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Nello scontro tra blocchi l’Europa è il vaso di coccio

di Claudio Bellotti

 

In un lungo discorso tenuto il 25 aprile, il presidente francese Macron si è abbandonato a dichiarazioni crepuscolari sul futuro dell’Unione Europea. L’Europa, ha detto, “può morire”, concetto ribadito in una intervista all’Economist, che a sua volta parla di “avvertimento cupo e profetico”.

 

Macron ha ragione: la borghesia europea si trova di fronte a una crisi senza precedenti. Se in tutto il mondo il sistema capitalista sperimenta contraddizioni crescenti e va dividendosi sempre più nettamente in blocchi contrapposti, l’Unione Europea risulta un vaso di coccio e perde vistosamente terreno sul piano economico e politico.

Le cifre sono chiare: se la Cina ha la sua crescita peggiore da trent’anni, gli USA crescono metà della Cina e l’Europa a sua volta cresce la metà degli USA. È la strada del declino.

Per capire le ragioni di fondo di questo declino dobbiamo partire dalle questioni fondamentali. L’economia capitalista ha due ostacoli fondamentali alla sua espansione: da un lato la proprietà privata dei mezzi di produzione, dall’altro i limiti costituiti dai confini degli Stati nazionali. Sono stati questi limiti, storicamente, a generare le due guerre mondiali del secolo scorso e gli sviluppi successivi.

 

Le basi dell’Unione Europea

Dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale apparve chiaro che gli Stati europei, che una volta dominavano il mondo, erano ormai troppo piccoli per ambire a confrontarsi alla pari con gli USA. Nacque quindi nel dopoguerra il percorso dell’integrazione europea che, partendo dalla CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, 1949), ha poi portato ai Trattati di Roma (1957), alla CEE (Comunità Economica Europea) e infine all’attuale Unione Europea.

La borghesia ama ripetere che grazie all’integrazione europea ci sono stati 70 anni di pace e prosperità e che si erano “comprese” le lezioni delle guerre mondiali. Ma questa favola per bambini non ha nessun rapporto con i fatti.

Le borghesie europee poterono integrarsi 1) perché gli USA favorirono il progetto con gli investimenti del piano Marshall. L’imperialismo USA aveva bisogno di un’Europa occidentale prospera e inserita nella sua sfera d’influenza per contrastare l’Unione Sovietica e condurre la “lotta al comunismo”. 2) Dopo la guerra anche le potenze nominalmente vincitrici Francia e Gran Bretagna erano ridotte a potenze di secondo piano, subordinate agli USA e inserite nella NATO. 3) L’imperialismo tedesco, il più forte del continente, era uscito demolito e la Germania stessa era divisa tra blocco occidentale e blocco sovietico. Era il “pacifismo” di un continente sconfitto e in declino.

Il “miracolo economico” del dopoguerra permise la ripresa del capitalismo in Europa, che pur mantenendo il suo carattere imperialista era chiaramente inserito in una gerarchia saldamente guidata dagli USA, i quali inoltre avevano (ed hanno) le loro basi militari nel continente.

Con la decisione di introdurre l’euro, assunta col trattato di Maastricht del 1992 e resa operativa nel 2002, ci fu una fase diversa. Il crollo dell’URSS e la riunificazione della Germania davano uno spazio economico maggiore al capitalismo europeo e soprattutto tedesco. Seppure la moneta unica non fosse particolarmente amata a Washington, in un mondo in cui le barriere commerciali venivano ridotte e la circolazione internazionale di merci e capitali si moltiplicava rapidamente, c’era un certo spazio per tutti gli attori. La fase della “globalizzazione” e della moneta unica determinò anche una ridislocazione degli equilibri interni all’Europa: l’industria italiana, non più protetta dalle svalutazioni e dal ruolo dello Stato, iniziò un lungo periodo di ridimensionamento, mentre il capitalismo tedesco guadagnava grandi spazi nei mercati internazionali, espandendosi nell’Europa orientale, nei Balcani e in Cina.

Non fu, peraltro, una semplice espansione del “commercio pacifico”. Le guerre con cui venne smembrata la Jugoslavia videro pesanti responsabilità dei paesi dell’UE, in particolare della Germania e dell’Italia.

È importante comprendere come l’espansione economica non comportò una maggiore autonomia politica. Non a caso l’allargamento dell’UE ha coinciso con l’allargamento della NATO, a conferma che l’egemonia USA non veniva comunque messa in discussione.

 

La crisi del 2008

La Belle époque del capitalismo è arrivata bruscamente al capolinea con la crisi del 2008, a cui sono seguite la pandemia, l’esplosione dell’inflazione e le guerre in Ucraina e a Gaza.

Il mondo si è rapidamente capovolto: dal libero commercio al protezionismo, dal mondo “globalizzato” ai blocchi contrapposti. Dalla “pacifica libera concorrenza” si passa all’intervento sempre più marcato degli Stati nell’economia, ciascuno a protezione dei propri capitali, dei propri mercati, delle proprie sfere d’influenza a spese dei concorrenti.

Questa brusca svolta ha lasciato l’Unione Europea letteralmente a gambe all’aria.

Le ricette proposte da Macron nel suo discorso ricalcano i discorsi di tutti i politici liberali, degli economisti, degli intellettuali, dei media: l’Europa è troppo divisa, ci vuole maggiore integrazione economica, ci vuole un piano coordinato con capitali adeguati per sostenere l’industria, ci vuole una politica estera comune, una difesa comune ecc.

Queste giaculatorie non sono nuove, ma con lo scoppio della guerra in Ucraina, soprattutto ora che è evidente la prevalenza militare della Russia, si fanno particolarmente lamentose.

Ma per quanto parlino di unità e integrazione, le borghesie europee sono più divise che mai, e lo resteranno non per “cecità” o per ignoranza, ma perché i loro interessi sono contrapposti e soprattutto perché sono troppo deboli per determinare il proprio destino.

Sul piano economico oggi sono due le leve fondamentali della competizione mondiale: il protezionismo commerciale (dazi, sanzioni ecc.) e i piani di intervento statale a sostegno dell’economia.

Sulle politiche doganali l’UE è profondamente divisa. Nel settore auto, ad esempio, se la Francia chiede a gran voce di porre dazi all’importazione delle auto elettriche cinesi, la Germania rimane contraria perché i suoi gruppi automobilistici, assai presenti sul mercato cinese, subirebbero le inevitabili rappresaglie. Le sanzioni imposte alla Russia hanno significato un colpo durissimo per l’industria tedesca (e italiana), privata dell’energia a basso prezzo e parzialmente esclusa dalla sua sfera di espansione a est, ma hanno danneggiato molto meno la Francia.

Allo stesso modo se si introducessero, come ha proposto Macron, forti limiti all’importazione di prodotti legati alla transizione energetica, di cui la Cina è di gran lunga il primo produttore ed esportatore, si aprirebbero nuove contraddizioni tra i paesi UE.

Tutti parlano di dare maggior sovranità all’UE, ma questo significa togliere quella stessa sovranità ai singoli Stati, e quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, diventano tutti molto evasivi.

 

Lo scontro con USA e Cina

Sia la Cina che gli USA stanno usando a mani basse l’intervento dello Stato per proteggere le proprie industrie. Lo Stato cinese non ha mai abbandonato un sostanziale controllo dei settori chiave dell’economia, ma se in passato ha lasciato ampi spazi al capitale privato sia nazionale che estero, oggi le cose stanno cambiando. Lo Stato sta rilevando un settore immobiliare virtualmente fallito, con una crisi paragonabile a quella dei subprime USA del 2007, e ha anche condotto una offensiva contro grandi capitalisti come Jack Ma, fondatore di Alibaba (“l’Amazon cinese”), e altre imprese.

Ancora più netta la svolta negli USA, dove la differenza tra Trump e Biden sta solo nel fatto che il protezionismo e l’interventismo economico di Biden sono molto più sistematici di quelli di Trump. Biden infatti non solo ha mantenuto e rafforzato i dazi doganali, ma con le sanzioni alla Russia ha colpito al cuore alcune delle direttrici fondamentali del commercio internazionale (in particolare a danno dei “cari alleati” europei). Ha poi introdotto giganteschi finanziamenti per sostenere gli investimenti industriali negli USA, sia da parte del capitale nazionale che estero. Inflation Reduction Act, Chips Act ecc. altro non sono che giganteschi sussidi a chi produce e investe negli USA e a danno di chi cerca invece di esportare negli USA stessi.

La sostenibilità di queste politiche, che gravano fortemente sul debito pubblico, è sostenuta nel caso della Cina dal forte capitalismo di Stato e da una valuta non pienamente convertibile; nel caso degli USA dal fatto che stampano quella che è ancora la valuta principale negli scambi internazionali.

L’UE compete qui con una mano legata dietro la schiena, perché se è vero che dispone della moneta unica, è anche vero che gli Stati membri hanno bilanci indipendenti che devono finanziare ciascuno per conto proprio. La risposta, sperimentata con la pandemia e il PNRR (che in Europa si chiama Next Generation EU), è stata per la prima volta di creare un debito comune, oltre che di fare assorbire alla BCE una quota importante dei debiti pubblici, di fatto stampando moneta.

Ma le dimensioni contano e il “volume di fuoco” messo in campo dall’UE non è lontanamente paragonabile a quello degli USA. Macron, nel suo discorso, ha realisticamente valutato in 650-1.000 miliardi di euro l’anno i fondi necessari per un vero rilancio dell’industria europea nei campi della difesa, dell’energia, delle alte tecnologie, e in altri settori chiave.

Si tratterebbe quindi di creare un enorme debito aggiuntivo: ma come finanziarlo? A quanto dovrebbero salire i tassi d’interesse per coprire un debito ulteriore di questa mole? E se invece ci si rivolgesse di nuovo alla BCE, a quale livello salirebbe l’inflazione stampando denaro in queste proporzioni? E quali sarebbero le conseguenze per l’euro?

La concorrenza tra blocchi oggi è quindi ben diversa da quella dei decenni passati. Non basta la capacità produrre ed esportare che ha fatto ricca la Germania, rendendola egemone nell’UE, né basta un mercato interno di oltre 400 milioni di persone come è quello europeo. È uno scontro tra sistemi e blocchi nei quali la frammentazione dell’UE è una condanna inappellabile.

Il sistema istituzionale e di regole europee è stato creato per esasperare la concorrenza e ridurre al minimo il ruolo dello Stato nell’economia. Nelle condizioni odierne è l’esatto contrario di quanto serve alla borghesia.

 

La lotta di classe che si prepara

Indubbiamente dopo le elezioni vedremo uno sforzo dei settori più forti del capitale europeo per modificare o rovesciare questa sovrastruttura ormai controproducente. Come negli anni ’90 si è prodotta una notevole centralizzazione del capitale (a spese dei paesi più deboli dell’UE, inclusa l’Italia), ora si proverà a centralizzare sul piano politico, istituzionale, finanziario, nel tentativo di giocare alla pari contro USA e Cina.

In questo scontro l’UE parte in forte svantaggio e non basteranno certo i soliloqui allo specchio di Macron o il cerchiobottismo del cancelliere Scholz, sempre con i piedi in due scarpe, per mettere in discussione un assetto mondiale sempre più irreggimentato, in cui i blocchi si consolidano e il livello dello scontro non fa che aumentare.

La linea dell’integrazione del capitale europeo accomuna le principali forze politiche nel continente: i popolari, i socialdemocratici, i liberali, i verdi, la sinistra europea. L’evoluzione di Meloni e Le Pen dimostra che questa linea guadagna terreno anche a destra. Pur avendo differenze profonde, questi partiti per amore o per forza convergono verso questa posizione.

Ma gli ostacoli e le contraddizioni del capitale europeo che abbiamo qui accennato sono nel fondo insuperabili, e nella misura in cui si procederà sarà possibile farlo solo scaricandone tutto il peso sulla classe lavoratrice e in parte sulla piccola borghesia. Le spese per il riarmo, per l’autonomia energetica, per il protezionismo, saranno altrettanti macigni scaricati sui ceti popolari.

Questo condannerà tutte le varietà del riformismo sul continente (comprese le burocrazie sindacali) a un’esistenza misera, più che mai a rimorchio del settore liberale della borghesia. Tutte queste forze non riescono a guardare oltre all’Europa, al presunto “modello sociale europeo” del tempo che fu, a un ruolo di mediatore dei conflitti internazionali che esiste solo nella loro fantasia.

Ma noi, che non siamo europeisti ma siamo internazionalisti, che ci basiamo quindi sugli interessi e sull’esperienza della classe operaia di tutto il mondo, vediamo invece con chiarezza che gli enormi antagonismi generati dalla crisi del sistema capitalista non significano solo concorrenza, sanzioni, guerre, conflitti diplomatici, ma spingono anche a un profondo cambiamento nella coscienza dei lavoratori e nel conflitto di classe. Il risveglio di una nuova e dura lotta di classe in Europa sarà conseguenza inevitabile di queste politiche e investirà in pieno anche l’Unione Europea capitalista.

 

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