio.

La direzione del Pci non sviluppò quest’analisi. L’ago della bussola era sempre rivolto all’alleanza con la Democrazia Cristiana. Ciò inevitabilmente introduceva alcuni problemi nelle mobilitazioni, dove ai propri militanti si dava indicazione di stringere accordi con il partito dei latifondisti di cui si occupavano le terre.

La ricerca spasmodica di una borghesia progressista produsse in quegli anni elaborazioni che non esitiamo a definire imbarazzanti. Emilio Sereni, ministro nel governo De Gasperi, spiegava nel suo libro Il capitalismo nelle campagne: “La lotta stessa di questa borghesia agraria in formazione [contadini ricchi e affittuari intermediari dei latifondi, ndr], contro la grande proprietà terriera latifondistica semifeudale assume così ancor oggi sovente, in Sicilia, la forma semifeudale della mafia.” (13) La mafia veniva descritta addirittura come “una delle principali armi nella lotta contro le classi feudali dominanti, e in particolare contro la grande terriera latifondistica nobiliare.” (14) Come giustamente nota il Santino, “La mafia in definitiva rappresenta [per Sereni, ndr] una borghesia impedita nel suo sviluppo dai latifondisti feudali, ha un ruolo progressista, perché i suoi interessi cozzano direttamente con quelli meramente reazionari dei proprietari.

Se negli anni ’40 i mafiosi erano in realtà dei parassiti, braccio armato della classe dominante, oggi sono parte di quella stessa classe, movendo enormi capitali e gestendo affari smisurati, ma nulla fecero ieri e tantomeno fanno oggi per lo sviluppo e il progresso della Sicilia. Semplicemente lo sviluppo della regione e di tutto il Meridione non poteva giungere per opera di alcun settore della borghesia o della piccola borghesia. Condizione per lo sviluppo del capitalismo in Italia era il sottoviluppo del Sud.

Nonostante tutte le lacune di analisi e programma delle sinistre, nelle elezioni regionali del 20 aprile 1947 il Blocco del Popolo, costituito da comunisti socialisti e indipendenti, vinse con il 29,1 % dei voti, mentre la Dc crollò al 20,5% (un anno prima, alle elezioni per l’Assemblea Costituente aveva ottenuto il 33,6%). La vittoria delle sinistre ebbe dimensioni ancora più importanti nelle campagne dell’agrigentino e del palermitano, chiaro risultato delle mobilitazioni.

Per la destra la vittoria elettorale delle sinistra rappresentò una provocazione a cui bisognava subito reagire. Per fermare i comunisti ogni mezzo era lecito. Il Primo Maggio a Portella della Ginestra la banda di Salvatore Giuliano aprì il fuoco sui manifestanti che festeggiavano la recente vittoria elettorale. Dodici persone rimasero a terra morte, trenta furono i feriti. Nel giro di poche settimane comunisti e socialisti vennero estromessi dal governo nazionale e in Sicilia la Dc formò un alleanza con monarchici e altri partiti conservatori.

È il caso di ricordare chi era Salvatore Giuliano. Indipendentista posto a capo dell’Evis (l’Esercito Volontari per l’Indipendenza della Sicilia) dopo che esso era stato depurato dalle tendenze progressiste, intratteneva rapporti con le più alte cariche di Esercito e Polizia. Più volte Li Causi, allora segretario del Pci siciliano, denunciò che chi dirigeva il banditismo in Sicilia era l’ispettore di pubblica sicurezza Messana, uomo anche dei Servizi Segreti.

Portella della Ginestra rappresenterà un punto di svolta nella lotta di classe del dopoguerra. Davanti all’avanzata del movimento operaio e contadino, sia in termini di mobilitazioni che elettorali, la classe dominante non esitò a ricorrere a qualunque metodo per fermarla.

La cacciata delle sinistre dal governo

Nel 1947 la borghesia italiana cominciava poco a poco a rafforzarsi e poteva finalmente mettere in atto la svolta che preparava da tempo sul terreno politico. A livello internazionale, De Gasperi si assicurò l’appoggio di Washington nel suo famoso viaggio nel gennaio di quell’anno da dove tornò annunciando trionfante un prestito di cento milioni di dollari nei confronti dell’Italia. Era l’anticipo del Piano Marshall di ricostruzione dell’Europa capitalista.

In tutta Europa, dalla Francia al Belgio, dalla Danimarca alla Norvegia, tutte le coalizioni di governo nate dalla Resistenza terminarono con l’estromissione dei socialisti e dei comunisti.

I padroni italiani avevano bisogno di lanciare un attacco duro nei confronti del movimento operaio, cosa impossibile stante la permanenza delle sinistre al governo. La crisi economica era gravissima, e il presidente della Confindustria, Angelo Costa, presentò a De Gasperi il proprio programma per uscirne. Forte svalutazione della moneta, tagli alla spesa pubblica, licenziamenti, abolizione del calmieramento dei prezzi e dei controlli sui cambi.

La svolta era sostenuta anche dalla Chiesa, sempre più indisponibile a sostenere una coalizione con i Comunisti. “O con Cristo o contro Cristo, o per la Chiesa o contro la sua Chiesa” ammonì Pio XII nella sua omelia alla vigilia di Natale del 1946.

I dirigenti della Democrazia Cristiana sentivano inoltre il terreno scivolare sotto i loro piedi. La sconfitta elettorale siciliana era stata preceduta dalla tornata di elezioni amministrative del novembre 1946, dove la Dc aveva subito una pesante perdita di consensi a Roma, ma non solo; a Napoli, ad esempio, i suoi voti si dimezzarono in termini assoluti. Nelle stesse elezioni il Pci ottenne un successo elettorale, soprattutto a scapito del Psiup.

Il partito socialista si trovava nel bel mezzo di una crisi che portò alla scissione di destra del Psli, che presto cambiò il suo nome in Psdi (Partito Socialdemocratico Italiano), di Saragat nel gennaio 1947. Saragat accusava tra l’altro la maggioranza di essere supina al Partito Comunista. La scissione ebbe pesanti conseguenze per il partito socialista: perse 52 dei suoi 115 deputati e un terzo del partito. Il Psdi andò presto a far parte di numerosi governi in alleanza con la Democrazia Cristiana, di cui resterà sempre nell’orbita fino all’inizio degli anni novanta.

Il Partito socialista italiano, d’altro canto, rimarrà a lungo all’ombra del Partito comunista. Si trattava in fondo di due partiti che disponevano di un programma simile. Il massimalismo di Basso e Morandi si muoveva nella più classica tradizione socialista: a parole erano molto più a sinistra del Pci, ma erano incapaci di elaborare una tattica e una strategia rivoluzionaria. I comunisti emergevano dalla guerra con una migliore organizzazione di partito, ma soprattutto col vantaggio di essere i rappresentanti in Italia dell’Urss, il paese che aveva sconfitto il nazismo e dove c’era il socialismo (almeno così lo vedevano le masse in mancanza di un’alternativa). In un mondo che cominciava ad essere diviso in due blocchi contrapposti, agli occhi delle masse non c’era proprio competizione.

Un altro sintomo della crisi dei gruppi dirigenti che avevano fatto la Resistenza fu la crisi del Partito d’Azione, forse il Partito che più si era identificato con la resistenza e la lotta partigiana. Era il partito di quegli intellettuali e di quelle classi medie ed alte che si erano poste su un terreno radicalmente progressista, della trasformazione rivoluzionaria e progressista dello stato Italiano.

Ma la borghesia non sapeva che farsene di un partito del genere. Dilaniato da lotte intestine tra un’ala moderata e un’altra socialista, il Pd’Az ricevette il colpo di grazia alle elezioni del 1946 dove ottenne un insignificante 1,5%. La sinistra del partito traghettò in seguito nel Psi e nel Pci, mentre i moderati costituirono la spina dorsale del Partito Repubblicano.

Dopo la firma del Trattato di Pace, per cui era indispensabile l’approvazione di Stalin, la ratifica della Costituzione e l’indebolimento della sinistra, De Gasperi non aveva più nulla da chiedere all’alleanza tripartito. Il 13 maggio provocò la crisi di governo e il 31 il nuovo governo ottenne la fiducia delle Camere. Le sinistre sono cacciate all’opposizione. Il Partito Comunista Italiano non farà più parte di un governo per tutto il resto della sua storia.

La direzione del Pci fino all’ultimo non si rese conto della situazione. Scoccimarro, allora ministro delle Finanze, ricordò in seguito che lavorò tutta la notte per redigere il bilancio preventivo da consegnare a De Gasperi in partenza per gli Stati Uniti, in modo che gli americani potessero vedere che un paese amministrato dai comunisti aveva tutti i conti in ordine.

Di fronte a uno scenario politico profondamente mutato, la prospettiva su cui si orientava il partito non cambiava poi molto, come spiegò Togliatti: “Pur essendo fuori dalla compagine ministeriale, noi dovremmo dichiararci ed essere concretamente un partito di governo che non faccia solo una sterile opposizione”. Occorreva quindi “non correre il rischio di perdere il nostro carattere nazionale e unitario ed impedire che il partito e le masse che ci seguono scivolino su posizioni che conducono alla lotta e all’insurrezione armata.” (15)

È chiaro a tutti che un’insurrezione non si può convocare a piacimento. Una rivoluzione deve essere preparata e a questo riguardo il tempismo, cioè cogliere il momento favorevole è essenziale, come dimostra l’esperienza della Grecia. La direzione del Pci non si poneva però su questo piano. Scartava l’ipotesi di una rivoluzione proletaria a priori, confinandola in un lontano futuro, quando la ricostruzione economica capitalista sarebbe stata ultimata.

Il Pci all’opposizione

Le masse in Italia avevano dimostrato tutta la loro volontà rivoluzionaria. Lo avevano fatto durante la resistenza, durante gli scioperi e le occupazioni delle terre. Lavoratori e giovani erano entrati a centinaia di migliaia nel Partito Comunista. Dai 5-6mila iscritti nel luglio del 1943 il Pci era passato a 400mila nell’aprile del 1945 per arrivare a 1 milione 700mila nel gennaio 1946 e a oltre due milioni l’anno seguente. Quando nella seconda metà del 1947 le sinistre e il sindacato organizzarono in maniera più sistematica le lotte contro l’ondata di licenziamenti (i disoccupati arrivarono nell’ottobre di quell’anno a oltre 2 milioni e 400mila) e le lotte nelle campagne, le masse risposero compatte. Particolarmente rilevanti furono le lotte bracciantili e dei mezzadri in tutto il centro-nord, in cui si formarono circa 1900 consigli di fattoria, formati da braccianti, mezzadri e contadini poveri che in molti casi presero in mano la direzione delle proprietà dei proprietari terrieri. Nel settembre 600mila braccianti in tutta la Pianura Padana scesero in sciopero per dodici giorni. Ottennero un successo parziale, con l’introduzione della giornata lavorativa di otto ore e della scala mobile.

Il problema centrale era però il modello di società proposto dalla direzione del movimento operaio. Milioni di oppressi avevano sinceramente creduto che in Italia si sarebbe fatto come in Russia, che l’Armata Rossa avrebbe portato il socialismo.

Né Togliatti ne Stalin avevano però quest’intenzione. Ambedue prospettavano un lungo periodo di capitalismo in Italia. Il capitalismo significava in quegli anni fame, miseria e repressione. Come risolvere il problema dei licenziamenti di massa senza espropriare i grandi gruppi industriali? Come dare la terra ai contadini senza smantellare il latifondo? Come assicurarsi l’appoggio delle classi medie, stroncate dall’inflazione, senza espropriare le banche e colpire i grandi speculatori?

Per Togliatti invece “La lotta si impegna quindi non contro il capitalismo in generale, ma contro particolari forme di rapina, di speculazione e di corruzione.” (16)

In una lotta tutta all’interno dei limiti del sistema capitalista, gli avversari disponevano sicuramente di una marcia in più. Riappropriatisi dell’apparato dello Stato, la borghesia scatenò un clima di terrore. Raramente ci fu manifestazione contadina o operaia in quegli anni che non si concluse con morti e feriti ad opera della Celere.

I licenziamenti e la politica di moderazione salariale avallata dalla direzione sindacale indebolirono il movimento operaio. Nel nuovo governo De Gasperi aveva trovato posto come ministro del Tesoro Luigi Einaudi. L’ex governatore della Banca d’Italia seguì pedissequamente il programma degli industriali. Riportò l’inflazione sotto controllo, attuando una politica di deflazione riducendo drasticamente la quantità di denaro in circolazione. Fu scartata ogni ipotesi di tassazione progressiva e così il costo della nuova politica economica fu fatta ricadere interamente sulle spalle dei ceti operai. Proprio quello che volevano gli americani, che intervennero sempre più massicciamente nell’economia e nella politica italiana.

Ciò non significa che gli Americani fossero onnipotenti. Certamente osservavano con preoccupazione gli avvenimenti in Italia e si erano preparati per un’eventuale vittoria elettorale delle sinistre nelle elezioni del 1948. Se si fosse verificata una tale eventualità, l’intervento militare diretto era l’ipotesi maggioritaria a Washington.

Ogni rivoluzione deve affrontare la reazione dei controrivoluzionari e dell’imperialismo. Così fu nella Russia sovietica quando i bolscevichi dovettero affrontare l’attacco di 21 armate di 19 diversi paesi. Ma non è affatto detto che gli Usa sarebbero riusciti a schiacciare un movimento rivoluzionario di milioni di persone. L’esercito americano era sì presente in Italia, ma era in piena smobilitazione. Non si può paragonare la situazione alla Grecia del 1944-’49. Inoltre una propaganda di classe rivolta ai soldati per non attaccare una Repubblica dei lavoratori, per di più costituitasi dopo elezioni democratiche, avrebbe avuto una sicura presa.

Le elezioni del 18 aprile 1948

Sulla base delle strategie politiche e dei rapporti di forza descritti in precedenza ci si avvicinava alle elezioni politiche del 1948. Poche volte nella storia di questo paese una campagna elettorale fu così combattuta. La borghesia utilizzò ogni mezzo per vincere. Gli americani intervennero pesantemente. 176 milioni di dollari furono concessi in forma di aiuti all’Italia nei primi tre mesi del 1948. Subito dopo partì il Piano Marshall, riguardo il quale l’amministrazione Usa precisò che, in caso di vittoria comunista, sarebbe stato immediatamente sospeso. Milioni di dollari affluivano direttamente alla Dc per sostenere le spese della campagna elettorale. Un mese prima delle elezioni, gli stessi Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia, potenze alleate vincitrici, promisero che Trieste sarebbe tornata all’Italia, una questione che rivestiva allora un’importanza non secondaria.

La campagna della borghesia si svolse all’insegna del più viscerale anticomunismo, con il Papa che paragonava Togliatti all’Anticristo e scomunicava tutti i comunisti. Ma spesso la propaganda assumeva un aspetto più concreto: “Coi discorsi di Togliatti non si condisce la pastasciutta. Perciò le persone intelligenti votano per De Gasperi che ha ottenuto gratis dall’America la farina per gli spaghetti e anche il condimento.” (17)

E questo fu il ragionamento di tanti settori delle classi oppresse più arretrati. Cosa ci offrono Togliatti e Stalin? Il capitalismo, il sistema di cui l’America è il simbolo, e che da questo punto di vista sicuramente ci aiuterà più della Russia.

Ecco gli effetti concreti della via italiana al socialismo e della teoria del “socialismo in un paese solo” nella psicologia delle masse!

La campagna si giocò sulla contrapposizione tra comunismo e libertà,e non sulla scelta tra “rinnovamento” e “conservazione” come avrebbero desiderato Togliatti e Nenni.

Il legame strettissimo tra il Pci e lo stalinismo, ribadito dalla costituzione del Cominform che Stalin aveva voluto per continuare a dettare la linea politica ai partiti comunisti europei, non giovava alla propaganda elettorale. La reazione aveva buon gioco nel dimostrare che in tutti i paesi dell’Est dove era presente l’Armata Rossa, tutti i partiti tranne quelli favoriti da Mosca erano stati banditi.

I risultati delle elezioni di una campagna così straordinaria furono altrettanto eccezionali. I votanti furono il 92,2%, la più alta percentuale di affluenza della storia repubblicana. La Democrazia Cristiana balzò dal 35,1 al 48,8% (dodici milioni di voti). Pci e Psi si presentarono uniti nel Fronte Popolare, che raccolse il 31% dei suffragi (otto milioni di voti), circa un 10% in meno di quanto ottenuto dai due partiti separati nel 1946. La lista di “unità socialista” di Saragat raggiunse il 7%, raccogliendo consensi soprattutto al Nord. Le liste di destra, dai Monarchici all’Uomo Qualunque quasi scomparvero, lasciando il posto al neonato Msi che si rifaceva alla Repubblica Sociale.

La vittoria della Democrazia Cristiana era stata schiacciante, ma non definitiva. L’ondata rivoluzionaria che si era sviluppata dal 1943 assicurava una sicura base d’appoggio di massa alla sinistra. L’avanguardia nelle fabbriche e nelle campagne era chiaramente con il Partito Comunista e in misura minore con i socialisti. Ma le grandi masse avevano perso parzialmente la fiducia nelle capacità del Fronte Popolare di risolvere i propri problemi, e nella cabina elettorale, sicuramente l’ambito di scontro più difficile per un partito operaio, avevano deciso di affidarsi alla Dc.

Questa conclusione non era affatto inevitabile, ma dovuta come spiegato agli errori della direzione del movimento operaio. Inoltre solo quattro mesi dopo un avvenimento imprevedibile avrebbe potuto capovolgere completamente i destini della rivoluzione italiana.

L’attentato a Togliatti

La mattina del 14 luglio Palmiro Togliatti venne gravemente ferito da un fanatico anticomunista. L’attentato fu certamente favorito dal clima isterico contro i comunisti di quei mesi, rinvigorito dal successo elettorale delle destre.

Subito tutta l’Italia si fermò. Non ci fu praticamente operaio, contadino o bracciante che non si unì alla protesta.

A Torino tutte le fabbriche furono occupate e presidiate dagli operai in armi. Non circolavano tram e tutti i negozi erano chiusi. Alla Fiat, Valletta e altri dirigenti furono sequestrati nel loro ufficio.

A Genova, i lavoratori occuparono le piazze e le strade e si scontrarono con la polizia, prevalendo facilmente e alzando barricate in tutta la città difese da mitragliatrici, mentre radio e giornali passarono nelle mani degli insorti. A Milano centinaia di migliaia di lavoratori affollarono Piazza del Duomo. Tutte le fabbriche furono occupate e Sesto San Giovanni era in mano agli operai. Episodi del genere si ripeterono in ogni centro d’Italia a Bologna, Firenze, Venezia, Napoli. A Roma scontri con la Polizia avvennero in ogni parte della città. Duecentomila persone sfilarono davanti al Policlinico dove era ricoverato Togliatti. Ad Abbadia San Salvatore, piccolo centro in provincia di Siena tutto il paese insorse e venne occupata la cabina telefonica, fondamentale per i collegamenti tra Nord e Sud.

Nella storia del movimento operaio italiano, non c’è mai stato uno sciopero insurrezionale così spontaneo, così compatto, così esteso come quello del 14-16 luglio 1948. Occorre tener conto che lo sciopero generale del 14 luglio non fu preparato e non fu preceduto da alcun lavoro di organizzazione.” Così analizzò Pietro Secchia, allora uno dei massimi dirigenti comunisti, e poi aggiunse che il partito “non parlò di sciopero insurrezionale, non si invitò i cittadini ad armarsi disarmando il nemico, non si disse di occupare gli edifici pubblici, le ferrovie, le radio, le centrali telefoniche, ecc.” (18)

In questa ammissione di Secchia c’è tutta la straordinarietà e la tragedia dei fatti dello sciopero generale del luglio 1948. Milioni di lavoratori spontaneamente presero possesso di fabbriche, uffici pubblici e numerosi centri di potere. Volevano farla finita con il governo e con tutto il sistema, finalmente, pensavano, l’ora era arrivata. Famoso il grido che gli operai romani rivolsero a D’Onofrio, dirigente del Pci durante il comizio del 14 luglio: “D’Onofrio, dacce er via”. La direzione del Partito comunista andò nelle prime ore a traino del movimento di massa , rendendo tuttavia chiara fin dall’inizio l’indisponibilità all’azione rivoluzionaria. “Nessun cedimento a ipotesi insurrezionali, mobilitazione di piazza a oltranza con l’obiettivo delle dimissioni del governo.” (19) Queste erano le parole d’ordine nel comunicato del 14 luglio, seguito da uno simile della Cgil.

La contraddizione di queste parole d’ordine era chiara: come era possibile che il governo si dimettesse se non per via insurrezionale? Uno sciopero generale, e ancor di più uno ad oltranza pone implicitamente la questione del potere. Il paese si era bloccato, e il potere reale era nelle mani delle masse insorte. Il partito non aveva pensato a una struttura alternativa per gestire questo potere, tipo i soviet. Nessuna indicazione era stata fornita alle organizzazioni locali del partito, che in molti casi disponevano di servizi d’ordine armati e reagirono all’attentato in ordine sparso, non organizzati e in molti casi andando più in là rispetto alla linea ufficiale.

In casi come questi, la paura della reazione prese il sopravvento in dirigenti che si erano formati sulla prospettiva di un lungo periodo di “collaborazione democratica”. Togliatti dal letto di ospedale condivise questa posizione, invitando le masse a tornare a casa e a “non cedere alle provocazioni”.

Dalla mattina del 15 luglio la principale preoccupazione della direzione del Pci e della Cgil fu quella di far rientrare la mobilitazione. Ecco stralci del comunicato dell’Esecutivo della Cgil del 16 luglio 1948:

Lo sciopero generale costituisce una conferma manifesta della decisa volontà delle masse lavoratrici e democratiche di opporsi risolutamente all’offensiva della reazione. Prendendo atto di questa indomabile volontà (…) il comitato esecutivo decide la cessazione dello sciopero generale per le ore 12 di venerdì 16 corrente”.  (20)

Non fu facile far rispettare il termine suddetto. A Torino lo sciopero continuò per tutto il giorno. A Milano migliaia di lavoratori invasero la Camera del Lavoro per protestare contro la cessazione dello sciopero. A Bologna 80mila lavoratori si scontrarono davanti alla Camera del Lavoro con la Celere. fu solo la repressione delle forze dell’ordine che fece cessare la rivolta delle masse lasciate senza direzione.

Oggi sono ben pochi gli storici o i dirigenti della sinistra che difendono la possibilità di una vittoria della rivoluzione nel luglio del 1948. Un testo su quell’esperienza è addirittura intitolato provocatoriamente “La rivoluzione impossibile”. In quei tre giorni, la classe operaia era fermamente decisa ad andare fino in fondo. Le classi medie solidarizzavano, sull’ondata emotiva di un attentato così vile. La borghesia era impotente, almeno nei primi due giorni. Le Forze dell’ordine erano sopraffatte dall’impeto rivoluzionario delle masse. Mancava solo un Partito, un’avanguardia rivoluzionaria che le guidasse alla presa del potere. Il riformismo e lo stalinismo si rivela in tutta la sua codardia, ieri nelle azioni ed oggi nelle analisi. Per questi intellettuali il momento per la rivoluzione è sempre sfavorevole e le idee marxiste buone per i “sognatori”.

La borghesia approfittò subito dell’impreparazione dei dirigenti riformisti. Il luglio del 1948 rappresenta uno spartiacque nella storia del movimento operaio.

Nei tre giorni dello sciopero generale, secondo le cifre ufficiali, venti furono i morti, seicento i feriti e 7mila gli arrestati. La repressione si scatenò ancora più spietata negli anni successivi: 62 i lavoratori uccisi delle forze della ordine, 3.126 i feriti e oltre 92mila gli arrestati per motivi politici che si contavano alla fine del 1950. Nel settembre del 1948 nacque la Libera Cgil, poi Cisl, e due anni dopo venne fondata la Uil.

Questo è il duro bilancio dell’offensiva della borghesia e degli errori dei dirigenti riformisti e stalinisti. Da questa dura sconfitta il movimento operaio non si risollevò che venti anni dopo.

Note

1. S.Turone, Storia del sindacato in Italia 1943-69, Laterza 1973, pag. 128.

2. S.Turone, op.cit., pag.127.

3. S.Turone, op.cit., pag. 143.

4. P.Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi 1989, pag. 120.

5. Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, Vol. 4, Savelli 1979, pag. 181.

6. Paul Ginsborg, op.cit., pagg. 100-101.

7. Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, l’Unità-Mondadori 1992, pag. 407.

8. S. Turone, op. cit., pag 147.

9. R. Del Carria, op.cit., pag.190.

10. Enzo Santarelli, Storia critica della Repubblica, Feltrinelli 1996, pag. 34.

11. S. Turone, op.cit., pag.157.

12. Umberto Santino, Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti 2000, pag. 138.

13. U. Santino, op. cit., pag.153.

14. U. Santino, op.cit., pag.154.

15. Francesco Barbagallo, Dal ’43 al ’48, l’Unita/Einaudi 1996, pag.129.

16. Paul Ginsborg, op. cit. pag.122.

17. P. Ginsborg, op.cit., pag. 155.

18. R. Del Carria, op. cit., pag. 205.

19. Giovanni Gozzini, Hanno sparato a Togliatti, Il saggiatore 1998, pag.75.

20. Giovanni Gozzini, op.cit., pag. 165.

 

 

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