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Palestina, dagli accordi di Oslo ai nostri giorni

di Andrea Davolo

 

La nascita dello Stato d’Israele compie quest’anno il suo settantesimo anniversario. Con una dichiarazione unilaterale il 14 maggio del 1948 ebbe infatti inizio il progetto del movimento sionista che mirava alla costituzione di un moderno Stato ebraico.

 

14 Maggio 1948, Ben Gurion proclama lo Stato di Israele.

Il risultato di questo fu il terrore che spinse 700mila palestinesi a fuggire dai loro villaggi e dalle città. Tutte le proprietà dei palestinesi furono effettivamente requisite dalle milizie ebraiche e, secondo lo slogan “setting fure to, blowing up and planting mines in the debris” ovvero “dar fuoco, far saltare in aria e minare le rovine” molte città furono letteralmente distrutte allo scopo di evitare che la popolazione palestinese potesse fare ritorno alle sue case. L’establishment dello Stato israeliano creò così la più grande questione odierna, una questione con cui il popolo palestinese si è confrontato negli ultimi 70 anni, quella dei rifugiati. Attualmente la popolazione palestinese originatasi a partire dai primi rifugiati è stimata in 5 milioni di persone, dislocata in vari punti dei paesi confinanti.

Il tema è stato nuovamente posto la scorsa primavera dla movimento di resistenza di massa per il “diritto al ritorno”, che rivendicava la possibilità per i discendenti dei rifugiati della “Nakba” (Catastrofe) del 1948, della guerra dei “Sei Giorni” del 1967 e di altre aggressioni israeliane, di fare ritorno alle proprietà della loro famiglia nei territori che attualmente appartengono ad Israele. L’allontanamento della popolazione araba dalla sua terra diede inizio alla moderna questione palestinese, il pluri-decennale movimento di resistenza delle masse palestinesi contro l’occupazione israeliana.

1948, Palestinesi abbandonano i loro villaggi.

I cosiddetti “processi di pace” hanno ipocritamente provato a dare una risposta ed una soluzione ai problemi e alle ferite che si sono aperte nella regione medio-orientale in conseguenze della politica espansionista dei sionisti, sostenuta dalle principali forze imperialiste, in primis gli Stati Uniti. In questo articolo è affrontata principalmente la situazione politica e sociale che si è sviluppata in Medio Oriente a partire dagli accordi di Oslo del 1993, che possono essere considerati la prima e, fino ad oggi, la più importante intesa tra lo Stato israeliano e la leadership palestinese. Per quanto riguarda il periodo dalla nascita d’Israele alla prima Intifada (1948-1988) rimandiamo all’articolo di Francesco Merli La rivoluzione araba. Dalla nascita d’Israele alla prima Intifada.

Gli accordi di Oslo

Gli accordi di Oslo nel 1993 furono l’esito dei tentativi diplomatici della leadership palestinese, ma soprattutto furono il sottoprodotto delle enormi rivolte popolari in Palestina, la cosiddetta “Intifada” iniziata nel dicembre del 1987 con alcuni atti spontanei di protesta contro le forze dell’ordine israeliane e che presto assunse le dimensioni di una vera e propria insurrezione di massa nei territori occupati, in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme. Gli accordi di Oslo, avvenuti sotto la supervisione e con il sigillo degli Stati Uniti, consentivano la nascita di un semi-Stato palestinese, l’Autorità Nazionale Palestinese, a cui erano affidati i compiti di polizia e di sicurezza all’interno dei territori di Cisgiordania e Gaza.

La storica stretta di mano fra il premier israeliano Yitzhak Rabin e il presidente dell’Olp Yasser Arafat il 13 settembre 1993 a Washington alla presenza del presidente americano Bill Clinton.

Questi accordi si basavano sul presupposto che ebrei e arabi non potessero vivere insieme e avevano l’obiettivo dichiarato di separarli per raggiungere la pace. Il piano prevedeva il ritiro delle forze israeliane da alcune aree occupano in Cisgiordania e a Gaza e riconosceva il diritto del popolo palestinese ad autogovernarsi in questi territori. Gli accordi prevedevano inoltre che ulteriori negoziati si occupassero di tutte le altre questioni rimaste ancora aperte: Gerusalemme, i rifugiati palestinesi e gli insediamenti dei coloni israeliani.

La leadership palestinese, e in particolare il suo principale partito Al Fatah, di ispirazione social-democratica e guidato da Yasser Arafat, cercò di capitalizzare l’enorme autorità conquistata grazie all’Intifada per giungere ad un negoziato con Israele, anche a costo di tradire l’aspirazione ad uno Stato indipendente che aveva guidato la rivolta popolare, soprattutto dopo che la sconfitta di Saddam Hussein in Iraq aveva disegnato equilibri geopolitici nella zona sfavorevoli alla direzione palestinese, unica nella Lega Araba a non aver appoggiato l’aggressione imperialista all’Iraq.

Nonostante le speranze che si accompagnarono agli accordi, l’Autorità Nazionale Palestinese ha fallito completamente l’obiettivo di sviluppare uno Stato indipendente. Innanzitutto, lo Stato di Israele non riconosce all’Autorità Nazionale Palestinese lo stesso rango del governo di uno stato vero e proprio, e l’ANP non può prendere decisioni in materia di politica estera e non può organizzare un suo esercito. L’autorità palestinese inoltre possiede forze di polizia con armamento rigorosamente limitato e non ha un controllo sul territorio né sulle vie di comunicazione né su quelle di trasporto. Il governo palestinese amministra gli affari interni, mentre agli israeliani è rimasto il controllo generale del territorio. 

Inoltre, lo stato d’Israele ha favorito la continuazione del regolare e sistematico insediamento forzato di coloni all’interno dei confini della Cisgiordania, procedendo di fatto all’annessione di porzioni sempre più estese di territori occupati. Il governo laburista di Rabin lanciò, subito dopo la firma degli accordi, la massiccia espansione degli insediamenti di coloni, che era stata pianificata dal governo di destra di Sharon nel 1991.

Ariel Sharon.

Attraverso una politica di attrazione dei coloni con l’offerta di grossi incentivi economici, il numero di coloni israeliani che vivevano nella Cisgiordania e nella striscia di Gaza, dal 1994 all’inizio del 2000, è raddoppiato. Chiaramente disposti in maniera strategica, estesi blocchi di insediamenti di coloni sono stati insediati in Cisgiordania per impedire i movimenti fra i principali centri della popolazione palestinese e la loro crescita naturale. Il fatto che gli accordi non avessero preso alcun tipo di decisione riguardo a temi quali i confini e la presenza dei coloni, ha così permesso ai leader israeliani di prestabilire l’esito dei successivi negoziati, la cosiddetta “road map”, ponendo nuove “condizioni di fatto”.

Un controllo più sistematico e a tappeto dei territori della Cisgiordania e di Gaza e un aumento esponenziale degli insediamenti erano due obiettivi resi d’altra parte più semplici e realizzabili proprio in virtù del fatto che all’Autorità Palestinese, e quindi alla leadership borghese delle masse palestinesi, venisse chiesto di fare il “lavoro sporco” nelle città.  L’esercito israeliano, potendo  quindi trasferirsi fuori dai centri abitati dalla popolazione palestinese, diminuiva il livello di rischio per i suoi soldati, mantenendo l’occupazione per mezzo di checkpoint e della chiusura periodica delle frontiere. Nei fatti ciò che ipocritamente è stato definito “processo di pace” è stato in tutta trasparenza un piano per l’istituzionalizzazione dell’occupazione israeliana.

Ma la questione materiale del fallimento degli accordi di Oslo risiede nel fatto che non esisteva alcuna possibilità per la leadership palestinese di sviluppare l’economia di Gaza e della Cisgiordania,  non solo perché queste due aree sono geograficamente divise e distanti, ma soprattutto perché l’Autorità Nazionale Palestinese è stata sottoposta alla continua pressione economica e militare di Israele, che continua ad esercitare un controllo completo sull’economia, sulle infrastrutture e su ogni livello del potere. D’altra parte, già dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele si era imposto nei confronti dell’economia dei territori palestinesi quale unico interlocutore negli scambi commerciali. Inoltre non bisogna sottovalutare l’impatto devastante che hanno sull’economia dei territori palestinesi la sistematica e frequente chiusura delle comunicazioni tra le città della Cisgiordania e tra queste e la zona di  Gaza, una misura disposta dallo Stato d’Israele in ragione di “esigenze di sicurezza” della popolazione israeliana. Ciò significa che i trasporti delle merci sono sostanzialmente impossibilitati dalla politica di controllo e di arbitraria chiusura dei confini, decisa da Israele prendendo a pretesto il pericolo di azioni terroristiche. Come conseguenza del blocco israeliano, l’85% delle fabbriche sono state chiuse o hanno iniziato a funzionare a meno del 20% della loro capacità massima. La chiusura delle comunicazioni ha avuto un effetto diretto anche sull’occupazione a causa delle difficoltà a circolare liberamente cui sono andati incontro i lavoratori palestinesi impiegati in Israele. Un altro dato assolutamente non di poco conto consiste nel fatto che gli accordi di Oslo prevedevano che le imposte e i dazi doganali per l’ANP fossero raccolti da Israele, che tuttavia ha cessato nel 2006 il trasferimento alle autorità palestinesi delle somme previste, compromettendo ulteriormente la grave situazione economica, tenendo conto che più di metà della forza lavoro palestinese è impiegata nell’amministrazione pubblica e non può di conseguenza essere stipendiata.

La seconda intifada e l’ascesa di Hamas

La conseguenza di questo progressivo e inevitabile peggioramento delle condizioni di vita è stato lo screditamento della leadership palestinese. Tuttavia sette anni dopo Oslo, nel 2000, l’enorme frustrazione per il fatto che quegli accordi non avessero significato assolutamente la fine della schiavitù dell’occupazione, portò nuovamente i giovani palestinesi ad armarsi di pietre per tornare a fronteggiare uno degli eserciti più potenti al mondo. La responsabilità per quell’enorme illusione e quel tradimento che gli accordi di Oslo avevano rappresentato, era da accreditare per intero ai leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, al partito di Al Fatah e ad Arafat. Il disfacimento della loro autorità politica portò all’affermazione della leadership fondamentalista di Hamas.

Le rivolte iniziate nel 2000, che verranno indicate come la seconda Intifada, durarono per circa 5 anni. Nel corso delle manifestazioni e delle rivolte più di 4mila palestinesi vennero uccisi e soprattutto agli inizi si vide anche una mobilitazione dei giovani e della classe lavoratrice israeliana contro l’occupazione e l’intervento militare. Tuttavia, il dato politico significativo della seconda Intifada fu proprio il fatto che Hamas vi partecipò fornendo direzione politica alla rivolta, soprattutto tra la popolazione araba musulmana di Gaza.

Nel corso della seconda Intifada, Hamas ha compiuto molte azioni di terrorismo individuale, uccidendo israeliani innocenti e consentendo ad Israele di intervenire militarmente con le spalle coperte dal sostegno delle masse israeliane, compattate dalla paura del terrorismo fondamentalista. Ogni volta che Hamas recitava il suo ruolo nell’organizzazione di atti terroristici fra la popolazione civile di Israele, l’allora premier della destra israeliana, Ariel Sharon, aveva gioco facile nel fomentare il reciproco odio nazionale.

Un adolescente alza la bandiera della Palestina di fronte alla moschea di Al Aqsa il 28 settembre del 2000.

Sharon riuscì, in queste condizioni, a far credere alle masse israeliane che la rivolta fosse il tradimento da parte dei palestinesi della pace raggiunta ad Oslo, una prova della loro “barbarie”. Ma tutto ciò non risolveva la contraddizione originale: il compito di controllare la popolazione palestinese diventava sempre più difficile e costoso per lo Stato israeliano. Per questo motivo, la fine della seconda Intifada ebbe inizio con una serie di misure che portarono all’esasperazione dell’oppressione nei territori occupati: la costruzione da parte di Israele di un sistema di barriere fisiche in Cisgiordania e l’evacuazione dei coloni ebrei dalla striscia di Gaza occupata. Entrambe le misure erano effettivamente parte di uno stesso piano: allentare il controllo formale israeliano su alcuni territori, mantenendo la popolazione ebraica all’interno del nuovo confine.

Il muro di separazione razzista fra Israele e Palestina si trova in grandissima parte all’interno dei territori palestinesi e  in moltissimi casi ha comportato in questi anni, oltre all’esasperazione delle persone per l’impossibilità di muoversi liberamente, anche la perdita dell’accesso alle terre coltivate da parte degli agricoltori, l’impossibilità di raggiungere i pozzi d’acqua che in molti casi si trovano al di là della barriera e il vero e proprio isolamento di certi villaggi. Israele ha iniziato a costruire la parete di separazione con lastre di cemento, recinzioni e filo spinato all’interno della Cisgiordania occupata durante la seconda Intifada, sostenendo che fosse fondamentale per la sicurezza.

Il muro di separazione tra Israele e la Palestina a Betlemme visto dal versante palestinese.

Tuttavia,  il muro sembra piuttosto l’ennesimo ed enorme “accaparramento di terra” con l’ inglobamento di grandi tratti del territorio palestinese e una strategia per consolidare la sovranità di Israele sull’area C – una zona comprendente più del 60% della Cisgiordania, occupata e sotto il pieno controllo israeliano – dove sono stati costruiti o sono in fase di costruzione tutti gli insediamenti illegali di coloni israeliani. L’area C della Cisgiordania dovrebbe essere trasferita gradualmente alla giurisdizione dell’Autorità palestinese (ANP) secondo gli accordi  di Oslo. Tuttavia Israele mantiene ancora pieno controllo civile e militare sulla zona, che di fatto è stata territorialmente annessa attraverso la costruzione del muro.

Anche il piano di disimpegno da Gaza, inizialmente applaudito da vasti settori della sinistra non solo in Israele, ma anche in Europa, rientrava in un’identica strategia di consolidamento del controllo da parte dello Stato d’Israele. I coloni ebrei e le postazioni militari sono stati rimossi, ma ciò non cambia il fatto che Gaza sia ancora la più grande prigione del mondo. Non ha reso più indipendenti i palestinesi a Gaza. Se le persone hanno più libertà di trasferirsi all’interno di Gaza, sono comunque condannate a essere dipendenti e sotto il controllo dello Stato israeliano quando escono dalla Striscia per qualsiasi motivo: occupazione, fornitura di cibo, elettricità, accesso all’assistenza sanitaria, materie prime… l’economia di Gaza dipende infatti completamente dai coloni. Non sorprende che, dopo l’implementazione del piano di disimpegno, sia stato notato un forte declino nell’economia di Gaza. Quindi rimuovere gli insediamenti non ha significato fermare l’occupazione, ha semmai consentito ad Israele di riportare la popolazione ebraica entro i suoi confini, continuando a mantenere al tempo stesso la sua presa su Gaza.

La principale promessa del disimpegno, ovvero quella di fornire sicurezza agli israeliani, tuttavia non è stata mantenuta. Al contrario, la Striscia si è trasformata in una regione controllata dall’odiato Hamas, che l’ha utilizzata come base per lanciare missili su Israele e armarsi attraverso il confine meridionale con l’Egitto. D’altra parte la vita dei palestinesi a Gaza è peggiorata sensibilmente. Molti di loro hanno perso il lavoro dopo il disimpegno e molti altri si sono trovati di colpo impossibilitati ad accedere a beni di prima necessità come il cibo, l’elettricità e i servizi medici.

L’insieme di queste condizioni ha portato Hamas alla vittoria nelle elezioni legislative nel 2006. I fondamentalisti islamici vinsero non perché la maggior parte dei palestinesi fosse d’accordo con le loro idee, ma in gran parte perché dopo il fallimento del cosiddetto processo di pace e anni di sanguinosa Intifada, le masse erano disgustate della corruzione dei leader di Fatah e della loro collaborazione con Israele.

 

Emblema di Hamas. Consiste in un’immagine della moschea della Cupola della Roccia. La bandiera destra reca la frase “Non c’è dio all’infuori di Allah” e la bandiera sinistra reca la frase “Mohammed è il messaggero di Allah”. La frase sulla striscia sottostante significa invece :”Movimento di resistenza islamica – Hamas”.

A questa vittoria seguì una sanguinosa guerra civile tra Hamas e Fatah, istigata dagli israeliani. Le forze di Fatah hanno tentato di prendere il controllo di Gaza con un colpo di stato nell’estate del 2007, ma sono state sconfitte e Hamas ha rafforzato ulteriormente il proprio potere a Gaza, con grande sgomento per Israele che, con la complicità degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, ha reagito imponendo il blocco terrestre, aereo e marittimo della Striscia di Gaza, tutt’ora in vigore, decidendo in questo modo di punire con un lento strangolamento l’intero popolo di Gaza, sia quelli che avevano votato Hamas che quelli che non lo avevano fatto.

Guerra senza fine

Se gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o qualsiasi altro paese avesse i suoi porti bloccati, le sue strade e le sue frontiere chiuse e tutti i collegamenti diplomatici recisi dalle azioni di una potenza straniera, sarebbe motivo di una dichiarazione di guerra. E Hamas infatti rispose con attacchi missilistici e attentati suicidi in Israele. Questo allarmò l’Arabia Saudita che si appellò agli Stati Uniti per intervenire e prevenire un nuovo conflitto che rischiava di destabilizzare l’intero Medio Oriente. Nel novembre del 2007 alla conferenza di Annapolis, tenuta su proposta di George W. Bush, fu elaborato un nuovo ed ennesimo piano che avrebbe dovuto produrre un accordo tra Israele e i palestinesi in direzione di una soluzione che prevedeva la costituzione di due Stati.

27 Novembre 2007: George W. Bush apre la conferenza di Annapolis.

Poco più di un anno dopo il piano di pace andò in rovina. La classe dirigente israeliana decise infatti di concentrare tutta la sua potenza militare per polverizzare Gaza lanciando un’offensiva di terra nella Striscia in risposta all’intensificarsi del lancio di razzi da parte di Hamas. Tuttavia il lancio dei missili non era il solo motivo dell’operazione bellica lanciata da Israele. L’operazione a Gaza è stata anche una conseguenza diretta della guerra perduta dall’esercito israeliano nel 2006 nel sud del Libano. Le forze armate israeliane erano infatti uscite gravemente indebolite nella guerra contro Hezbollah ed era necessario ristabilire la credibilità del potere militare deterrente di Israele, anche nella prospettiva del fronte interno, che vedeva da una parte avvicinarsi elezioni in cui tutti i principali partiti israeliani erano dati in netto calo di consensi e dall’altra una crescente crisi economica e sociale. Il bilancio della guerra fu di oltre 1300 morti tra gli abitanti di Gaza e la distruzione totale delle poche infrastrutture esistenti nel territorio della Striscia.

Ad ogni azione militare dello Stato d’Israele, una nuova generazione di giovani palestinesi viene formata all’odio verso il sionismo, che ha distrutto le loro case e le loro famiglie, massacrando donne, uomini e bambini innocenti. E’ così che nel 2014 un nuovo pretesto, il rapimento di 3 giovani israeliani poi trovati uccisi, da origine ad un nuova radicalizzazione del conflitto da parte di Israele con l’operazione militare “Protective Edge”, che porterà all’uccisione di oltre 2100 palestinesi, la grande maggioranza civili, tra cui oltre 500 bambini.

Gaza, 30 Luglio 2014: 23° giorno dell’operazione “Protective edge”.

Questa ennesima guerra seguiva il tentativo da parte delle leadership di Hamas e Fatah di raggiungere un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale, dopo che dal 2006 l’ANP è di fatto divisa tra un governo a guida Hamas nella striscia di Gaza e il governo di Mahmud Abbas, riconosciuto a livello internazionale, in Cisgiordania. L’obiettivo di Israele era quindi quello di provocare un crollo del governo palestinese. In effetti, sia Hamas a Gaza che Fatah in Cisgiordania avevano dovuto affrontare una crescente opposizione nei territori, soprattutto per via delle proteste di massa seguite alla primavera araba del 2011. Ciò spiega perché sia la leadership di Hamas che Fatah stavano cercando di raggiungere un accordo sull’amministrazione dei territori palestinesi. Per la classe dirigente israeliana tuttavia era utile continuare ad avere due entità palestinesi separate perché questo le permetteva di argomentare che, poiché i palestinesi non erano uniti, non c’era nessuno con cui negoziare.

L’intera situazione a trent’anni dalla prima Intifada e il fallimento dei successivi tentativi diplomatici, a partire dagli accordi di Oslo, dimostrano quello che i marxisti hanno sempre detto e cioè che non è possibile dare una soluzione alla lotta di liberazione nazionale del popolo palestinese attraverso la formazione di una sorta di Stato fantoccio nelle mani di Israele. La vittoria elettorale di Hamas nel 2006 a Gaza, prodotto di questo fallimento, ha dato ai fondamentalisti la possibilità di controllare le attività interne a Gaza, il che ha significato anche la repressione da parte degli islamisti del movimento operaio organizzato e delle organizzazioni di sinistra che hanno un’importante tradizione storica a Gaza. Ma al tempo stesso bisogna ricordare come Hamas sia diventata a Gaza la forza politica principale, rafforzando la sua posizione, proprio perché è stata vista come la forza che più coerentemente ha cercato di portare avanti una politica di scontro frontale con lo Stato israeliano.

La situazione in Israele

Lo Stato israeliano si è stabilito nel 1948 per incarnare il progetto reazionario dell’ideologia sionista. Il sionismo si è sviluppato come reazione all’oppressione del popolo ebraico, avvenuta specialmente nei paesi europei. L’idea fondamentale del sionismo era quella di riportare il popolo ebraico nella terra natia, il territorio da cui ha avuto origine l’ebraismo che è appunto la Palestina. Il sionismo è un progetto imperialista perché la Palestina non era una terra vuota e ha quindi comportato la progressiva cacciata della popolazione originaria dei palestinesi, passo dopo passo, guerra dopo guerra. Il processo è tuttora in corso: attualmente ci sono 700mila coloni israeliani stabiliti illegalmente all’interno dei territori della Cisgiordania. Da questo punto di vista, noi ci opponiamo al sionismo. Questo non significa opporsi agli ebrei ma a un progetto imperialista che è supportato e finanziato dalle principali potenze al mondo e in particolare dagli Stati Uniti. Israele, come qualsiasi altro paese al mondo, è uno Stato capitalista che ha al suo interno una classe lavoratrice che è fatta di arabi, ma anche di ebrei. La capacità che la classe dominante israeliana ha di mobilitare la classe lavoratrice e gli operai ebrei contro i palestinesi e a supporto della sua politica militare è favorita dalla rappresentazione di Israele come una fortezza circondata da paesi nemici che ne vogliono la distruzione. Questo permette alla classe dominante israeliana di serrare le fila fra i lavoratori ebrei ad ogni importante crisi dello Stato israeliano.

Lo scorso maggio, in occasione del settantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele, la provocazione di Trump, che ha spostato la sede dell’ambasciata americana a Gerusalemme, ha avuto una chiara motivazione relativa agli equilibri attualmente esistenti nello scacchiere mediorientale. Dal punto di vista dell’imperialismo americano Israele è un importante testa d’ariete in Medio Oriente. E’ un importante leva sia economica che militare che gli Usa possono utilizzare in una regione di grande importanza strategica come quella mediorientale. Nell’amministrazione americana c’è infatti la convinzione che adesso l’Iran sia un enorme minaccia, il prossimo fronte da aprire e si usa propagandisticamente la notizia che il regime di Teheran stia sviluppando la fabbricazione di ordigni nucleari per la distruzione d’Israele. La realtà é che gli Stati Uniti, dopo aver perso la guerra in Siria, stanno di fatto decidendo di abbandonare la regione lasciando però Israele come testa di ponte per fronteggiare l’Iran, che è uscito rafforzato come potenza regionale dalla guerra in Siria, soprattutto ai danni di uno storico alleato degli Usa come l’Arabia Saudita. Per l’imperialismo americano è quindi necessario continuare a combattere contro l’Iran, sia dal punto di vista economico e commerciale con il ripristino delle sanzioni, sia attraverso l’opzione militare, che però sembra essere in questo momento affidata ad Israele, come pure  testimoniano i sistematici bombardamenti israeliani sulle basi iraniane in Siria. Tutto questo è parte del tentativo di Netanyahu di mobilitare la classe lavoratrice contro un nemico esterno per evitare le lotte e le mobilitazioni contro il suo governo.

Infatti l’idea che Israele sia un monolite reazionario, un blocco unito di estremisti sionisti, è profondamente

scorretta. Le rivoluzioni arabe del 2011 sono state un fattore di potenziale cambiamento per le coscienze dei giovani e dei lavoratori israeliani, perché fino ad allora la leadership israeliana aveva avuto gioco molto facile nel presentare le popolazioni arabe come nemiche, in quanto profondamente reazionarie e sostenitrici di regimi dispotici.

31 Luglio 2011, Tel Aviv. Manifestanti recano un’immagine di “Che” Guevara.

Le primavere arabe hanno invece rappresentato dei processi in cui i giovani e i lavoratori israeliani potevano anche identificarsi. La lotta dei giovani al Cairo contro un regime brutale ed oppressivo veniva vista con simpatia anche tra i giovani di Tel Aviv, anche perché Israele è un paese in cui le condizioni di vita sono diventate sempre più difficili per i lavoratori. Il livello dei salari è sotto attacco da vent’anni a questa parte, la polarizzazione sociale è in aumento e tutte le risorse investite nell’esercito e nella repressione dei palestinesi sono state sottratte allo stato sociale. Tutto questo è stato la base per lo scoppio anche in Israele di un movimento di protesta di massa contro il governo sull’onda dei processi rivoluzionari che hanno attraversato il Nord Africa e il Medio Oriente nel 2011. I lavoratori hanno preso coscienza del fatto che esiste un governo oppressivo e reazionario anche in Israele e che questo governo non si risparmia nel portare avanti politiche di austerità e misure anti-operaie. Ci sono quindi le basi per lo sviluppo di un movimento di massa contro la classe dominante anche in Israele ed è per questo che Netanyahu, supportato da Trump, sta aumentando le provocazioni che potrebbero portare ad un nuovo conflitto in futuro.

E’ sempre più evidente per molti palestinesi che la tattica utilizzata da Hamas di impegnarsi a Gaza in una battaglia militare asimmetrica contro il potente esercito israeliano ha solo peggiorato le condizioni. Sia Fatah che Hamas, sia pure in modi differenti, hanno condotto la lotta di liberazione palestinese in un vicolo cieco. Decenni di negoziati e di speranze deluse possono lasciare il passo alla consapevolezza che solo un movimento di resistenza di massa può far fare dei passi avanti alle rivendicazioni del popolo palestinese e che, sulla base del fallimento storico dell’Autorità Nazionale Palestinese, è necessario tornare a ridiscutere la prospettiva politica generale della lotta.

La soluzione dei due Stati non è una soluzione vera perché avere due Stati si è dimostrato nei fatti una prospettiva impossibile e impraticabile. La classe dominante israeliana non può consentire l’esistenza di uno Stato palestinese nei territori palestinesi. Quello che sé stato concesso è, nella migliore delle ipotesi, uno Stato fantoccio che ha come obiettivo principale quello di tenere sotto controllo le masse palestinesi. In realtà, anche con la formula dei due Stati, come abbiamo visto dagli accordi di Oslo ad oggi, l’occupazione è continuata. La soluzione dei “due Stati” è semplicemente inammissibile per Israele che non può permettere lo sviluppo di un’economia palestinese indipendente, che sarebbe una minaccia mortale per la propria economia, fondata principalmente sullo sfruttamento delle risorse nei territori occupati, specie in Cisgiordania. La soluzione di un unico Stato d’altra parte significherebbe la ri-annessione da parte di Israele di tutti i territori della Palestina.

C’è una crescente sfiducia da parte dei palestinesi nei confronti della loro leadership e di chiunque in questi anni abbia gestito la situazione. C’è un forte sentimento che porta a pensare che probabilmente sarebbe meglio per il popolo palestinese vivere con gli ebrei in unico Stato e trasformare la lotta di liberazione nazionale palestinese in una lotta per l’uguaglianza democratica. Ma il problema è che la soluzione a due Stati o la soluzione ad un solo Stato si verificherebbero nelle condizioni odierne del capitalismo e questo sia dal punto di vista israeliano che dal punto di vista palestinese significa una condizione da incubo. Anche se, poniamo in astratto, si potesse costituire uno Stato più moderno e democratico, magari con uguali diritti di cittadinanza per tutti, arabi ed ebrei, anche in questo caso ci sarebbe un conflitto continuo per il controllo di un apparato statale attraversato nei decenni da un conflitto etnico, esasperato dalla questione demografica che negli ultimi anni ha visto la crescita esponenziale della popolazione araba. E’ questo il motivo per cui la classe dominante israeliana non può permettere una condizione di libera cittadinanza per i palestinesi. Ogni “soluzione” sotto il capitalismo sarebbe comunque accompagnata da convulsioni, crisi, conflitti etnici e religiosi e, in ultima analisi, da situazioni di aperta guerra civile. Il punto in discussione non è quindi la soluzione ad uno o due Stati, ma piuttosto quale tipo di società e come le risorse, economiche, agricole, infrastrutturali, possano essere disponibili per la popolazione palestinese, sia ebrea che araba. La questione principale riguarda la necessità di uno sviluppo della lotta di classe dei lavoratori arabi ed ebrei contro il capitalismo in Israele e in Palestina. Porre le enormi risorse create ed accumulate dalla classe dominante israeliana nelle mani dei lavoratori della regione sarebbe l’unica reale soluzione contro le ineguaglianze che esistono in Medio Oriente.

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