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5 Settembre 2017di Serena Capodicasa
Definire “guerra civile” l’insieme delle operazioni militari che sconvolsero la Russia tra la fine del 1917 e il 1922 è una semplificazione che ne riduce la sostanza allo scontro tra rossi e bianchi. In realtà, schierati contro le linee in difesa della rivoluzione, c’erano non solo russi bianchi ma anche soldati francesi, britannici, rumeni, greci, americani, estoni, italiani, cinesi, australiani, giapponesi, canadesi, cecoslovacchi, polacchi, serbi, tedeschi, austriaci, turchi, bulgari, svedesi; eserciti di nazioni che appartenevano agli schieramenti opposti della Prima guerra mondiale, ma che in questa guerra si ritrovarono con estrema naturalezza unite in una causa comune, efficacemente sintetizzata da Winston Churchill: “Il bolscevismo deve essere strangolato nella culla”. L’accanimento nei confronti di questo obiettivo era dettato dalla consapevolezza che la rivoluzione russa non era che la prima in un’ondata che stava attraversando tutto il continente europeo, mettendo a rischio il sistema capitalista a livello internazionale.
Difficile trovare nella storia altre guerre con uno schieramento così ecumenico contro un unico nemico, d’altronde lo stesso campo controrivoluzionario russo vedeva Kornilov e Kerenskij, la reazione zarista e la democrazia liberale, dalla stessa parte della barricata.
Con un tale scacchiere, e nelle condizioni in cui la Russia usciva dalla guerra mondiale – stremata e per di più con un esercito in via di smobilitazione – è impossibile spiegare la vittoria della rivoluzione solo sulla base delle forze e delle risorse materiali impiegate, una simile equazione dovrebbe contraddire la storia.1 Napoleone diceva che “i tre quarti dei problemi in guerra riguardano il morale, i rapporti di forza reali non rappresentano che l’altro quarto”, ma anche questa spiegazione rischierebbe di rimanere in superficie: il morale, la fiducia e la determinazione nella vittoria hanno bisogno di essere sostenuti da basi materiali. Non potendole individuare nella superiorità di mezzi, queste vanno cercate altrove.
Primavera-estate 1918: dalla pace all’accerchiamento
Diversi sono nella storiografia gli eventi a cui si fa riferimento per indicare l’inizio della guerra: la fondazione della Ceca2 il 20 dicembre3 1917, la battaglia di Rostov sul Don il 22 dicembre, lo scioglimento dell’Assemblea Costituente il 5 gennaio 1918 o l’ultimatum alla legione cecoslovacca per la consegna delle armi il 29 aprile 1918, da alcuni addirittura indicato come il motivo dell’intervento delle potenze alleate. Le parole di Churchill citate poco sopra indicano molto chiaramente quale fu il fattore scatenante che mobilitò il capitalismo mondiale contro la Russia sovietica a sostegno della classe dominante russa riunificata tra monarchici e democratici: la rivoluzione bolscevica del 7 novembre del 1917. Il primo tentativo di rovesciare con la forza il governo sovietico arrivò infatti solo pochi giorni dopo, quando l’11 novembre l’ataman4 Krasnov tentò un colpo di Stato, prontamente sventato. L’immediata liberazione di Krasnov, in cambio della sola promessa (poi non mantenuta) di non combattere la rivoluzione, era sintomatica del fatto che in quei primi convulsi momenti i bolscevichi non pensavano affatto che avrebbero dovuto impegnarsi in una guerra che sarebbe durata anni. Al contrario, gran parte delle loro energie erano dedicate a perseguire la fine della partecipazione del paese alla Prima guerra mondiale, una delle esigenze più acute delle masse russe.
Il 3 marzo 1918, con la contrarietà dell’Opposizione militare del Partito bolscevico e degli Sr di sinistra – favorevoli a condurre una guerra rivoluzionaria contro la Germania – vennero infatti accettate condizioni durissime pur di firmare la pace di Brest-Litovsk sulla base della mancanza delle minime condizioni oggettive per proseguire le operazioni militari. Lenin non usò mezzi termini nel ricostruire la situazione: “Ufficiali non bolscevichi avevano detto ancor prima dell’Ottobre che l’esercito non poteva combattere, che non era possibile trattenerlo al fronte nemmeno per poche settimane. Dopo l’Ottobre ciò divenne evidente per chiunque volesse vedere i fatti, la nuda, amara realtà (…). L’esercito non c’è più, trattenerlo è impossibile. La cosa migliore che si possa fare è di smobilitarlo al più presto.”5
Questa quindi era la situazione militare della Russia sovietica nel momento in cui cominciava l’accerchiamento che, entro l’estate, la circondò con 8mila chilometri di fronte ai quattro punti cardinali:
−Ad ovest: appena una settimana dopo la firma della pace di Brest-Litovsk truppe tedesche occuparono la Finlandia per schiacciare la neonata Repubblica socialista e poi, il 14 marzo, l’Ucraina imponendo il governo fantoccio di Skoropadsky e aprendo un fronte, in cui, tra l’altro, oltre ai tedeschi e alle guardie bianche, l’Armata rossa doveva confrontarsi anche con le truppe del nazionalista Petliura. In un secondo momento, nella primavera del 1920, l’invasione polacca dell’Ucraina aprì in Polonia un ulteriore fronte, che l’Armata rossa tentò di sfruttare, non riuscendovi, per catalizzare la rivoluzione in quel paese.
−A sud (lungo i corsi del Don e del Volga): nel dicembre 1917 si formò l’“Armata dei volontari” sotto la guida, nell’ordine, dei generali Alexeiev, Kornilov, Denikin e Vrangel, in alleanza con i cosacchi della regione del Don e del Kuban.
−A nord (Arcangelo e Murmansk): a metà giugno 1918 si costituì l’Armata bianca del Nord guidata dal generale Judenich a sostegno della quale il primo luglio sbarcarono le truppe anglo-francesi.
−Ad est (Siberia): si combatteva sia contro i soldati cecoslovacchi che, a partire dall’autunno, contro le truppe dell’ammiraglio Kolchak; i cecoslovacchi, alleati dell’Intesa, avrebbero dovuto essere rimpatriati dopo la firma della pace di Brest-Litovsk ma si rifiutarono di consegnare le armi e, a partire da inizio maggio 1918, nel giro di poche settimane occuparono diverse città diretti dalla Siberia sud-orientale in direzione della Russia centrale; all’estremità orientale del paese, inoltre i giapponesi occuparono Vladivostok a inizio aprile 1918.
Esisteva poi un quinto fronte, quello interno, generato da un lato dalle insurrezioni antibolsceviche di anarchici e Sr di destra, dall’altro dagli stessi Sr di sinistra che tentarono di riaprire la guerra con la Germania con l’assassinio dell’ambasciatore tedesco Mirbach nel luglio 1918 – organizzando contemporaneamente una fallita insurrezione – e svilupparono azioni terroristiche come quella che uccise il capo della Ceca di Pietrogrado Uritckij e ferì Lenin il 30 agosto dello stesso anno.
I bianchi, i contadini e le condizioni per il ribaltamento della situazione
Le insurrezioni antibolsceviche degli anarchici e degli Sr di destra andavano di pari passo con l’avanzata dei bianchi e dei loro alleati, proprio nelle città che man mano venivano occupate da questi. Non si arrivò però a creare una vera e propria sinergia tra il lato militare e quello politico della crociata antibolscevica. A Omsk, Kolchak, arrivato nell’autunno 1918, fece arrestare il direttorio che gli Sr avevano instaurato dopo l’occupazione da parte dei cecoslovacchi, prese in ostaggio gli ex membri dell’Assemblea costituente e si autonominò “governatore supremo”. Ad Arcangelo gli ufficiali bianchi rovesciarono il governo provvisorio di Chaikovskij, Sr ed ex membro dell’Assemblea costituente, nato con un’insurrezione antisovietica resa possibile dallo sbarco inglese. Denikin fornì una spiegazione molto chiara dell’accaduto: “Con la sua psicologia sempre vivace di ‘approfondimento della rivoluzione’, con le tradizioni dell’‘epoca di Kerensky’ e di conciliazione, questo governo divenne presto odioso agli occhi della borghesia, del corpo degli ufficiali e del comando inglese.”6
Questi episodi sbugiardano qualsiasi tentativo di presentare la guerra civile come una lotta tra la dittatura sovietica e la democrazia. La sconfitta della rivoluzione avrebbe significato non il ritorno al regime cosiddetto “democratico” del febbraio 1917 ma ad una dittatura bianca sanguinaria, probabilmente persino peggiore del regime zarista prerivoluzionario.
La consapevolezza di ciò si faceva strada nelle masse contadine ad ogni passaggio dei bianchi. Lo stesso Denikin denunciò così l’atteggiamento dei suoi: “Dilapidando il bottino preso ai bolscevichi, alcune unità non esitano a saccheggiare la popolazione civile. (…) In queste condizioni le truppe che invadono i territori tolti ai bolscevichi non portano la tranquillità alla quale aspira la popolazione civile, spossata e provata dal giogo bolscevico, né ristabiliscono l’ordine e la legalità, ma portano solo nuovi orrori e favoriscono così il ritorno del bolscevismo creando un terreno favorevole all’agitazione nemica.”7
I contadini vedevano da un lato che i bolscevichi, pur con i sacrifici che chiedevano in termini di requisizioni per rifornire le città e il fronte, avevano consegnato loro le terre, mentre dall’altro i bianchi saccheggiavano i villaggi e rimettevano al loro posto i vecchi proprietari terrieri. E questo fece sì che esplodessero spontaneamente rivolte contadine che spesso cercavano di collegarsi e collaborare con i rossi. Ivan Nikitic Smirnov, allora responsabile del bureau siberiano del Cc del Partito comunista e capo d’armata, testimoniò di diversi episodi di partigiani contadini che spontaneamente si recavano nelle postazioni dell’Armata rossa per fornire indicazioni utili sui movimenti delle truppe di Kolchak, contribuendo alla sua prima battuta d’arresto nell’estate del 1919.8
I nuovi rapporti di proprietà instaurati dalla rivoluzione: ecco basi materiali molto più potenti di qualsiasi equipaggiamento o munizione, perché orientavano masse di milioni di contadini.
Allo stesso tempo, il morale all’interno delle armate bianche soffriva per i metodi ereditati dal vecchio esercito zarista. Un soldato bianco scrisse in una lettera ai suoi: “Ho fatto bene ad arruolarmi nell’Armata dei volontari? Ovunque regna il disordine, il caos, il comportamento nei confronti degli ufficiali è cattivo, va fino allo scherno; la condotta degli ufficiali stessi è davvero rivoltante. In poche parole, sono davvero disilluso dall’Armata dei volontari.”9 Sokolov, capo del servizio di propaganda del governo del Nord, carpendo le conversazioni dei soldati rossi fatti prigionieri capì che, nonostante le loro razioni e condizioni materiali fossero peggiori, “erano animati da un sentimento più forte di questi beni materiali: l’odio per i ‘padroni’.”10 Il bilancio delle diserzioni verso il campo nemico non poteva che essere favorevole ai rossi.
La tendenza alla disgregazione nell’esercito bianco era inoltre alimentata dalla mancanza di una strategia centralizzata e dall’esaltazione dell’individualismo dei comandanti che non riuscivano a sottomettere la loro avidità immediata agli interessi generali della guerra. I cosacchi che si erano schierati con i bianchi,11 in particolare, erano principalmente interessati a preservare il dominio sui loro territori. Il generale cosacco Konstantin Mamontov, ad esempio, dopo aver condotto nell’estate del 1919 un raid nelle retrovie rosse nella regione del Don saccheggiando tutti i villaggi e le città che incontrava, si rifiutò di seguire l’ordine di Denikin di attaccare al cuore dell’Armata rossa preferendo continuare a darsi alla razzia selvaggia (che spesso per il trasporto dei bottini richiedeva più energie che per i combattimenti) piuttosto che sottomettersi alle esigenze strategiche generali dei bianchi.
L’Armata rossa, come si armò la rivoluzione
Le condizioni per la vittoria del campo rivoluzionario non potevano però essere dettate esclusivamente dai demeriti dei bianchi, dall’altra parte la rivoluzione trovò nella costituzione dell’Armata rossa un’espressione militare che ne rappresentò tutto il contenuto politico e sociale.
Il compito di organizzazione e direzione del nuovo esercito fu affidato a Trotskij, non per la sua (di fatto nulla) esperienza militare diretta, ma per le indiscusse doti politiche. In un contesto in cui l’esercito zarista era stato smobilitato e i soldati al fronte della Prima guerra mondiale non vedevano l’ora di tornare a casa, l’unico modo per ricostituire le forze armate praticamente dal nulla era basarsi sulla motivazione politica e, almeno in un primo momento, sull’arruolamento volontario. Allo stesso tempo Trotskij riconosceva la necessità di reperire le competenze tecniche necessarie a condurre le operazioni tra i vertici dell’esercito zarista che non si erano uniti ai bianchi (o che non avevano fatto in tempo). Questo comportava ovviamente un costante rischio di tradimento e sabotaggio, tenuto però sotto controllo dal ricorso a commissari politici che affiancavano i comandi e avevano l’ultima parola sugli ordini da impartire. Alla fine della guerra, su 82 generali zaristi che avevano guidato l’Armata rossa, solo cinque tradirono,12 inoltre ci furono ex ufficiali come Michail Tuchacevskij che si distinsero per il ruolo fondamentale che giocarono.
Rosengoltz, membro del Comitato militare rivoluzionario della V armata, descrisse così lo stato delle truppe nell’estate del 1918 sul fronte meridionale lungo il Volga: “un esercito costituito da gruppi, distaccamenti diversi, poco istruiti, mal coordinati e con una scarsa coesione, che sembrava tutto tranne che un esercito organizzato. Alcuni gruppi portavano il nome di sezione, distaccamento, battaglione, ecc. Ma non c’erano brigate, né divisioni, né il benché minimo reggimento organizzato (…). Dei comunisti cominciarono ad affluire alla V armata. Pietrogrado ci diede un aiuto particolarmente prezioso: i comitati esecutivi dei quartieri Vyborg e Novoderevenski [quartieri operai di Pietrogrado, Ndt] arrivarono quasi al completo, e tra loro operai membri del partito fin dalla sua nascita”.13
Nel giro di pochi mesi, “da una massa vacillante, instabile e dispersa, venne fuori un vero e proprio esercito”.14 L’Armata rossa passò infatti da poche decine di migliaia di unità nella primavera del 1918, a diverse centinaia di migliaia già a fine anno, e ad oltre 5 milioni nel 1920,15 e tra questi c’era la metà dei circa 300mila membri del Partito comunista.16
Il coinvolgimento degli operai comunisti fu dunque una delle leve politiche attorno a cui si ricostituì l’esercito, garantendo a sua volta un’opera capillare di propaganda al fronte.
La classe operaia non si mobilitò però solo direttamente al fronte ma anche nelle città, dove per difendere la Repubblica sovietica, “fortezza assediata dal capitale mondiale” come la definì Lenin,17 si sottopose agli enormi sacrifici del cosiddetto “comunismo di guerra”, una serie di politiche di irregimentazione e militarizzazione del lavoro, necessarie a fare fronte a una situazione economica resa sempre più disastrosa dalla guerra. Per dare un’idea delle condizioni di vita nelle città, nella provincia di Pietrogrado, durante tutta la durata della guerra, la razione giornaliera massima di pane (per gli operai impegnati nelle produzioni più impegnative) era di 303 grammi, a cui si aggiungevano, e non sempre, qualche grammo di carne o di pesce.18 Questi sacrifici erano ottenuti non sulla base della semplice imposizione ma della motivazione politica. Nell’aprile del 1919, le tesi del Cc del Partito comunista in merito alla mobilitazione straordinaria per sostenere il fronte orientale contro Kolchak esortavano ad esempio i sindacati a “organizzare il controllo per assicurarsi che tutti i loro membri vadano di casa in casa per condurre l’agitazione, distribuiscano manifestini, parlino con la gente”.19
L’approccio politico nei confronti delle questioni militari fu una costante tra i bolscevichi ed emerge chiaramente dal racconto di Trotskij della difesa di Pietrogrado dall’Armata bianca del Nord del generale Judenich e dalle truppe inglesi, nell’ottobre del 1919. Trotskij dovette convincere il Cc del partito della necessità di difendere la città, contro il parere dello stesso Lenin, che era disposto a sacrificarla per concentrare le forze sul fronte meridionale, considerato prioritario. L’apatia e la rassegnazione che Trotskij incontrò nei vertici militari e politici quando arrivò in città era tale che, dice: “Dall’apparato ufficiale, che aveva perduto ogni fisionomia, scesi di due o tre gradini: alle organizzazioni distrettuali del partito, alle officine, alle fabbriche, alle caserme. Nella prospettiva della resa della città ai bianchi, nessuno osava farsi avanti. Ma non appena la base si rese conto che Pietrogrado non sarebbe stata abbandonata e che, se necessario, sarebbe stata difesa dai soldati nelle strade, lo stato d’animo cambiò. I più valorosi, i più dotati di spirito di sacrificio, risollevarono la testa. Gruppi di uomini e di donne abbandonarono le fabbriche e le officine con arnesi per scavare.”20
Subito dopo aver respinto Judenich, emanò inoltre i seguenti ordini del giorno:
“Ordine del giorno n. 158 del 22 ottobre 1919
Risparmiate i prigionieri! Accogliete i transfughi amichevolmente. Nell’Armata bianca, i nemici venali, corrotti senza onore, i nemici del popolo lavoratore, sono una minoranza insignificante. La maggioranza schiacciante è fatta da uomini ingannati o mobilitati a forza.”21
“Ordine del giorno n. 159 del 24 ottobre 1919
Combattenti rossi! Su tutti i fronti avete a che fare con i perfidi complotti dell’Inghilterra. Gli eserciti della controrivoluzione sparano contro di voi con cannoni inglesi. (…) I prigionieri che fate portano uniformi inglesi. Donne e uomini di Arcangelo e Astrachan sono massacrati o mutilati da aviatori inglesi con esplosivi inglesi. Navi inglesi bombardano le nostre coste…
Ma anche ora, nel momento della lotta più dura contro il mercenario dell’Inghilterra, Judenich, vi chiedo di non dimenticare mai che esistono due Inghilterre. Accanto all’Inghilterra dei profitti, della violenza, della corruzione, delle atrocità, esiste l’Inghilterra del lavoro, della forza intellettuale, fedele ai grandi ideali della solidarietà internazionale.”22
I riscontri erano i numerosi ammutinamenti sia tra i russi bianchi che tra i soldati stranieri. Non si combatteva il nemico solo con le armi fisiche, ma anche con armi, possibilmente più potenti, che lo spaccavano su basi di classe, contrapponendo all’unità delle borghesie di mezzo mondo contro la rivoluzione russa l’unità rivoluzionaria del proletariato internazionale e considerando questa come un obiettivo di primaria importanza. Nonostante gli immani sforzi bellici, le difficoltà e le carestie, la Russia fu la culla di nuova Internazionale operaia di cui si celebrarono ben tre congressi durante la guerra civile.
Le armate verdi, Kronstadt e le oscillazioni dei contadini
“Cosiddette ‘truppe verdi’ hanno recentemente fatto la loro apparizione sulla zona del fronte. Di che si tratta? In generale si ritiene che le bande verdi siano formate di fuggiaschi e di disertori che non vogliono battersi né da una parte né dall’altra.”23 Così, nel luglio del 1919, Trotskij si riferiva a un fenomeno, quello delle armate verdi, molto eterogeneo e oscillante. Le armate verdi avevano un carattere per lo più locale, potevano essere delle bande da poche centinaia di unità o dei veri e propri eserciti di diverse decine di migliaia. Nella nota citata, Trotskij si riferisce a loro come al “peggior nemico del popolo”,24 avendo appreso che alcune di queste stavano collaborando con Denikin sul fronte meridionale.
Il posizionamento di questi gruppi nella guerra in realtà ebbe un carattere molto volatile. L’armata più famosa, quella di Machno in Ucraina, arrivò a oltre 50mila unità nel suo momento più alto nel 1919, si ammantava di una retorica anarchica e in diversi momenti combatté sia contro che al fianco dei rossi con cui ruppe definitivamente quando, alla fine del 1920, si rifiutò di spostarsi dal fronte ucraino, ormai assicurato, a quello polacco.
Qual era la base sociale di questo fenomeno e cosa ne determinava gli spostamenti tra un campo e l’altro? Riferendosi alla rinnovata alleanza con Machno nell’ottobre 1920, Trotskij fornì una risposta a queste domande basata sulla situazione nelle campagne ucraine: “I contadini più poveri non osavano affidarsi alla rivoluzione, temendo che, alla fine, i proprietari terrieri avrebbero trionfato e li avrebbero puniti senza pietà. Di conseguenza, gli svariati milioni di contadini si nascondevano dietro ai kulaki vedendoli come degli intermediari tra sé e le vecchie classi dominanti. (…) Sfruttando l’arretratezza degli strati rurali più bassi e la loro mancanza di fiducia nella rivoluzione, i kulaki hanno preso la direzione delle campagne e le hanno contrapposte alle città. (…) I movimenti di Petliura e di Machno si sono basati direttamente sullo strato superiore dei kulaki nelle aree rurali. Petliura coscientemente, Machno senza pensare. (…) Ma negli ultimi mesi uno spostamento enorme è avvenuto nella vita delle campagne ucraine. I contadini ucraini, ovvero i loro strati più bassi, si sono avvicinati alla rivoluzione e hanno acquistato fiducia in essa. (…) Fino a quando la campagna si manteneva unita sotto la direzione dei kulaki, le forze di Machno si muovevano liberamente da un posto all’altro, incontrando simpatie e supporto. Ma ora, in ognuno dei principali villaggi dell’Ucraina c’è stata una divisione in due campi, tra i quali deve essere fatta una scelta: o con i kulaki o con i poveri.”25
In ultima istanza, i problemi della rivoluzione e della guerra erano tutti riconducibili alla “lotta tra il proletariato e la borghesia per l’influenza sulle masse contadine”, con la borghesia che “durante il periodo sovietico si manifestava principalmente sotto le spoglie dei kulaki”;26 e l’esito di questa lotta, dialetticamente, veniva orientato in un senso o nell’altro da come la guerra influiva sulle condizioni materiali della popolazione.
Il prolungamento della guerra rese i fronti sempre più dipendenti dalla produzione bellica nelle città e i fronti e le città assieme sempre più dipendenti dalle campagne per gli approvvigionamenti di cibo, portando all’esasperazione l’insofferenza nei confronti delle requisizioni di grano nelle campagne.
Scrisse Tuchacevskij nel 1926: “Fino a quando un pericolo diretto minacciava la terra tolta ai proprietari terrieri, i contadini sostennero il potere sovietico nonostante trovassero pesante la politica delle requisizioni. Ma dal momento in cui la guerra volse al termine, dal momento in cui i contadini si sentirono definitivamente padroni della terra di cui si erano appropriati, si impegnarono in una lotta economica e politica contro il potere sovietico e in alcune regioni gli dichiararono guerra.”27
Queste parole spiegano la dinamica per cui, mentre l’Armata rossa nel corso del 1920 metteva su solide basi militari la vittoria sui bianchi – schiacciando Kolchak a gennaio e Vrangel a novembre –, tra il 1920 e il 1921 esplosero nelle regioni di Tambov, Tobolsk e Tiumen rivolte contadine “verdi” e nel marzo 1921 insorsero i marinai dell’isola di Kronstadt (a trenta chilometri da Pietrogrado).
Una parola d’ordine caratteristica di queste insurrezioni era “soviet senza comunisti”. Ma una simile rivendicazione non avrebbe potuto avere alcuna ricaduta concreta. La piccola borghesia contadina che, stremata dalla guerra, nelle campagne insorte e a Kronstadt si dimenava contro i bolscevichi, non avrebbe potuto mantenere il potere sovietico sotto la sua guida e avrebbe finito per consegnarlo alla borghesia, rappresentata dai generali bianchi. Come ebbe a dire il generale bianco von Lampe, in Russia non potevano esserci che due governi: o i bolscevichi o i monarchici.28
I bianchi, ormai in ritirata, si mostrarono infatti subito pronti ad approfittare dell’insurrezione di Kronstadt: il centro nazionale che si era organizzato per costituire un governo bianco a Pietrogrado puntando sulla vittoria di Judenich non perse tempo a raccogliere fondi per gli insorti di Kronstadt e a chiedere aiuti ai governi finlandese e francese.29
La sconfitta dell’insurrezione di Kronstadt era una questione di vita o di morte per la rivoluzione, e fu garantita non solo dall’azione militare, ma anche dal fatto che gli insorti non trovarono alcuna simpatia, anzi ostilità, tra la classe operaia della vicinissima Pietrogrado e dell’intero paese.30
L’isolamento della rivoluzione, la Nep e i primi germi della burocratizzazione
Le difficoltà nei rapporti con i contadini che, come mostrarono le rivolte nelle campagne e l’insurrezione di Kronstadt, rappresentavano una leva a portata di mano della controrivoluzione bianca, resero necessario il passaggio dal comunismo di guerra alla Nuova politica economica (Nep), ovvero all’introduzione di misure capitaliste, come la liberalizzazione del mercato dei prodotti agricoli e la fine delle requisizioni (sostituite da un’imposta in natura).
Lenin spiegò così questo passaggio: “Quando ci bloccarono, ci assediarono da ogni parte, ci tagliarono da tutto il mondo, e poi dal sud ricco di grano, dalla Siberia, dal carbone, noi non potevamo ricostruire l’industria. Non esitammo a introdurre il ‘comunismo di guerra’, non ci spaventammo davanti alle condizioni più disperate (…). Ma ciò che in un paese bloccato, in una fortezza assediata, era la condizione della vittoria, rivelò il suo lato negativo proprio nella primavera del 1921, quando le ultime truppe delle guardie bianche furono definitivamente scacciate dal territorio della Repubblica federale russa. In una fortezza assediata è possibile ed è necessario ‘chiudere’ ogni scambio; è cosa che si può sopportare per tre anni, se le masse sono particolarmente eroiche. Dopo di ciò, la rovina del piccolo produttore si aggravò ancor di più, la ricostruzione della grande industria venne ancora postposta, rimandata. Il burocratismo come eredità dello ‘stato d’assedio’, come sovrastruttura della piccola produzione frazionata e prostrata, si palesò interamente.”31
La Nep era quindi una misura difensiva che però non poteva che aggravare i rischi di burocratismo, andando a consolidare il potere dei kulaki. L’unica possibilità di contrastare questo processo risiedeva in un fattore a cui Lenin e Trotskij attribuivano una valenza vitale, anche nelle considerazioni di strategia militare, e già da prima di prendere il potere: l’estensione della rivoluzione nei paesi a capitalismo avanzato. La rivoluzione tedesca del novembre 1918 determinò il ritiro delle truppe tedesche dall’Ucraina, ma quel processo rivoluzionario rifluì sotto il dominio della socialdemocrazia che lo schiacciò e ne assassinò i dirigenti. Per quanto i successi dell’Armata rossa insieme alla determinazione delle masse operaie e, almeno in una prima fase, contadine, riuscirono a rompere l’accerchiamento militare, l’isolamento politico della rivoluzione la condannò ad un altro tipo di accerchiamento, quello economico da parte del capitalismo mondiale.
Mentre la rivoluzione vinceva sul piano militare, il suo isolamento politico, aggravato dalla situazione economica ereditata dalla guerra, poneva le basi per la controrivoluzione politica che nel giro di alcuni anni trasferì completamente il potere dal proletariato alla burocrazia stalinista.
Alcune considerazioni finali
Quanto scritto in queste pagine ha cercato di mettere in luce come la natura sociale e politica della guerra civile fosse prevalente rispetto a qualsiasi considerazione di carattere prettamente militare, se se ne vogliono comprendere le dinamiche e gli esiti. I rapporti reciproci tra le classi e, al loro interno, tra l’avanguardia e la massa, e il modo in cui questi cambiarono furono decisivi nell’andamento della guerra e di conseguenza per le sorti della rivoluzione.
Se c’è comunque una traccia indelebile che l’esperienza di quegli anni di rivoluzione, di controrivoluzione e di guerra ci lascia, è la consapevolezza, a dispetto di ogni possibile sentimento di scetticismo e sfiducia, che l’istinto di classe delle masse diseredate – che allora fu in grado di sconfiggere, in condizioni inenarrabili, la santa alleanza del capitalismo mondiale contro il bolscevismo – è il motore più potente della storia.
Note
1. In Histoire de la guerre civile russe 1917-1922, Tallandier, 2005, Jean-Jacques Marie riporta i seguenti dati circa i cospicui aiuti delle potenze straniere alle armate bianche: Krasnov ricevette dallo stato maggiore tedesco oltre 11mila fucili, 46 cannoni, 99 mitragliatrici, oltre 100mila granate, e oltre 11 milioni di cartucce (p. 62); Kolchak, in cambio delle riserve aurifere statali conquistate a Kazan dai cecoslovacchi, ottenne 600mila carabine, qualche centinaio di cannoni, diverse migliaia di mitragliatrici, munizioni, equipaggiamenti, uniformi dagli Stati Uniti; 200mila equipaggiamenti, 2mila mitragliatrici, 500 milioni di cartucce dalla Gran Bretagna; 30 aerei e oltre 200 automobili dalla Francia; 70mila carabine, 30 cannoni, cento mitragliatrici, munizioni e 120mila equipaggiamenti dal Giappone (ibidem, p. 98). A fronte di questi mezzi, Vatsevis, capo di stato maggiore dell’Armata rossa, nell’ottobre del 1918 riferiva che l’intero esercito aveva a disposizione 285mila baionette e sciabole (ibidem, p. 85).
2. Commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione, alla speculazione e al sabotaggio.
3. Le date che si riferiscono ad avvenimenti precedenti all’assunzione del calendario gregoriano al posto di quello giuliano (14 (1) febbraio 1918) sono riportate secondo il calendario gregoriano.
4. Capo militare cosacco.
5. Lenin, Rapporto sulla guerra e la pace, VII congresso del Partito comunista (bolscevico) della Russia, 6-8 marzo 1918, in Opere complete, Editori riuniti, 1967, vol. 27, p. 82.
6. Jean-Jacques Marie, Histoire de la guerre civile russe 1917-1922, cit., p. 80.
7. ibidem, p. 139.
8. ibidem, p. 133.
9. ibidem, p. 158.
10. ibidem, p. 95.
11. Non tutti i cosacchi combatterono con i bianchi durante la guerra civile, molti si unirono ai bolscevichi che garantivano loro l’autonomia. Il cosacco Mironov, ad esempio, nel gennaio 1918 si alleò con i rossi con la seguente dichiarazione: “Il partito dei socialisti popolari dice: ‘Noi daremo definitivamente terra, libertà e diritti tra cinquant’anni’, il partito degli Sr di destra ce li promette tra 35 anni, il partito degli Sr di sinistra tra venti, il partito dei socialdemocratici menscevichi tra dieci; solo il partito dei socialdemocratici bolscevichi dice: ‘Tutto al popolo lavoratore e tutto subito!’” (ibidem, p. 47).
12. ibidem, p. 58.
13. ibidem, p. 68.
14. Leon Trotsky, Comment la révolution s’est armée? Introduction à la 1ère partie: le chemin de l’Armée rouge, 21 mai 1922.
disponibile su https://www.marxists.org/francais/trotsky/oeuvres/1922/05/armee.htm.
15. Pierre Broué, La rivoluzione perduta, Vita di Trockij 1879-1940, Bollati Boringhieri, 1991, p. 220.
16. ibidem, p. 218.
17. Lenin, Tutti alla lotta contro Denikin!, Lettera del Cc del Pcr (bolscevico) alle organizzazioni del partito, in Opere complete, Editori riuniti, 1967, vol. 29, p. 415.
18. Jean-Jacques Marie, Histoire de la guerre civile russe 1917-1922, cit., p. 193.
19. Lenin, Tesi del Cc del Pcr (b) sulla situazione del fronte orientale, in Opere complete, Editori riuniti, 1967, vol. 29, p. 252.
20. Lev Trotskij, La mia vita, Oscar Mondadori, 1976, pp. 398-9.
21. Jean-Jacques Marie, Histoire de la guerre civile russe 1917-1922, cit., p. 163.
22. Lev Trotskij, La mia vita, cit., p. 402.
23. Lev Trotzki, Scritti militari, vol. 1, La rivoluzione armata, Feltrinelli, 1971, p. 556.
24. ibidem, p. 557.
25. Lev Trotsky, Military Writings, vol. 3 (1920), pp. 519-24, disponibile su www.marxists.org/ebooks/trotsky.
26. Lev Trotsky, Hue and cry over Kronstadt, in Writings of Leon Trotsky 1937-38, Pathfinder Press, 1970, p. 137.
27. Jean-Jacques Marie, Histoire de la guerre civile russe 1917-1922, cit., p. 236.
28. ibidem, p. 221.
29. ibidem, p. 221.
30. Nel suo saggio Storia dei soviet 1905-1921, Laterza, 1972, che non si distingue per simpatie filobolsceviche, Oskar Anweiler scrive su Kronstadt: “L’idea dei consigli, pervertita e logorata dai bolscevichi (…), celebrò la sua resurrezione in Kronstadt assediata. Ma non poté incendiare tutta la Russia. L’eco degli avvenimenti di Kronstadt restò perciò relativamente debole; solo alcuni club anarchici a Mosca e a Pietroburgo distribuirono manifestini in cui si invitava ad appoggiare gli insorti di Kronstadt” (pp. 468-9).
31. Lenin, Sull’imposta in natura (Importanza della nuova politica e sue condizioni), in Opere complete, Editori riuniti, 1967, vol. 32, p. 331.
*Le traduzioni delle citazioni dei testi in lingua originale sono a cura dell’autrice.