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Lotte operaie e Resistenza, fra guerra e rivoluzione

Ripubblichiamo questo articolo del 2005 sulle lotte operaie durante la Resistenza, che fa parte dell’opuscolo “La Resistenza, una rivoluzione mancata“, disponibile nella nostra libreria on line.

 

di Gabriele Donato

La scelta del regime fascista di portare l’Italia in guerra rappresentò il coronamento di una politica consolidatasi nell’intero corso degli anni ’30. Il tentativo di superare, attraverso un deciso rilancio dell’interventismo statale, la grave crisi economica che aveva caratterizzato l’inizio di quel decennio era stato condizionato dall’esigenza di potenziare l’industria pesante: il regime perseguiva lo scopo di attrezzare il paese a sostenere l’ennesima contesa militare fra le grandi potenze che si andava profilando come un passaggio inevitabile per una nuova spartizione di risorse e mercati a livello mondiale.

La scelta dell’autarchia aveva riflettuto l’intensificarsi delle tensioni nelle relazioni commerciali con gli altri paesi, aggravandole a propria volta, e la campagna militare in Africa orientale, scatenata nell’ottobre del 1935, aveva determinato una vera e propria rottura diplomatica con la Società delle Nazioni, la quale approvò una serie di sanzioni economiche contro l’Italia. Mussolini affrontò l’avventura militare rilanciando la propaganda sciovinista contro l’ostilità delle potenze straniere nei confronti delle ambizioni imperiali del fascismo: l’intera classe dominante si schierò con il regime, nella convinzione che il carattere aggressivo della politica estera avrebbe rianimato gli affari di un’economia che versava da tempo in condizioni di grave depressione.
La mobilitazione bellica dell’industria gonfiò la produzione e gli utili realizzati dai grandi gruppi: nelle realtà economicamente sviluppate del paese la disoccupazione venne, almeno in parte, arginata dall’esigenza delle industrie impegnate nella produzione bellica di assorbire rapidamente manodopera. Tuttavia la relativa diminuzione della disoccupazione fu concentrata geograficamente nell’area del cosiddetto triangolo industriale, le retribuzioni rimasero bassissime e incapaci di reggere il passo del costo della vita. “Il processo di concentrazione della mano d’opera nelle maggiori imprese si accentua negli anni successivi al 1937 quando le medie e piccole imprese di qualsiasi settore produttivo vedono accrescere le difficoltà ad ottenere le materie prime e uno sbocco ai loro prodotti (…) La presenza di disoccupati e sottoccupati nelle città svolge in questa fase la funzione di un ‘esercito industriale di riserva’ e contribuisce a comprimere i salari operai”. (1)

Non mancarono in quegli anni episodi che segnalarono la diffusione del malcontento: anche in occasione della campagna militare con la quale il regime supportò, a partire dall’estate del 1936, la ribellione franchista in Spagna, non furono pochi i lavoratori denunciati e arrestati per aver esplicitamente auspicato la disfatta del fascismo. Nei settori più politicizzati della classe operaia l’avversione alle avventure militari si tramutava nella convinzione che la fine del fascismo sarebbe stata provocata dai rovesci militari in cui inevitabilmente i progetti imperiali del regime si sarebbero risolti. E anche in occasione dell’intervento dell’Italia nella seconda guerra mondiale negli ambienti operai prevalse uno stato d’animo completamente estraneo all’entusiasmo che i fascisti con magniloquenza cercavano di diffondere.

Nell’Italia del 1940 gli operai impiegati nel settore industriale erano cinque milioni e mezzo (concentrati prevalentemente nel triangolo industriale Torino, Genova, Milano) e le loro condizioni di vita risultavano già gravemente deteriorate: i rincari del costo della vita continuavano a pesare gravemente sul lavoro dipendente, che da più di un decennio era costretto a subire le conseguenze della crisi permanente da cui l’economia non riusciva a risollevarsi: “Facendo il 1914 uguale a 100, l’indice dei salari reali (operai dell’industria) scende da 124 nel 1922 a 101 nel 1939 (con un’erosione di circa il 15-20 per cento) a 27 nel 1944; contemporaneamente gli stipendi reali (impiegati pubblici) passano da 93 nel 1922 a 96 nel 1936, per scendere a 10 nel 1944. La caduta del livello degli stipendi, più grave di quella dei salari operai, deve essere tuttavia valutata non dimenticando che il livello di partenza di questi ultimi era enormemente più basso.” (2)

Il secondo semestre del 1940 risultò già costellato da una serie di piccoli segnali di avversione nei confronti di una guerra che iniziava ad essere considerata, quanto meno dai settori operai di convinzione antifascista, l’occasione per una resa dei conti con il regime: si trattava di scritte murali, di manifestini critici o semplicemente di polemiche verbali che segnalavano, con il loro contenuto disfattista, la moltiplicazione spontanea dei motivi del dissenso nei confronti della condotta del regime. Esso venne alimentato successivamente dalle notizie che, a partire dall’ottobre, iniziarono ad arrivare in Italia, relative al cattivo andamento delle operazioni militari condotte in Grecia e in Albania.

Malcontento popolare e prime proteste

Nel corso dei mesi successivi, nonostante gli avanzamenti militari della coalizione dei paesi fascisti, il continuo deterioramento delle condizioni del fronte interno in Italia preoccupava il regime, che cercava, attraverso un inasprimento delle misure repressive, di contenere i numerosi episodi di turbamento dell’ordine pubblico: si trattava in prevalenza di episodi di protesta molto circostanziati (solitamente scritte murali), i quali tuttavia venivano correttamente interpretati dalle relazioni delle forze dell’ordine come segnali di un malessere crescente che continuava a diffondersi fra i ceti popolari. Nel corso della seconda parte del 1942 il grave disagio economico in cui versava il paese venne aggravato dall’inizio dei bombardamenti sulle grandi città, che peggiorarono ulteriormente le condizioni di vita delle masse, già deteriorate dalle riduzioni dei razionamenti e dai clamorosi aumenti dei prezzi che si registravano presso la “borsa nera”: “Nel secondo semestre del 1942 la grande maggioranza della popolazione era costretta ad alimentarsi con razioni base fra le più basse in Europa ed assolutamente insufficienti (…) Queste razioni non rappresentavano neppure la metà di ciò che è necessario ad ogni persona per la propria normale riproduzione e per il proprio regolare sviluppo fisiologici”. (3) I bombardamenti, inoltre, creavano le condizioni per un aumento dell’ostilità popolare nei confronti di un regime che stava dimostrando la propria totale incapacità di gestire gli sfollamenti: la retorica efficientista del fascismo si scontrava infatti con il caos provocato sistematicamente dalle incursioni aeree, contro i cui effetti il regime non era affatto in grado di organizzare contromisure adeguate.

L’inverno del 1942, infatti, si caratterizzò per la drammaticità con cui si pose il problema degli alloggi bombardati, che costringeva tante famiglie già oberate dalle difficoltà economiche a fare i conti con il problema del freddo; esso si sommava a quello della fame, creando una situazione di tensione sociale che la minaccia permanente dei bombardamenti di certo non allentava. La popolarità del regime si stava clamorosamente ridimensionando e, soprattutto negli ambienti operai, la propaganda “sovversiva” iniziava a fare breccia, anche in considerazione delle notizie che iniziavano ad arrivare dal fronte russo: al disagio, infatti, provocato dalla miseria si aggiungeva quello provocato dall’incertezza relativa alla sorte di tanti soldati costretti ad una ritirata di cui s’iniziava ad intuire il carattere drammatico. La guerra era ormai percepita come un’avventura disastrosa che non avrebbe potuto non provocare una crisi generale del regime: tale crisi veniva temuta dagli industriali, i quali iniziavano a nutrire numerosi elementi di preoccupazione per le conseguenze politiche che essa avrebbe provocato, visti i segnali di fermento che si percepivano nelle fabbriche dei principali centri industriali del paese (Torino, Milano e Genova in particolare).

Gli scioperi della primavera del 1943

Ed in effetti fu a partire dall’agosto del 1942 che una serie di scioperi nelle fabbriche torinesi evidenziò una disponibilità nuova, da parte di settori ancora minoritari della classe operaia, a scendere sul terreno dell’agitazione: si trattò per lo più di brevi fermate del lavoro provocate da singoli provvedimenti particolarmente odiosi, per polemizzare contro i quali gli scioperanti decisero di sfidare la disciplina di stabilimento e le denunce alle autorità di polizia; secondo il dirigente comunista Massola “nei sei mesi che precedettero i grandi scioperi del 1943 una avanguardia dei lavoratori italiani fece una buona esperienza in numerose lotte parziali. Più specificatamente (…) 20 agitazioni-sciopero avvennero per reclamare migliori condizioni di lavoro e di salario; 6 per una più abbondante e migliore alimentazione; 14 per protestare contro la guerra e manifestare contro il partito fascista.” (4) I comunisti si diedero da fare per cercare di creare le condizioni in base alle quali le agitazioni potessero esprimere il disagio operaio in forma coordinata e organizzata: Umberto Massola e Amerigo Clocchiatti in particolare cercarono di raccordarsi agli organizzatori presenti nelle fabbriche per tentare di agevolare la definizione di un piano unitario d’azione. Lo scopo doveva essere quello di mobilitare l’intera classe operaia torinese a supporto di una piattaforma che contenesse le richieste di un aumento dell’indennità di carovita, di un’assistenza adeguata agli sfollati e del pagamento a tutti gli operai della mensilità straordinaria, corrispondente a 192 ore di salario, prevista dal Ministro delle Corporazioni solo per gli sfollati.

Il 5 marzo gli operai dell’officina 19 alla Fiat Mirafiori diedero il via all’agitazione, scioperando a partire dalle 10 di mattina nonostante l’intenzione della direzione aziendale di far saltare il piano agli organizzatori, fra cui c’era l’attivista comunista Leo Lanfranco. Gli operai rifiutarono i primi tentativi di conciliazione dei rappresentanti della proprietà e i dipendenti di altri stabilimenti decisero, nel corso della stessa giornata, di scendere in lotta: lo sciopero dilagò alla Fiat Grandi Motori, alla Westinghouse, alla Savigliano, alla Fiat Lingotto e nei giorni successivi l’agitazione si allargò a macchia d’olio, disorientando il padronato, le autorità pubbliche e le forze dell’ordine. Verso la metà del mese, quando iniziarono a moltiplicarsi gli arresti degli scioperanti coinvolti dalla protesta, all’agitazione avevano partecipato complessivamente circa 100mila lavoratori: la protesta si era allargata alla provincia e le autorità fasciste, in accordo con le direzioni aziendali, avevano iniziato a ridimensionare l’intransigenza iniziale. Il 18 marzo fu la direzione della Fiat a prendere l’iniziativa e a promettere un anticipo di 300 lire in cambio della ripresa del lavoro, dopo che la protesta aveva iniziato ad acquisire una caratterizzazione più chiaramente politica, con l’inserimento tra le richieste degli scioperanti del diritto di eleggere rappresentanze effettivamente operaie e della liberazione dei compagni arrestati nel corso della mobilitazione. Dopo aver strappato alcune concessioni, gli operai torinesi decisero gradualmente di far rientrare la protesta, ma non fecero a tempo a rimettersi tutti al lavoro che la mobilitazione si allargò a Milano con caratteristiche molto simili.

Anche presso il capoluogo lombardo i comunisti si erano dati da fare per creare le condizioni per un avvio non improvvisato dello sciopero: i materiali di propaganda che riuscirono a diffondere denunciavano i problemi delle maestranze e proponevano l’azione dei torinesi come l’esempio da seguire. Il 23 marzo scesero in sciopero gli operai della Pirelli, della Falck, della Borletti e della Ercole Marelli, aprendo un’agitazione che nei giorni successivi coinvolse numerosi altri stabilimenti; le autorità locali fecero schierare immediatamente le forze dell’ordine, che tuttavia non riuscirono ad intimidire gli scioperanti: nel corso della lotta si cantava “Bandiera rossa” e si inneggiava alla pace e alla libertà. In una nota indirizzata a Mussolini, il fascista Farinacci si espresse in termini estremamente preoccupati: “Se ti dicono che il movimento ha assunto un aspetto esclusivamente economico ti dicono una menzogna…” (5)

Dopo che lo sciopero a Milano aveva coinvolto una massa di lavoratori non inferiore a quella di Torino e dopo che si era esteso ad altri centri del settentrione come Biella e Marghera, il governo si trovò costretto a cedere sul terreno delle richieste economiche: proclamò pertanto l’intenzione di riconoscere ad operai e impiegati il diritto alla corresponsione di un’indennità di carovita. L’affermazione degli scioperanti evidenziava la crisi di consenso del regime.

I sindacati fascisti nelle fabbriche coinvolte dalla lotta avevano verificato la fragilità estrema della loro influenza, tanto che i loro aderenti non si erano affatto astenuti dagli scioperi; la popolazione delle città protagoniste della mobilitazione aveva manifestato in varie occasioni la propria solidarietà con gli scioperanti: ad Abbiategrasso, per esempio, la popolazione del quartiere che ospitava un cotonificio raggiunse le operaie in sciopero per proteggerle dalle minacce di un gerarca e dei suoi camerati: “I cittadini del quartiere Fornacino si radunavano intorno alla fabbrica e cominciavano a lanciare delle invettive contro i fascisti. A questo punto i gerarchi fascisti si allontanarono con le loro auto. La loro fuga fu accompagnata dal lancio di sassi e di grida vogliamo la pace.” (6) Gli strumenti tradizionali della repressione erano stati molto meno efficaci che in passato, e in generale avevano provocato un inasprimento del carattere conflittuale della protesta. Erano di fatto saltati i dispositivi che il fascismo a lungo aveva utilizzato per comprimere l’iniziativa autonoma delle masse: la classe operaia del Nord aveva dimostrato di essere, dopo un periodo prolungato di silenzio imposto, di nuovo in grado di prendere l’iniziativa. Contemporaneamente il Pci, nonostante una presenza non ancora capillare dei suoi militanti, aveva dimostrato di essere l’unica forza politica in grado di sfidare apertamente il regime e di mobilitarsi per supportare la partecipazione operaia all’agitazione.

La crisi del regime

La classe dominante iniziò a temere per la stabilità dell’ordine politico e sociale del paese, e mise in discussione lo stretto legame che la vincolava al regime, considerato pericolante e non più affidabile. Gli industriali, i diplomatici, i vertici dell’esercito aprirono un confronto con i settori critici della gerarchia del regime precisamente con lo scopo di verificare la praticabilità di una via d’uscita dalla crisi che scongiurasse il pericolo rivoluzionario. Le prospettive che tale processo avrebbe potuto aprire venivano temute non solo dagli ambienti tradizionalmente conservatori, ma anche dall’antifascismo: il Pci aveva avuto modo di rendersi conto, nel corso degli scioperi del marzo, che per settori non marginali della classe operaia la lotta intrapresa avrebbe dovuto assumere in tempi rapidi un chiaro significato anticapitalista. Il richiamo diffuso alla resistenza vittoriosa e all’avanzata dell’esercito sovietico esprimeva l’ambizione, nutrita dai settori più agguerriti del proletariato italiano, di approfittare della crisi del regime per sconfiggere l’intera classe dominante complice del fascismo e per instaurare il socialismo. Il Pci riorganizzò la propria struttura anche con lo scopo di rafforzare un centro dirigente in grado di ridimensionare, con le proprie indicazioni operative, la portata di quel genere di posizioni: venne consolidata la rete illegale dei funzionari attivi nel paese e venne definita la composizione della direzione insediata a Milano (i compiti fondamentali vennero affidati a Massola, Novella, Roasio e Roveda).

L’obiettivo politico prioritario indicato dal Pci era quello di giungere in tempi rapidi alla costituzione di un fronte nazionale: esso avrebbe dovuto dirigere unitariamente la mobilitazione generale con la quale sarebbe stato possibile sconfiggere il fascismo e far uscire l’Italia dalla guerra. L’iniziativa, a parere dei comunisti, non doveva essere lasciata alle forze conservatrici intenzionate ad affrontare la crisi in accordo con la monarchia: essa, tuttavia, non avrebbe nemmeno, secondo le loro intenzioni, dovuto assumere un carattere classista. La mobilitazione operaia avrebbe dovuto accompagnare e non sostituire la soluzione “dall’alto” delle contraddizioni in cui si dibatteva il regime: gli scioperi dovevano essere organizzati con lo scopo di esercitare le pressioni necessarie per dare un carattere democratico, e non conservatore, all’esito degli accordi che avrebbero dovuto mettere Mussolini fuori gioco.

Nei mesi successivi all’agitazione del marzo, tuttavia, i comunisti non furono in grado di organizzare astensioni dal lavoro altrettanto significative: la dinamica della lotta di classe non poteva corrispondere meccanicamente alle esigenze di mobilitazione che il Pci formulava in relazione ai vari passaggi con cui procedeva la trattativa con le altre forze interessate a sbarazzarsi del fascismo. Tanto più che mentre il partito cercava affannosamente un’intesa con gli ambienti monarchici e con i vertici dell’esercito per favorire la prospettiva di un esito concordato della crisi del regime, i fascisti non indebolivano di certo la caccia agli oppositori: più di 3mila furono le persone arrestate dal marzo al giugno, e una parte importante di questi erano operai impegnati negli scioperi di primavera. Quando lo sbarco alleato in Sicilia, il 10 luglio, rese evidente l’imminenza del crollo del regime, i tentennamenti dell’antifascismo consentirono a Vittorio Emanuele III di conservare il controllo della situazione: egli si accordò con il maresciallo Badoglio e con i gerarchi dissidenti, escludendo dalla gestione della crisi i partiti dell’opposizione. La componente borghese moderata dell’antifascismo, d’altra parte, decise di non ostacolare la manovra della monarchia: i comunisti, pertanto, che fino all’ultimo avevano cercato di evitare che l’antifascismo venisse escluso dalla definizione degli accordi per la cacciata di Mussolini, rimasero all’angolo, isolati e indeboliti da un diplomatismo che li aveva costretti di fatto all’impotenza.

Il partito rimase bloccato nell’attesa di riuscire ad elaborare un piano d’azione con le altre forze di opposizione, le quali tuttavia non intendevano contribuire alla promozione della mobilitazione popolare: le organizzazioni antifasciste subirono, pertanto, il colpo di stato che venne attuato nella notte fra il 24 e il 25 luglio; dopo aver fatto arrestare Mussolini, il re conferì a Badoglio il compito di formare un nuovo governo: il potere passò a tutti gli effetti nelle mani dei vertici dell’esercito, che si preoccuparono innanzitutto di evitare qualsiasi turbamento dell’ordine pubblico. Il Capo di Stato Maggiore Roatta, con una serie di circolari repressive dal tono durissimo, chiarì immediatamente il significato reazionario della manovra messa in atto dalla monarchia, il cui obiettivo era quello di sostituire il fascismo con una dittatura militare in grado di sottrarre il paese al rischio di un’esplosione rivoluzionaria.

La dittatura militare

La mobilitazione popolare che accolse la notizia dell’arresto del duce fece scattare durissimi dispositivi repressivi. Solo nel corso delle manifestazioni che riempirono le città il 26 luglio l’intervento della forza pubblica, coadiuvata dall’esercito, provocò undici morti, un’ottantina di feriti e quasi cinquecento arresti.

Nelle principali città del Nord il tono prevalente delle mobilitazioni che presero corpo spontaneamente fu decisamente antifascista: lavoratori, giovani e donne chiarirono, riempiendo le piazze, la propria volontà di farla finita con la guerra e con il regime che l’aveva voluta. Quei giorni riecheggiano in questa riflessione contemporanea del rivoluzionario britannico Ted Grant: “La caduta di Mussolini agì come una scossa elettrica sui lavoratori italiani. Quando la notizia venne trasmessa dalla radio, spinti da un impulso comune, in centinaia di migliaia scesero nelle strade, nonostante l’oscuramento, per esprimere il proprio senso di sollievo e di gioia (…) Scioperi di massa esplosero in tutte le città industriali, Milano, Torino, Genova etc., nel giro di 24 ore. Le linee ferroviarie furono paralizzate in tutto il Nord Italia nel corso di pochi giorni. Le prigioni vennero prese d’assalto dai lavoratori e i prigionieri politici vennero liberati (…) Nelle grandi città le sedi fasciste furono saccheggiate e a Milano e in altre zone i lavoratori s’impadronirono delle tipografie fasciste. Chiunque portasse addosso insegne fasciste in Italia nel giorno successivo alla scomparsa di Mussolini correva il pericolo di essere linciato. Il decreto tardivo che scioglieva il partito fascista prendeva semplicemente atto di ciò che i lavoratori e i soldati stessi avevano già deciso irrevocabilmente.” (7) La classe operaia fu in testa alle mobilitazioni da Genova a Torino, da Livorno ad Ancona: la determinazione dei lavoratori in agitazione convinse Badoglio della necessità d’introdurre nel paese lo stato d’assedio e di vietare gli scioperi, contestualmente alla decisione di rendere pubblica l’intenzione di continuare la guerra.

Le disposizioni furono durissime: nonostante i dirigenti comunisti stessero spiegando nei comizi l’intenzione del partito di lavorare ad una soluzione delle difficoltà attraversate dal paese concordata con le altre forze politiche, i dispacci del governo parlavano chiaro: “È necessario agire massima energia perché attuale agitazione non degeneri in movimento comunista o sovversivo. Occorre far rispettare tutti costi ordinanze autorità militari che vietano assembramenti (…) anche se si debba ricorrere uso armi.” (8) Mentre il governo procedeva all’approvazione di tutta una serie di norme finalizzate a costringere al silenzio le opposizioni antifasciste, i comunisti invitavano le masse ad accettare la guida del fronte nazionale che stavano cercando di costituire, oltre che con i socialisti e con gli azionisti, anche con i democristiani e i liberali: questi ultimi, tuttavia, esplicitarono la propria fiducia in Badoglio e rifiutarono di rivendicare la costituzione di un governo democratico e la richiesta dell’armistizio. La volontà di raggiungere l’intesa con l’antifascismo borghese convinse i dirigenti del Pci dell’opportunità di ridimensionare persino la richiesta di una pace immediata, richiesta che entrava oggettivamente in rotta di collisione con le posizioni di Badoglio.

Quest’ultimo si stava intanto preoccupando prioritariamente dell’esigenza di stroncare le manifestazioni operaie che stavano ponendo concretamente il problema dei rapporti di forza nelle fabbriche. Gli operai pretendevano di epurare i propri luoghi di lavoro da una gerarchia di sorveglianti e capireparto composta principalmente da fascisti; le maestranze rivendicavano poi la possibilità di eleggere democraticamente rappresentanze di stabilimento attraverso le quali proporre le proprie rivendicazioni e ricostruire le organizzazioni sindacali. Per sostenere le proprie richieste, la classe operaia dei principali centri del Nord proseguì gli scioperi iniziati il 26 luglio, scontrandosi per alcuni giorni con le forze dell’ordine ed imponendo la ricostituzione delle commissioni interne: nei rapporti delle autorità locali emergeva il timore, evidentemente fondato, che gli operai intendessero ricostruire strutture consiliari di rappresentanza del tutto simili a quelle protagoniste, più di vent’anni prima, del “biennio rosso”.

Anche gli Alleati, informati dai ministri italiani del periodo turbolento aperto dal crollo del fascismo, si stavano preoccupando per le prospettive che la crisi stava aprendo; Churchill si espresse nella forma più esplicita: “L’Italia è diventata rossa da un momento all’altro. A Torino e Milano dimostrazioni comuniste hanno dovuto essere soffocate dalle forze di polizia. Vent’anni di fascismo hanno cancellato la classe media. Non è rimasto nulla tra il re e i patrioti che si sono schierati attorno a lui e che hanno il completo controllo della situazione e il bolscevismo rampante.” (9) Non era questa la valutazione dei dirigenti comunisti: essi si stavano preoccupando di ridimensionare il carattere radicale delle lotte operaie per evitare tensioni con le forze dell’antifascismo moderato. Il loro scopo era di schierare il partito in una coalizione unitaria nella quale le aspirazioni del proletariato sarebbero state sacrificate alle esigenze dell’intesa con i ceti borghesi, in nome della coesione patriottica. Il Pci decise pertanto di non impegnarsi per il rovesciamento della dittatura militare di Badoglio, nell’illusione di poter evitare un eventuale intervento tedesco a sostegno del maresciallo in difficoltà: l’esercito nazista, tuttavia, stava già predisponendo la collocazione delle proprie truppe nella penisola, mentre il governo italiano, pur di reprimere le lotte operaie e le agitazioni popolari, sottrasse numerose divisioni ai compiti della difesa nazionale, considerata evidentemente in subordine rispetto alle esigenze della repressione anticomunista (i militanti comunisti imprigionati, d’altra parte, non avevano potuto contare in quei giorni, assieme agli anarchici, sui provvedimenti di scarcerazione).

Nelle settimane successive, mentre i bombardamenti degli Alleati s’intensificavano, il governo Badoglio si barcamenava disperatamente fra tedeschi e alleati, con la prima conseguenza che nulla fu fatto per allestire un adeguato piano di difesa da opporre all’imminente invasione nazista. Con questo governo il Pci decise di non rompere: accettò, al contrario, assieme agli altri partiti antifascisti, di collaborare sul terreno sindacale. Quando infatti all’inizio di agosto Badoglio decise di sciogliere le vecchie corporazioni e di rimettere in piedi le organizzazioni sindacali, propose un accordo alle forze dell’antifascismo: lo scopo era quello di procedere dall’alto alla ricostruzione di strutture nelle quali disciplinare le masse operaie in movimento. Per perseguire questo obiettivo Badoglio aveva bisogno di poter contare sulla disponibilità di personalità autorevoli, da coinvolgere in funzione dell’esigenza di moderare l’orientamento radicale che dilagava fra le masse operaie. Oltre ai democristiani e ai liberali, anche i comunisti, i socialisti e gli azionisti decisero di accettare le nomine proposte: Giovanni Roveda divenne, per conto del Pci, vicecommissario delle confederazioni che Badoglio intendeva mettere in piedi.

In una fase in cui si stava preparando una grande ondata di scioperi contro il governo, il Pci decise di compromettersi in una manovra ambigua, finalizzata a disinnescare le lotte popolari, non certo a promuovere un nuovo sindacalismo libero. Pur di farsi riconoscere come un interlocutore legittimo dal governo, il Pci, nonostante le polemiche interne, accettò la manovra utilizzata da Badoglio per normalizzare una conflittualità sociale sempre più estesa. Questa scelta generò malumori anche negli ambienti operai, presso i quali s’iniziò a criticare l’atteggiamento “collaborazionista” del Pci: il patriottico “senso di responsabilità” dei dirigenti comunisti, infatti, faceva fatica ad essere compreso da un massa operaia ancora non completamente inquadrata dalle organizzazioni del partito.

In cambio della collaborazione il Pci aveva ottenuto la promessa della scarcerazione dei prigionieri comunisti, impegno che tuttavia Badoglio disattese di fatto fino alla seconda metà di agosto, quando a Milano e a Torino gli operai ripresero a scioperare. Le fermate del lavoro iniziarono il 17 agosto, e furono provocate dall’esasperazione per la continuazione di una guerra che non smetteva di provocare devastazioni nelle grandi città, costrette a subire bombardamenti durissimi. La protesta contro la guerra si associava a quella contro i salari da fame, contro il mancato allontanamento dei fascisti dalle fabbriche, contro l’indisponibilità a liberare tutti i prigionieri politici: per queste ragioni, fra il 17 e il 20 agosto, scioperarono gli operai della Pirelli a Milano, della Breda a Sesto S. Giovanni, della Fiat Grandi Motori a Torino, per citare solo i casi più significativi. Assieme a loro scesero in agitazione anche i lavoratori di altre regioni, dalla Liguria all’Emilia, dalla Toscana all’Umbria.

Il vertice comunista rinunciava tuttavia ad orientare le lotte che esplodevano nella direzione dello scontro aperto con il governo: mancarono direttive in grado di coordinare l’agitazione e di favorirne l’estensione, in quanto lo scopo delle opposizioni non era quello di sconfiggere Badoglio, ma di condizionarlo. Ciò nonostante le manifestazioni non si fermarono, ed anzi si allargarono a zone nelle quali l’antifascismo era molto meno organizzato: agli inizi di settembre, a seguito di una nuova ondata di incursioni aeree e dell’esasperazione provocata dalla mancanza dei generi alimentari, esplose la rabbia delle masse in Campania e si formarono cortei di protesta a Torre Annunziata, a Portici, a Castellamare di Stabia, con gli operai dei principali stabilimenti della regione in testa alle mobilitazioni. Nonostante le condizioni di arretratezza economica che caratterizzavano il Meridione, l’opposizione politica al nazifascismo fu tutt’altro che arretrata: si caratterizzò, al contrario, per la radicalità con la quale le classi subalterne reagirono all’invasione tedesca e alle conseguenze sociali dell’occupazione. Nella Campania era concentrata tanta parte del proletariato industriale del Meridione, e proprio in Campania ci furono manifestazioni popolari che con grande determinazione chiesero la fine della guerra.

8 settembre: il paese nel caos

Alle proteste popolari il governo continuò a rispondere con la violenza repressiva, che provocò fra la fine di luglio e l’inizio di settembre un centinaio di morti e più di cinquecento feriti: si trattò del bilancio tragico di una dittatura militare che aveva fatto presidiare più volte i cancelli delle fabbriche con l’artiglieria, che aveva sistematicamente negato i più elementari diritti democratici e che all’inizio di settembre, con le truppe germaniche ormai presenti massicciamente nella penisola, si ostinava a considerare l’intenzione dei comunisti di costituire squadre armate contro l’occupazione tedesca il principale pericolo da evitare. In realtà l’impegno principale del Pci e del resto dell’antifascismo, ancora nei giorni immediatamente precedenti all’armistizio, rimase quello di cercare di persuadere i vertici dell’esercito ad assumersi il compito di formare una Guardia nazionale da schierare contro le truppe con le quali Hitler stava occupando l’Italia: nelle grandi città furono numerosi gli operai che dichiararono la propria disponibilità a farsi arruolare nella Guardia nazionale che soprattutto i comunisti volevano si costituisse, ma i vertici dell’esercito non solo rifiutarono ogni collaborazione, nel timore di una saldatura rivoluzionaria fra truppe dell’esercito e classe operaia, ma dichiararono ai tedeschi la propria disponibilità a non reagire di fronte all’invasione in cambio di una condotta benevola nei confronti delle truppe italiane.

Governo e generali, pertanto, rifiutarono d’impegnarsi seriamente per la difesa del paese: prevaleva la preoccupazione che i comunisti potessero approfittare delle armi che avrebbero avuto a disposizione i lavoratori intenzionati a farsi inquadrare militarmente. Quando pertanto Badoglio annunciò l’armistizio, l’8 settembre, l’esercito si dimostrò completamente incapace di orientarsi nella nuova situazione: lo sbandamento fu generale e i generali non furono in grado di approntare alcun piano di resistenza in grado di sbarrare la strada alle truppe tedesche. Rifiutarono, persino nelle ore immediatamente successive alla proclamazione dell’armistizio, di consegnare armi agli operai che nelle grandi città si erano radunati aspettando un ordine di mobilitazione: si trattò di un’attesa inutile, motivata dalla convinzione, diffusa dai dirigenti comunisti, che ci fossero ancora i margini per trovare un accordo con l’esercito.

A Milano erano state le commissioni interne di alcune grandi fabbriche ad avviare la ricerca di armi con le quali reagire al disorientamento provocato dalla resa dell’esercito; a Torino furono migliaia i lavoratori che si radunarono nei dintorni della Camera del Lavoro per ricevere armi e ordini operativi chiari che non arrivarono; a Genova contro i tedeschi si eressero barricate, mentre nelle officine si radunarono le armi raccolte e si organizzò il sabotaggio della produzione bellica; a Monfalcone centinaia di operai dei cantieri si fecero inquadrare nelle brigate partigiane slovene per combattere a difesa di Gorizia. I battaglioni che costituirono la “Brigata proletaria” impegnarono i tedeschi in scontri a fuoco che durarono alcuni giorni, gli stessi durante i quali a Piombino gli operai siderurgici costrinsero le truppe italiane ad opporre resistenza ai tedeschi, che riuscirono ad occupare la città solo il 12 settembre. Nel complesso del paese, tuttavia, la mobilitazione, priva di una effettiva direzione, non poté arginare seriamente l’avanzata tedesca: d’altra parte, i Comitati di Liberazione Nazionale che si formarono in quei giorni non furono in grado di organizzare la lotta armata su vasta scala, per via del timore, presente nelle loro componenti moderate, relativo alla possibile reazione tedesca che tale tentativo avrebbe provocato.

In tutte le grandi città del paese la delusione generata dai tentennamenti dell’antifascismo alimentava la proliferazione di dissidenze, interne ed esterne ai partiti dei Cln, che mettevano in discussione la tenuta unitaria degli organismi di opposizione. A Napoli, per esempio, i funzionari del Pci fecero molta fatica a non perdere il controllo su una Federazione che in più occasioni aveva fatto emergere il proprio dissenso nei confronti della politica di unità nazionale. Tale dissenso, a Napoli come in altre città, si alimentava nel fuoco di mobilitazioni di cui il partito non riusciva a contenere il carattere radicale. Nel caso del capoluogo campano, l’insurrezione che aveva cacciato i tedeschi dalla città alla fine di settembre aveva visto gli operai alla testa delle barricate erette nei quartieri: si era formato un Fronte unico rivoluzionario, mentre il Cln non si era ancora costituito. La combattiva classe operaia napoletana diede un sostegno importante ai dissidenti della Federazione comunista, i quali erano riusciti a ricostruire la Cgl sulla base di un classismo intransigente: a novembre era stato costituito il Segretariato Meridionale, che coordinava le Camere del Lavoro di varie province (innanzitutto quelle di Napoli, Potenza, Salerno, e Foggia). La nuova Cgl, guidata dal comunista di sinistra Enrico Russo, incrementò rapidamente il numero dei propri iscritti; tale influenza preoccupò la direzione locale del Pci, che con un atto d’autorità costrinse di fatto i dissidenti a scindersi dalla federazione. (10)

A Torino, a Milano, a Roma e altrove il fermento politico a sinistra complicava l’affermazione della politica di unità nazionale indicata dai comunisti (e ribadita da Togliatti nei mesi successivi fino alla “svolta” di Salerno anche a costo di un parziale conflitto con dirigenti come Scoccimarro, i quali essendo più a diretto contatto con la mobilitazione, esprimevano la loro opposizione al governo del Sud e proponevano il governo dei Cln). Tale fermento, in particolare nei centri industriali del Nord, si mescolava all’esasperazione che dilagava in seno ad una classe operaia costretta a sopravvivere in condizioni sempre più drammatiche: “Mentre i salari restano fermi, il costo della vita aumenta: a Torino, stando ai dati elaborati dall’Ufficio di statistica del comune, negli ultimi mesi del 1943 l’indice del costo della vita registra un rapido balzo in avanti passando da 135,42 (1941=100) nel gennaio 1943 (dopo oscillazioni intorno a questo valore durante l’estate) a 167,73 nel settembre e 183,35 in ottobre e 198,73 in novembre, per toccare 221,04 in dicembre. In particolare è il capitolo alimentazione che concorre in modo determinante all’aumento dell’indice generale (…) In dicembre l’indice di spesa è tre volte superiore a quello del 1941.” (11)

I gruppi, pertanto, che contestavano l’alleanza del Pci con i partiti della borghesia nel nome dell’intransigenza classista (Stella Rossa a Torino e Il Lavoratore a Legnano, per esempio), godevano di sostegni significativi fra i lavoratori dei centri presso i quali erano radicati: nel caso di Torino, gli aderenti al gruppo che pubblicava Stella Rossadurante l’inverno del 1943, raggiungono il numero di circa ottocento, per diventare duemila nel giugno 1944. Stella Rossa riesce a radicarsi molto bene all’interno della Fiat dove, secondo una testimonianza inoppugnabile di Pietro Secchia, conta ben 500 militanti.” (12) Si trattava di lavoratori che non intendevano slegare la battaglia contro la guerra da quella contro il capitalismo e che pertanto facevano fatica ad accettare le implicazioni moderate della politica di unità nazionale: secondo i rapporti dei dirigenti comunisti locali, presso questi lavoratori ostinata era pertanto la diffidenza nei confronti della politica dei Cln, all’interno dei quali la borghesia era spesso riuscita a collocare alcuni dei propri esponenti, con l’obiettivo di evitare il deterioramento dei rapporti con l’antifascismo. Per utilizzare le parole dell’importante saggio sulla Resistenza di Pavone, “gli industriali, sicuri nel fondo della continuità della loro funzione, potevano, ancorché spaventati, permettersi di stare al di sopra delle parti, in attesa di ritrovarsi dalla parte del vincitore. Nel frattempo, sapevano accumulare benemerenze resistenziali e insieme mantenere buoni rapporti, specie di affari, con i detentori del potere, soprattutto di quello reale, cioè con i tedeschi.” (13)

Le lotte dell’autunno del 1943

Contro l’indisponibilità padronale a mettere in discussione profitti e privilegi non poteva non generarsi un esteso risentimento operaio, alimentato d’altra parte dall’obbligo di continuare a lavorare per le esigenze dell’apparato bellico tedesco, che ai propri piani aveva subordinato tutta l’attività industriale della Repubblica di Salò. Si trattava di un risentimento aggravato dal costante aumento del costo della vita, dal bassissimo livello dei salari, dal pessimo funzionamento del razionamento, dalla ripresa massiccia dei bombardamenti e dalla distruzione conseguente di tanta parte degli alloggi popolari. D’altra parte l’industria aveva subito la crisi provocata dalla gestione dissennata delle trattative per l’armistizio: nelle settimane precedenti e in quelle immediatamente successive si erano moltiplicati i problemi di reperimento dei rifornimenti e dei finanziamenti necessari a far funzionare gli stabilimenti. Il ripristino delle condizioni fondamentali per consentire una ripresa stabile delle attività produttive avvenne nel contesto dell’occupazione tedesca: l’apparato industriale settentrionale riprese a funzionare secondo i criteri imposti dal Reich per lo sfruttamento dei territori occupati, e ciò creò le condizioni per lo sviluppo delle sollevazioni operaie.

Furono infatti perlopiù i grandi stabilimenti quelli rimessi nelle condizioni di funzionare: l’esigenza dei tedeschi di poter contare, in particolare nell’industria pesante, su alti livelli produttivi, consentì agli operai impiegati di verificare che l’aumentato bisogno di lavoro poteva tramutarsi in forza contrattuale. Si trattava soprattutto di un bisogno di lavoro qualificato: esso tuttavia scarseggiava in un mercato del lavoro caratterizzato tradizionalmente solo da un’ampia disponibilità di manodopera generica proveniente dalle campagne. I militanti comunisti percepirono il clima di tensione diffuso nelle fabbriche e cercarono di mettere in piedi una rete di comitati clandestini di agitazione: essi dovevano di fatto sostituire le commissioni interne di cui la Repubblica sociale aveva riconosciuto ufficialmente l’esistenza ma che il Pci, proprio per questo riconoscimento, aveva deciso di boicottare. Attraverso i comitati di agitazione i comunisti puntavano ad indirizzare contro gli occupanti tutta la rabbia che si stava accumulando fra gli operai: lo scopo era quello di utilizzare l’influenza esercitata nelle fabbriche più importanti per schierare il proletariato al centro della mobilitazione nazionale contro i tedeschi. Le cellule comuniste avrebbero dovuto ispirare l’azione dei comitati, mettendoli nelle condizioni di dirigere le mobilitazioni operaie, ma sempre rigorosamente nel quadro delle compatibilità dettate dalla politica di unità nazionale.

Le tensioni esistenti nei luoghi di lavoro esplosero, tuttavia, nel corso di un’ondata di agitazioni che si sviluppò nel triangolo industriale a partire dalla metà di novembre e che oltrepassò le caute direttive d’azione dei quadri comunisti: “Gli scioperi, specialmente a novembre, ma quasi dovunque anche a dicembre, partono prima e indipendentemente dall’intervento propulsore e organizzatore della forza comunista, non in virtù soltanto di una deficienza organizzativa che sarà colmata nel corso della lotta, quanto per un’insufficiente compenetrazione politica.” (14) Detto in altre parole, gli operai si dimostravano diffidenti verso le implicazioni di un orientamento che subordinava la lotta nei luoghi di lavoro alla prospettiva della mobilitazione unitaria dell’intera nazione contro gli occupanti. Ancora una volta fu alla Fiat Mirafiori che iniziarono gli scioperi: si trattava di una fabbrica il cui il Pci era più debole che altrove e in cui particolarmente numerosa era la manodopera non specializzata che veniva impiegata alle condizioni salariali peggiori. L’officina 17 fermò il lavoro il 15 novembre per protestare contro la decisione aziendale di ritardare di parecchi giorni la corresponsione delle paghe di ottobre: lo sciopero dilagò in poche ore nello stabilimento e nel giro di pochi giorni tutte le fabbriche del gruppo Fiat entrarono in agitazione, con il coinvolgimento di circa 50mila lavoratori.

Non erano stati i comunisti a promuovere lo sciopero, esploso spontaneamente, ma rapidamente v’intervennero con l’intenzione di dare alla lotta un carattere prevalentemente antifascista: alla commissione che gli operai formarono per la gestione delle trattative si affiancò un comitato sindacale formato dai comunisti che insisteva per integrare le richieste con una denuncia esplicita dell’occupazione nazifascista. La commissione operaia decise tuttavia di affrontare la trattativa con i tedeschi, dopo che le concessioni della proprietà si erano dimostrate gravemente insufficienti: i comunisti criticarono questa scelta e proposero d’intensificare la mobilitazione, ma all’inizio di dicembre un proclama del generale delle SS Zimmermann, denso di promesse contornate da minacce, convinse gli scioperanti a tornare al lavoro.

La capacità che, tuttavia, gli operai avevano dimostrato di mettere le autorità d’occupazione di fronte all’esigenza di trattare (esigenza imposta pure dall’impossibilità, da parte tedesca, di affrontare una conflittualità che rischiava di generalizzarsi a tutto il triangolo industriale) avevano convinto anche il proletariato ligure e milanese della necessità di ricorrere allo sciopero; a Genova l’agitazione iniziò il 20 novembre, per estendersi nei giorni successivi ai centri vicini, mentre nel resto del Nord la classe operaia scese in agitazione fra dicembre e gennaio: ovunque venivano richiesti aumenti salariali, miglioramenti delle razioni alimentari, riconoscimenti d’indennità per contrastare il carovita, sospensioni dei licenziamenti. A metà dicembre i lavoratori coinvolti dalla lotta a Milano erano più di 150mila: la mobilitazione aveva coinvolto progressivamente tutte le fabbriche principali (Breda, Innocenti, Magnaghi, Pirelli, Caproni, Falck, Alfa Romeo, Borletti etc.) ed aveva preoccupato gli industriali, che erano stati costretti ad aprire ad alcune delle richieste; non tardarono tuttavia a ridimensionare la propria disponibilità, quando le autorità tedesche decisero di intervenire con la forza, schierando l’esercito fuori dagli stabilimenti; anche i fascisti cercarono d’intervenire per stroncare la lotta e per difendere i propri esponenti allontanati dagli stabilimenti nel corso degli scioperi.

Il Pci riuscì ad organizzare, a sostegno dell’agitazione, alcune azioni partigiane, ma la forza armata che i Gruppi di Azione Patriottica potevano mettere a disposizione non era sufficiente a reggere lo scontro con l’esercito tedesco. Il partito, pertanto, decise di far riprendere il lavoro agli scioperanti il 21 dicembre, dopo che in alcuni stabilimenti gli operai avevano già sospeso la protesta e dopo che i tedeschi ebbero riconosciuto il diritto ad alcuni miglioramenti: non tutte le fabbriche accettarono di buon grado la proposta di chiudere la vertenza e malumori si registrarono soprattutto nei settori più sfruttati del proletariato (manovali, giovani e donne), oltre che fra gli operai più politicizzati, “portatori più o meno convinti di una serie di resistenze e di dubbi sulla linea del partito.” (15) Le controversie generate dall’applicazione concreta degli accordi generarono anche nelle settimane successive motivi per nuove astensioni dal lavoro o per azioni di vero e proprio sabotaggio; quest’ultima forma di lotta fu praticata, per esempio, alla Franco Tosi di Legnano, fabbrica la cui produzione bellica era molto importante per i tedeschi e in cui decisiva era l’influenza esercitata dal gruppo di comunisti dissidenti che pubblicava il giornale Il Lavoratore.

Nel corso di questa agitazione il Pci aveva rivendicato, in considerazione del proprio radicamento nelle fabbriche, il diritto di dirigere la dinamica della mobilitazione: per questa ragione i suoi dirigenti avevano insistito sulla necessità di non lasciare alle commissioni operaie la gestione delle trattative; il ruolo fondamentale doveva essere affidato ai comitati d’agitazione controllati direttamente dal partito, anche se non in tutte le fabbriche i quadri comunisti si erano rivelati i più combattivi. Tanto dello slancio che aveva alimentato l’agitazione era stato infatti spontaneo, anche perché parecchi degli elementi più combattivi su cui il partito, nei mesi precedenti, aveva contato nei luoghi di lavoro, erano stati mandati in montagna. Arturo Colombi, dirigente comunista di Torino, aveva avuto modo di lamentarsi esplicitamente del depauperamento grave della presenza comunista nelle fabbriche del capoluogo piemontese: “Ci bombardate di incitamenti a dare tutto al lavoro militare ed oggi ci accorgiamo che avremmo dovuto darne un po’ meno poiché la possibilità di promuovere degli scioperi politici di massa e lo sciopero generale, ecc., dimostrano come la mobilitazione politica delle masse di un grande centro ha un’enorme importanza agli effetti della lotta generale.” (16)

Dall’ottobre del 1943, infatti, le direttive emanate dal partito avevano chiarito l’importanza prioritaria dell’afflusso in montagna, assieme ai migliori attivisti comunisti, degli operai più combattivi: il loro impegno era considerato fondamentale per il rafforzamento delle formazioni partigiane, e, nei casi in cui si manifestarono dissensi nei confronti della proposta di raggiungere le bande, il Pci non esitò a ricorrere a misure disciplinari contro i “renitenti”.

Sciopero generale nell’Italia occupata

Se i comunisti avevano considerato fondamentale l’impegno a partecipare agli scioperi e a cercare di dirigerli, le altre forze politiche del Cln erano rimaste estranee alla dinamica delle mobilitazioni: in alcune situazioni, addirittura, in accordo con le direzioni aziendali, avevano cercato di far rientrare gli scioperi, per il timore di uno sviluppo insurrezionale dell’agitazione. Questo atteggiamento di avversione allo sviluppo delle lotte operaie venne confermato anche nel gennaio del 1944: i partiti antifascisti temevano che i comunisti intendessero forzare gli equilibri politici dei Cln attraverso la promozione della mobilitazione popolare. In realtà il Pci, pur consapevole dei condizionamenti che gli industriali riuscivano ad esercitare sugli altri partiti, non smise di chiedere loro di riconoscere il ruolo dei comitati di agitazione e di collaborare alla promozione dello sciopero generale che, di lì a qualche settimana, avrebbe dovuto creare le condizioni per l’insurrezione nazionale alla quale i comunisti iniziavano a pensare concretamente. Anzi, i partiti moderati dei Cln venivano sollecitati a non rimanere estranei alle mobilitazioni operaie proprio con l’obiettivo di ottenere, grazie al loro ruolo, un’attitudine collaborativa da parte degli industriali: nel quadro dell’impegno generale per liberare il paese dagli occupanti, nei luoghi di lavoro il conflitto di classe avrebbe dovuto lasciare il posto alla collaborazione contro i rischi di smantellamento degli stabilimenti e di deportazione della manodopera, oltre che a forme di accordo per il rallentamento della produzione bellica. Secondo il Pci, il compito dei Cln doveva essere quello di persuadere gli industriali a favorire la collaborazione attraverso dimostrazioni di apertura nei confronti delle rivendicazioni operaie.

Tali rivendicazioni trovarono uno spazio nel materiale propagandistico con il quale, nel corso delle settimane di febbraio, i comunisti prepararono lo sciopero generale del marzo: il partito costituì un comitato segreto di agitazione interregionale con il compito di guidare la nuova mobilitazione e di orientarla più decisamente verso compiti di sostegno alla lotta di liberazione nazionale. Lo sciopero iniziò il 1° marzo: a Milano da subito si astennero dal lavoro 300mila lavoratori, a Torino 50mila. Non si trattò solo di operai dell’industria: a Milano in particolare aderirono all’agitazione anche i lavoratori dei trasporti e i tipografi, e con essa solidarizzarono pubblicamente pure parecchi studenti. Rapidamente lo sciopero si estese a tante altre realtà territoriali, da Novara a Bologna, da Bergamo a Savona, da La Spezia a Schio, da Varese a Cesena, da Firenze a Marghera. Fu da subito evidente che la mobilitazione coinvolgeva centinaia di migliaia di scioperanti, i quali avevano accettato di affrontare la serrata padronale e le minacce delle autorità nazifasciste per sostenere una piattaforma in cui prevalevano richieste dal contenuto chiaramente politico; altrettanto rapidamente, tuttavia, si diffuse l’impressione che non ci sarebbero state le condizioni per uno scontro in campo aperto.

I lavoratori avevano deciso di scendere in lotta con la convinzione che il movimento partigiano avrebbe supportato l’agitazione, conferendole quel carattere insurrezionale di cui nelle settimane precedenti i comunisti avevano parlato. L’intervento dei GAP e delle Squadre di Azione Patriottica fu invece estremamente ridotto, e la sostanziale assenza di un appoggio armato impedì agli scioperanti, tranne in pochi casi, di scendere in piazza e di sfidare apertamente le autorità d’occupazione. Un militante comunista della Borletti di Milano, in un rapporto sullo sciopero, fu estremamente chiaro al riguardo: “Tutti sono d’accordo di far cessare la guerra con questo sciopero, dicendo che non è il burro che c’interessa, è la guerra che bisogna far cessare. Occorrerebbe che i partigiani occupassero i comandi militari, poi noi pensiamo al resto”17. La delusione generata dal mancato intervento dei partigiani scoraggiò gli operai: l’impossibilità di affrontare le forze militari nazifasciste mise inoltre gli scioperanti nelle condizioni di cedere alla serrata, di rinunciare a presidiare gli stabilimenti e di restarsene a casa, vista l’impossibilità di manifestare in strada.

I limiti imposti dalla direzione dello sciopero non possono tuttavia far dimenticare che si trattò della più grande mobilitazione di massa nell’Europa occupata dai nazisti, con un milione di lavoratori coinvolti. Una lotta che fece alquanto preoccupare Hitler, il quale minacciò fin dall’inizio una repressione durissima ordinando ai suoi ufficiali di deportare il 20% degli scioperanti e di metterli a disposizione di Himmler per il servizio del lavoro coatto in Germania. La repressione non si fece infatti attendere. Furono arrestati circa duemila operai: parecchi di loro vennero deportati in Germania e non pochi vennero rinchiusi nei campi di concentramento; furono decine, poi, i lavoratori torturati e non mancarono le fucilazioni e le impiccagioni

I dirigenti del Pci, intenzionati a ridimensionare il carattere antagonistico dell’agitazione, avevano voluto conferirle una funzione esclusivamente dimostrativa, e da questo punto di vista potevano dichiarare di aver conseguito un risultato senza dubbio importante, vista l’ampiezza della dimostrazione di dissenso riscontrata. Fra i risultati che il Pci poteva rivendicare di aver conseguito c’era pure l’adesione alla mobilitazione delle altre forze politiche dei Cln: esse avevano deciso di non contrastarla in considerazione degli obiettivi nazionali, e non classisti, per i quali era stata convocata, anche se non fecero nulla di significativo per sostenerla attivamente; tale adesione creò inoltre le condizioni per iniziare a strutturare, nei luoghi di lavoro in cui i partiti antifascisti riuscivano a trovare un accordo, Cln aziendali: i comunisti li intendevano come organismi dell’unità nazionale in fabbrica e di fatto ebbero la funzione di evitare, attraverso la promozione della collaborazione di classe all’interno degli stabilimenti, che potesse prevalere la proposta di rimettere in piedi rappresentanze di tipo consiliare. Al loro interno dovevano essere rappresentate le differenti correnti politiche, indipendentemente dalla loro rappresentatività effettiva: l’unità politica era intesa come un passaggio necessario per democratizzare, in vista della liberazione, la gestione delle fabbriche, nel quadro della collaborazione auspicata dai vertici dei partiti fra gli operai da una parte e i tecnici, i quadri e i capi dall’altra.

Gli operai nella Resistenza

Nel periodo successivo l’avanzata da Sud delle truppe alleate consentì, all’inizio di giugno, la liberazione di Roma e costrinse i tedeschi a ritirarsi a ridosso della “linea gotica”. Nella capitale si costituì un nuovo governo di unità nazionale, non più presieduto da Badoglio ma da Bonomi, il dirigente liberale del Cln che, grazie a una politica attendista concordata col Vaticano e con gli Alleati, era riuscito a scongiurare l’ipotesi di un’insurrezione contro i tedeschi nella capitale. Contemporaneamente al Nord si andavano consolidando le basi della Resistenza armata: le bande partigiane si rafforzarono parecchio, in termini di effettivi, durante la primavera, periodo nel quale i combattenti risultavano essere circa 30mila, di cui metà aderenti alle brigate Garibaldi, organizzate dal Pci.

L’eterogenea composizione sociale delle brigate era segnata da una presenza operaia significativa: dopo gli scioperi del marzo, in particolare, non erano stati pochi gli operai che, per reazione alla forza militare dell’apparato repressivo, avevano deciso di mettersi a disposizione per la costituzione di squadre armate nelle città (a Torino le SAP potevano contare nel giugno su più di 12mila operai inquadrati); il passaggio dalle fabbriche alla montagna non fu altrettanto consistente, e ciò motivò la polemica dei dirigenti comunisti contro il presunto attendismo diffuso presso quella parte della classe operaia che, non costretta a sottrarsi al servizio di leva in considerazione delle esenzioni, non accettava di buon grado l’allontanamento da ambienti nei quali pure aveva dimostrato di sapersi battere. Fra giugno e luglio la consistenza della Resistenza continuò comunque ad aumentare, in considerazione dell’ampiezza del fenomeno delle diserzioni che colpivano l’esercito repubblichino e dell’entusiasmo generato dal ritmo dell’avanzata alleata nell’Italia centrale: dalla Toscana i tedeschi vennero cacciati nel corso delle settimane di luglio, periodo nel quale in tutto il movimento partigiano dilagava la speranza relativa alla prospettiva di un’insurrezione imminente.

Per i tedeschi la Resistenza era diventata un pericolo reale, da prendere seriamente in considerazione: essa iniziava a riportare successi militari d’una certa importanza, e ciò aveva convinto la classe operaia della possibilità di rilanciare la propria mobilitazione nei luoghi di lavoro. Uno sciopero prolungato aveva bloccato l’apparato produttivo torinese lungo tutta la seconda metà del mese di giugno. L’agitazione esplose alla Fiat Mirafiori quando si diffuse la notizia che i tedeschi stavano per smantellare alcuni macchinari da trasferire in Germania: l’intero stabilimento si bloccò il 17 giugno, e il 20 giugno gli operai torinesi mobilitati dai comitati di agitazione erano già 100mila, intenzionati ad impedire lo smantellamento degli impianti e ad avanzare una serie di richieste economiche precedentemente ignorate dalle direzioni aziendali. Queste ultime furono costrette a cedere, dopo che si resero conto che ai fascisti mobilitati per stroncare lo sciopero mancava la determinazione necessaria per intervenire energicamente. In quest’occasione democristiani e socialisti non accettarono di appoggiare la lotta: essa tuttavia si affermò ugualmente, nonostante l’incertezza del Cln; le concessioni delle direzioni aziendali consentirono agli scioperanti d’interrompere l’agitazione senza dover rientrare nelle fabbriche demoralizzati. Nello stesso periodo anche Genova fu percorsa da agitazioni operaie convocate per rivendicare miglioramenti economici e maggior protezione dai bombardamenti: la reazione tedesca fu durissima e provocò la deportazione di circa 1500 lavoratori.

Continuava tuttavia a procedere l’inquadramento militare degli operai, i quali si aspettavano che il partito, in accordo con le brigate Garibaldi, fosse sul punto di organizzare le azioni decisive per liberare il paese e per iniziare la rivoluzione. Secondo i rapporti, infatti, dei quadri comunisti, l’istinto di classe portava la maggior parte dei militanti, inquadrati o meno nelle formazioni partigiane, ad attendersi uno sviluppo rivoluzionario della guerra di liberazione nazionale e ad immaginarsi come imminente l’affermazione del comunismo: il partito s’impegnò a fondo per ridimensionare ogni espressione d’intransigenza classista, con lo scopo di far accettare alla base una linea politica fondata sull’abbandono della prospettiva rivoluzionaria; l’orientamento che doveva prevalere era quello chiarito da Scoccimarro alla fine del 1943: “Da taluni compagni ci è stata fatta la richiesta di elaborare un programma di partito, si intende un programma attuale (…) un vero e proprio programma in questo momento potrebbe anche essere inopportuno. Il nostro programma fondamentale è ora la guerra contro i tedeschi e la distruzione del fascismo e non vorremmo formulare programmi di riforme economiche e sociali che possano turbare l’unità del fronte nazionale.” (18) In quella fase nell’Italia occupata dai tedeschi gli aderenti al Pci erano più di 60mila, 15mila dei quali inquadrati nelle formazioni partigiane. Nel complesso, la Resistenza ad agosto contava su quasi 60mila effettivi, non tutti armati, metà dei quali inquadrati nelle brigate Garibaldi: il problema dei rifornimenti di armi iniziava a rappresentare un motivo di tensione all’interno dello schieramento antifascista, in considerazione dell’assoluta insufficienza dei lanci alleati, gestiti secondo criteri che iniziavano a delineare scelte discriminatorie a danno delle formazioni d’ispirazione comunista, nonostante la Resistenza si fosse ormai dotata di un comando militare unificato, alla testa del quale c’erano il comunista Longo e l’azionista Parri.

La crescita delle adesioni al Pci fu, a partire dall’estate, ancora più impetuosa nelle zone liberate, tanto che a novembre gli iscritti erano più di 340mila: l’influenza crescente dei comunisti continuava a preoccupare gli Alleati, nonostante Togliatti andasse ripetendo che l’obiettivo dei comunisti era esclusivamente quello di conquistare nel paese le condizioni per un regime democratico e che per conquistarle considerava decisiva l’alleanza politica con la Democrazia Cristiana. Tale alleanza venne perseguita non solo sul terreno politico, ma anche su quello sindacale: la fondazione, infatti, all’inizio di giugno della nuova Cgil unitaria aveva dimostrato la disponibilità dei comunisti, sancita dai contenuti del “patto di Roma”, ad accantonare una concezione classista del sindacalismo pur di riuscire a coinvolgere i democristiani nella ricostruzione della Confederazione. L’indipendenza della nuova struttura dai partiti era solo formale e i suoi scopi venivano esplicitamente subordinati ai compiti generali della ricostruzione nazionale.

Da questo punto di vista, aveva avuto successo l’operazione democristiana finalizzata a fare del sindacato unitario uno “strumento efficace di attenuazione della lotta di classe” (19): secondo i dirigenti del partito cattolico si trattava principalmente di evitare, con un accordo di vertice, che la nuova Cgil potesse diventare uno strumento di promozione della conflittualità sociale nelle mani dei comunisti. Che il rischio fosse concreto lo dimostrava il ritmo travolgente con cui, nella seconda metà del 1944, aumentarono le adesioni alla Confederazione: alla fine dell’anno essa poteva contare su più di un milione di iscritti, una massa di lavoratrici e lavoratori intenzionati a non assistere passivamente alla restaurazione reazionaria che gli Alleati stavano imponendo nelle zone liberate. Tale intenzione era stata, nei mesi precedenti, condivisa dalla Cgl di Russo, che fu tuttavia costretta in agosto a confluire nella nuova Confederazione per via dell’impossibilità di competere con la forza organizzativa della struttura promossa dai principali partiti antifascisti; era stato il Pci, in particolare, ad avversare con particolare veemenza l’impegno del sindacato classista: “Tutti i mezzi per sottrarre spazio alla Cgl vengono utilizzati. Il Pci giunge anche ad appoggiare, con una risoluzione adottata dal Comitato Federale (di Napoli) il 5 luglio, l’ordine del colonnello Chapman di vietare gli scioperi ed ogni manifestazione e che dispone la punizione del lavoratori addetti ai servizi telefonici e telegrafici con la pena di morte in caso di sospensione del lavoro.” (20)

Alla normalizzazione imposta dagli Alleati stava collaborando attivamente Bonomi: la politica conservatrice del suo governo, di cui erano ministri Togliatti, Saragat e De Gasperi, risultava completamente subordinata alle posizioni angloamericane, posizioni che l’Urss, in nome della spartizione delle zone d’influenza, si guardava bene dal contestare. Di fatto il Pci operava ormai, per esplicita ammissione dei suoi dirigenti, come un partito d’ordine, non solo nell’Italia liberata, ma anche nelle regioni in cui si continuava a combattere contro i tedeschi: all’interno dello schieramento resistenziale, infatti, esso utilizzava la propria crescente influenza per imporre alle bande partigiane la moderazione che la politica unitaria presupponeva. L’afflusso crescente di operai, braccianti e contadini poveri nella Resistenza, in particolare, gli operai del triangolo industriale consentiva nel corso del 1944, la moltiplicazione delle SAP: in Lombardia i sappisti non erano meno di 13mila, in Liguria 4mila e 10mila in Piemonte. All’interno delle formazioni combattenti i commissari politici sviluppavano una polemica incessante contro le idee, considerate estremiste, di quanti si battevano con la convinzione di prepararsi per l’insurrezione proletaria.

La disponibilità popolare ad unirsi alla Resistenza continuò a crescere fino all’autunno, senza che tuttavia gli Alleati si dimostrassero intenzionati ad armare adeguatamente quanti stavano dimostrando l’intenzione d’insorgere: la loro preoccupazione principale continuava ad essere quella di contenere la dinamica espansiva della guerriglia al Nord per evitare il rafforzamento delle capacità militari dei comunisti. Per questa ragione gli Alleati imposero il generale Cadorna, la cui ostilità nei confronti dei comunisti era nota, alla testa del Corpo Volontari della Libertà, e per la stessa ragione continuarono, anche nella fase in cui si stava per bloccare l’offensiva dal Sud, a limitare i lanci di armi alle formazioni partigiane. Ciò nonostante il Pci si rifiutò di denunciare l’atteggiamento ostruzionistico che Churchill in particolare stava dimostrando nei confronti della Resistenza italiana: l’appello disarmante che il generale Alexander, a metà novembre, aveva rivolto ai partigiani, invitati esplicitamente a “cessare le operazioni” e a starsene in difesa fino a nuovi ordini, chiarì definitivamente la diffidenza angloamericana nei confronti del movimento di liberazione italiano; i suoi vertici, tuttavia, solo qualche settimana più tardi accettarono definitivamente di sottomettersi al comando delle armate alleate. Tale accettazione veniva sottoscritta dal Cln dell’Alta Italia proprio nei giorni in cui le truppe britanniche iniziarono a reprimere brutalmente il movimento insurrezionale scatenato dalla Resistenza greca contro il governo reazionario capeggiato da Papandreu.

Di fronte alla prospettiva dell’insurrezione

L’inverno non fu solo la stagione in cui il movimento partigiano fu costretto a prendere atto del grave ridimensionamento delle proprie capacità offensive, determinato congiuntamente dalla controffensiva tedesca e dal disimpegno alleato, ma fu anche il periodo durante il quale gli instabili equilibri del governo delle zone liberate furono messi a dura prova dalle mobilitazioni popolari. Le campagne meridionali erano percorse da un malessere di fondo che sfociò in numerosi tentativi di occupazione dei latifondi, i quali si intersecavano alle sommosse che scuotevano le aree più depresse delle regioni del Sud. La risposta delle autorità locali fu durissima: la repressione scatenata contro le proteste allontanava sempre di più le popolazioni meridionali da un apparato statale in grave crisi, e lo stesso Pci, intenzionato ad evitare che la radicalizzazione facesse saltare gli equilibri del fronte nazionale al governo, si trovò a dover affrontare tensioni molto aspre con i settori più esasperati della propria base. La scarsa autorità del governo Bonomi, puntellato solo dall’appoggio degli Alleati e dall’indisponibilità del Pci a rompere la coalizione, veniva palesata dalla renitenza alla leva di circa 200mila uomini, che rifiutarono di farsi mobilitare da uno Stato di cui conoscevano solo il volto repressivo. Il governo non aveva infatti saputo intervenire efficacemente per affrontare gli innumerevoli problemi delle masse meridionali: per le famiglie di salariati e pensionati il carovita rimaneva un problema drammatico, e nemmeno le riforme approvate, quella agraria e quella fiscale, incisero sui rapporti di forza che regolavano un assetto sociale che gli Alleati non intendevano affatto modificare.

L’ipoteca angloamericana pesava pure sulle prospettive di liberazione per il Nord Italia: gli Alleati non intendevano affatto affidare al ClnAI le responsabilità amministrative nelle regioni in cui continuava ad operare la Resistenza. Attorno a questo problema non mancarono le difficoltà all’interno dell’antifascismo: il Pci cercò di affrontarle, con l’obiettivo di evitare una rottura fra il ClnAI, il governo centrale e gli Alleati. I comunisti, a questo scopo, accettarono pure di ridimensionare il valore che attribuivano agli strumenti con i quali avrebbe dovuto affermarsi la “democrazia progressiva”: i dirigenti attivi nelle realtà locali s’impegnarono a spiegare che i Cln non andavano intesi come gli organismi di un potere popolare da costruire dopo l’insurrezione contro i nazifascisti. Si trattava della prosecuzione della polemica condotta contro le concezioni, accusate di massimalismo, della base: “L’idea della rivoluzione fatta con la forza armata è così radicata in taluni elementi che non si riesce ad inculcare in essi le nuove tesi.” (21) Soprattutto nei centri industriali del Nord, fra gli operai collegati al partito continuava a prevalere l’idea che non si sarebbe potuta evitare la resa dei conti con la borghesia complice del fascismo: l’attesa nei confronti delle prospettive di emancipazione che avrebbe potuto aprire la liberazione si nutriva anche dell’esasperazione provocata dalla fame e dal freddo che caratterizzarono l’ultimo inverno di guerra.

Mancarono nei mesi a cavallo fra il 1944 e il 1945 agitazioni generali simili a quelle della primavera precedente, ma i licenziamenti e le deportazioni, aggravando una situazione sociale già deteriorata dal persistere del carovita e dal funzionamento sempre più precario dei servizi fondamentali, scatenarono le numerose proteste locali che anticiparono gli scioperi esplosi a Torino e a Milano nel marzo del 1945; esse segnalavano la grande distanza che continuava a dividere il proletariato settentrionale da una borghesia che, oltre a continuare ad ignorare le rivendicazioni operaie, nella maggioranza dei casi non si dimostrava neppure intenzionata a tutelare le proprie maestranze dalle retate repressive e dalle requisizioni di manodopera. A Milano e a Sesto nella seconda metà di novembre c’era stato uno sciopero generale per protestare contro la deportazione di quasi 200 operai della Pirelli Bicocca: se altrove agli scioperi di questa fase mancarono omogeneità e continuità, comunque nel corso delle mobilitazioni quotidiane contro la fame e il freddo gli operai ebbero modo di maturare ulteriore ostilità nei confronti di dirigenti industriali, la cui contiguità con il regime collaborazionista messo in piedi dai fascisti risultava evidente.

A fine marzo, durante un’importante agitazione operaia in corso in Lombardia, il ClnAI costituì a Milano il Comitato esecutivo insurrezionale, con l’obiettivo di preparare l’insurrezione con la quale liberare le grandi città del Nord prima dell’arrivo delle truppe alleate. Il Pci diramò ad aprile le direttive con le quali organizzò lo scatenamento delle azioni insurrezionali necessarie ad imporre all’attenzione degli Alleati la forza del movimento di liberazione: ancora una volta il proletariato, non più disponibile a lotta parziali, rispose all’appello. A Torino lo sciopero preinsurrezionale esplose il 18 aprile, a Milano il 25, mentre dal 23 erano entrati in sciopero i ferrovieri: le fabbriche principali vennero occupate dagli operai e divennero le basi per l’offensiva armata nelle città contro i presidi militari tedeschi; l’obiettivo dei comitati di agitazione era di difendere gli stabilimenti dalle operazioni di guerra e di utilizzarli come punti di rifornimento per le azioni dei GAP e delle SAP, oltre che come basi di supporto per le formazioni che scendevano dalle montagne: tale difesa venne concepita dagli operai insorti come l’avvio, di fatto, dell’espropriazione delle fabbriche, la quale avrebbe dovuto preludere, nelle intenzioni degli insorti stessi, a un più generale cambiamento dei rapporti sociali. Secondo l’efficace descrizione di uno studio recente, “le nuove parole d’ordine sono: epurazione dei dirigenti e dei capi (fascisti per definizione), consigli di gestione, collettivizzazione. Le idee sono approssimative, la cultura politica solo agli albori, ma la rabbia è incontenibile.” (22)

In tutte le principali realtà industriali del Nord l’insurrezione fu infatti caratterizzata dall’evidente centralità del protagonismo operaio: il proletariato delle grandi fabbriche aveva esercitato un ruolo propulsivo decisivo, e, a partire dalla mobilitazione nei luoghi di lavoro, si era riappropriato del controllo su tanti degli spazi della vita economica e sociale che nel ventennio precedente erano stati progressivamente occupati dai fascisti. Nonostante la mancata soddisfazione, nel periodo successivo, delle aspirazioni rivoluzionarie dei settori più politicizzati del proletariato, le intenzioni degli operai che erano insorti non potevano essere equivocate: la loro si configurava come una vera e propria lotta per il potere; si stavano battendo per sottrarlo alle forze nazifasciste e per appropriarsene, non per riconsegnarlo a quei borghesi che, nei fatti, non avevano mai smesso di condividerne la gestione. La democrazia per cui il proletariato aveva deciso d’insorgere era quella operaia, nella convinzione che la fine della guerra dovesse coincidere con la fine del sistema sociale che ne aveva generato i presupposti, il capitalismo: “Si lottava per cambiare il mondo, e io penso di aver fatto tutto il mio dovere per tentare di modificare le cose. Mi pare che, in parte, dei miglioramenti ci sono stati (…) Ma noi volevamo distruggere la proprietà privata, volevamo che il lavoro fosse un bene di tutti, un diritto di tutti. Aspiravamo a una società senza sfruttati né sfruttatori, e da questo mi pare che siamo ancora molto lontani.” (23)

 

Note

1. AA.VV., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943/1944, Feltrinelli Editore, Milano 1974, p. 41.

2. Ivi, p. 53.

3. U. MASSOLA, Gli scioperi del ’43, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 13.

4. U. MASSOLA, Gli scioperi del ’43 cit., p. 43.

5. P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata, Einaudi editore, Torino 1973, p. 186.

6. U. MASSOLA, Gli scioperi del ’43 cit., p. 134.

7. T. GRANT, Italian revolution and the Tasks of the British Workers, in “Workers’ International News”, n. 12, agosto 1943, p. 3.

8. P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano cit., p. 272.

9. P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano cit., p. 304.

10. Per maggiori informazioni su questa vicenda, A. PEREGALLI, L’altra Resistenza. Il Pci e le opposizioni di sinistra 1943-1945, Graphos Editrice, Genova 1991, p. 13 e sg.

11. AA.VV., Operai e contadini cit., pp. 211-212.

12. A. PEREGALLI, L’altra Resistenza cit., p. 249.

13. C. PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri editore, Torino 1994, p. 345.

14. AA.VV., Operai e contadini cit., p. 85.

15. Ivi, p. 231.

16. P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo, Einaudi editore, Torino 1975, p. 227.

17. P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. La Resistenza cit. p. 262.

18. Cit. in L. LONGO, I centri dirigenti del Pci nella Resistenza, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 267.

19. P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. La Resistenza cit., p. 402.

20. A. PEREGALLI, L’altra Resistenza cit., p. 53.

21. P. SPRIANO, Storia del Partito comunista italiano. La Resistenza cit., p. 524.

22. S. PELI, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi editore, Torino 2004, p. 157.

23. Cit. in C. PAVONE, Una guerra civile cit., p. 360.

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