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6 Febbraio 2017Guerra nei Balcani. La lotta all’imperialismo e la difesa del diritto all’autodeterminazione dei popoli
di Alessandro Giardiello
Le ragioni storiche della polveriera balcanica
Verso l’anno 1000 il Kosovo era una regione contesa da serbi e bulgari; nel 1018 venne conquistato dall’Impero d’Oriente, ma dopo numerose guerre i serbi lo riconquistarono trasferendo lì il cuore dello Stato, fino alla battaglia di Kosovo Polje (1389), che vide sconfitto l’esercito serbo e che aprirà ai turchi le porte dei Balcani per oltre mezzo millennio. Gli equilibri etnici rimarranno gli stessi per secoli fino alla fine del 1600 quando fallì l’offensiva turca contro la città di Vienna. I serbi, alleati degli austriaci, fuggirono dal Kosovo per timore di rappresaglie, lasciando via libera ai popoli dell’Albania settentrionale che emigreranno nella regione occupando le pianure abbandonate dai serbi. Il grosso dell’immigrazione albanese nel Kosovo avverrà tra la metà del XVIII secolo e la metà del XIX.
I movimenti rivoluzionari borghesi del XIX secolo, in Germania, in Italia e in Ungheria risvegliarono anche nei Balcani i sentimenti nazionali delle diverse etnie che si proponevano di unificare i territori abitati dai propri connazionali. La mescolanza delle popolazioni rese però impraticabile ridisegnare i Balcani secondo l’appartenenza etnica, dando un carattere reazionario alle pretese di chi si proponeva di riunificare la “Grande Serbia”, piuttosto che la “Grande Grecia”, la “Grande Bulgaria”, la “Grande Romania”.
Solo gli albanesi tenteranno di ottenere l’indipendenza, non dichiarando guerra ai turchi, ma seguendo la via diplomatica e limitandosi a rivendicare una semplice autonomia all’interno dell’Impero Ottomano. Prevarrà, come si vedrà anche in seguito, un sentimento di debolezza, proprio della classe dirigente albanese, incapace di conseguire l’indipendenza sulla base delle proprie forze, che trasformerà l’Albania in un “protettorato permanente”, prima dei turchi, poi degli austriaci, in seguito (tra le due guerre mondiali) dell’Italia fascista, oggi ancora dell’Italia “democratica” (per l’Albania) e della Nato (per il Kosovo). L’idea che la liberazione dall’oppressione di Milosevic possa essere conseguita da una potenza straniera, idea fatta propria dall’Uck, ha quindi tradizioni radicate nella stoltezza della classe dominante albanese. Anche la burocrazia stalinista di Enver Hoxha, che giunse al potere nel dopoguerra, non fu diversa in questo: l’Albania fu prima strumento della burocrazia dell’Urss contro Tito e in seguito di Mao nello scontro cino-sovietico.
Le guerre balcaniche nel 1912-13 cambiarono le carte in tavola; la sconfitta dei turchi nel 1911 contro l’Italia indebolì lo Stato ottomano, il che diede la possibilità agli Stati balcanici di riconquistare i territori persi in precedenza.
La Serbia, il Montenegro, la Bulgaria e la Grecia si allearono contro l’Impero che sconfissero nel marzo del 1913. La divisione nel fronte dei vincitori sulla spartizione delle terre conquistate permetterà ai turchi di rivalersi su una parte delle terre perdute. La Serbia riuscirà così a riconquistare il Kosovo, dove invierà un certo numero di coloni, opportunamente incentivati.
Nel trattato di Versailles, le potenze vincitrici della prima guerra mondiale (Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti) si spartirono il bottino, concedendo qualche osso da rosicchiare ai piccoli paesi disposti a sottomettersi all’imperialismo. Fu in quella occasione che il presidente Usa, Woodrow Wilson, proclamò il principio di “autodeterminazione nazionale”, come mezzo per balcanizzare l’Europa, assicurandosi la dipendenza di alcune potenze minori.
La Romania annesse la Transilvania ungherese e una parte del Banat, come pure la Bessarabia dalla Russia e la Bukovira dall’Austria. La Jugoslavia fu costituita dall’unione della Serbia-Montenegro con gli ex territori austro-ungarici di Croazia, Slovenia, Dalmazia, Bosnia-Erzegovina, Slavonia, Vojvodina e una parte del Banat. I nuovi stati, creati da una pace predatoria, univano diverse etnie indipendentemente dalla loro volontà. Si preparavano così nuove guerre e nuovi conflitti nazionali. Tutti questi stati erano sotto il giogo dell’imperialismo, governati da feroci dittature poliziesche o da monarchie feudali assolutiste.
I nazionalisti albanesi rivolsero il loro sguardo all’Italia; il ministro degli esteri di Mussolini, Galeazzo Ciano, usa la carta Kosovo e tentò di strumentalizzarla per far avanzare gli obiettivi di allargamento territoriale del regime fascista. Ecco un passaggio di Ciano scritto il 21 aprile 1939:
“Ho un colloquio con Shtylla, ex ministro d’Albania a Belgrado. Mi intrattiene soprattutto sul problema dei Cossovesi, cioè 850.000 albanesi fortissimi fisicamente, saldi moralmente, entusiasti all’idea di una Unione alla madre Patria. Pare che i serbi ne abbiano un terrore panico. Oggi non bisogna neppure lasciare immaginare che il problema attira la nostra attenzione: anzi, bisogna cloroformizzare gli jugoslavi. Ma in seguito bisognerà adottare una politica di vivo interessamento per il Cossovo: ciò varrà a tener vivo un problema irredentista nei Balcani che polarizzerà l’attenzione degli stessi albanesi e rappresenterà un pugnale piantato nel dorso della Jugoslavia“.
Nella seconda guerra mondiale, grazie alla sconfitta della Grecia e alla spartizione della Jugoslavia, l’Italia riuscì a porre il Kosovo sotto il proprio controllo. I serbi furono costretti a fuggire. Quando l’8 settembre 1943 Badoglio firma la pace, la dominazione italiana viene sostituita dall’esercito tedesco.
La guerra di liberazione jugoslava
Contro la brutale occupazione nazista, iniziata nell’aprile del 1941, si organizzarono i partigiani di Tito. Il 21 ottobre del 1941, una rivolta a Kragujevac venne repressa nel sangue. I nazisti uccisero in un solo giorno oltre 7.000 cittadini. I nazifascisti formarono in Croazia un governo fantoccio che fece strage di serbi, ebrei e zingari.
La resistenza jugoslava era composta da decine di migliaia di partigiani di tutte le nazionalità; la guida del movimento era nelle mani dei comunisti, che però per volere di Stalin conducevano la lotta solo in chiave antifascista, non proponendosi come obiettivo la lotta immediata per il socialismo.
Nell’agosto ‘44 Tito incontrò Churchill a Napoli e gli assicurò di non voler instaurare un regime comunista in Jugoslavia. Nell’ottobre Churchill si recò a Mosca e si accordò con Stalin per la spartizione dei Balcani, che sarebbero stati così ripartiti:
Romania: 90% alla Russia, 10% alleati
Bulgaria: 75% alla Russia, 25% alleati
Grecia: 10% alla Russia, 90% Gran Bretagna (in accordo con gli Usa)
Jugoslavia e Ungheria spartite a metà tra Russia e alleati
Sulla base di questo cinico accordo, Stalin diede carta bianca alla Gran Bretagna per reprimere la resistenza greca egemonizzata dai comunisti e lasciò aperta la strada all’ingresso della Gran Bretagna in Jugoslavia. Purtroppo per Stalin e per Churchill le cose andarono diversamente. La stessa dinamica della guerra di liberazione spinse i partigiani di Tito ad espropriare in un primo momento i beni dei collaborazionisti del nazismo e in seguito a nazionalizzare le industrie, le banche e a iniziare la riforma agraria.
Così facendo venne abbattuto il capitalismo e si formò uno stato operaio deformato frutto di un processo rivoluzionario dal carattere profondamente distorto. Tito in Jugoslavia come Dimitrov in Bulgaria manovrarono tra le classi instaurando Stati totalitari e monopartitici sul modello del regime stalinista dell’Urss, dove i lavoratori non avevano alcun potere politico e dove una burocrazia totalitaria concentrava nelle proprie mani tutto il potere.
Lo scontro con Mosca e la politica dell’autogestione operaia
La formazione di uno Stato “socialista” in Jugoslavia non era contemplata dagli accordi di Yalta voluti da Stalin. Questo aprì uno scontro tra Mosca e Belgrado. Tito non si sottomise ai voleri di Mosca in quanto era capo dell’unico paese del blocco orientale, dove la liberazione dai nazisti non avvenne per opera esclusiva dell’Armata Rossa, ma come risultato della vittoria militare che i partigiani avevano inflitto sul campo all’esercito nazista.
Il presidente jugoslavo era dunque al comando di un apparato dello Stato (“corpo di uomini armati”, secondo la sintetica definizione di Engels) che poteva contrapporsi all’Armata Rossa. Questo, a differenza degli altri paesi dell’Europa dell’Est, diede una certa indipendenza a Belgrado dalla burocrazia sovietica. Il programma di Tito, comunque, non si discostava dall’idea staliniana del “socialismo in un paese solo”: la volontà di indipendenza da Mosca era dettata proprio dal bisogno di difendere gli interessi nazionali della burocrazia di cui lui era a capo.
Su questa base si sviluppò la proposta della “Federazione socialista dei Balcani”, che nei piani di Tito non rappresentava un’unione fraterna tra stati socialisti basati sulla democrazia operaia, ma una sorta di alleanza nei Balcani da opporre alla casta burocratica di Mosca. Anche su basi burocratiche avrebbe avuto comunque un ruolo progressista perché permetteva una maggiore integrazione delle economie balcaniche.
Questa prospettiva andò in fumo a causa degli intrighi di Stalin, che ovviamente si oppose con tutte le sue forze all’idea della federazione. La Lega dei Comunisti di Tito fu accusata di “revisionismo” e la Jugoslavia fu tagliata fuori dagli scambi commerciali del COMECON; il che costrinse la burocrazia a cercare nell’Occidente uno sbocco per le proprie merci.
Nel congresso del 1952 della Lega dei comunisti jugoslavi (Lcj), gli economisti di Belgrado svilupparono una serie di teorie tese a dimostrare come l’introduzione di elementi di capitalismo nell’economia pianificata avrebbe rappresentato un passo in avanti verso la costruzione del socialismo. Il sistema sovietico venne definito “capitalismo di Stato” e si individuò nella proprietà statale dei mezzi di produzione la causa di tutti i mali. Kidric, il principale economista di quei tempi sviluppò l’idea che si potesse dare via libera ai rapporti monetario-mercantili senza rinunciare alle “leggi fondamentali del socialismo”.
Così nel ‘53 si avviò la famosa campagna per l’autogestione operaia che in realtà rappresentava una concessione alle tendenze capitaliste e alla decentralizzazione dell’economia pianificata.
Si avviò una politica di divaricazione salariale, con stipendi legati alla produttività e ai “profitti aziendali”, che alla lunga provocò forti disparità di condizioni tra i lavoratori, avvantaggiando quegli operai che avevano la fortuna di essere impiegati nelle aziende dove si concentravano gli investimenti tecnologici dello Stato (di norma nel Nord del paese).
Il divario dei livelli di vita tra le ricche Slovenia e Croazia e le povere Macedonia, Montenegro e Kosovo si accentuarono e insieme alle pressioni del mercato mondiale innescarono quelle forze centrifughe che saranno alla base dello smembramento della Jugoslavia.
La politica economica di Belgrado provocò alla lunga iperinflazione e disoccupazione, oltre che una dipendenza dal Fondo monetario internazionale. Negli anni ‘60 e ‘70 i livelli di crescita economica nella Repubblica Jugoslava erano ancora rilevanti, ma a un certo punto il sistema entrò in crisi. Il delicato equilibrio costruito da Tito con la Costituzione jugoslava che sembrava aver relativamente appianato gli odi nazionali, con la crisi economica si incrinò. Le diverse burocrazie nazionali per mantenersi al potere deviarono il malcontento della popolazione contro le altre etnie e su questa base si servirono dello sciovinismo per mantenersi al potere e non essere rovesciate dalla classe operaia.
Tra l’86 e l’89 la classe operaia jugoslava si presentò sulla scena. L’applicazione da parte del Fondo monetario internazionale di una politica di rigore verso lo Stato jugoslavo, che era indebitato per oltre 20 miliardi di dollari, spinse Belgrado ad avanzare politiche di austerità, con tagli ai salari tra il 20 e il 50% e con un aumento delle tasse. Ci fu un’ondata di mobilitazioni iniziate a Zagabria che poi si estesero a Spalato, Fiume, Pola, Zara, Karlovac e subito dopo in Slovenia, Serbia, Bosnia, Kosovo.
Quella mobilitazione della classe in chiave antiburocratica e anticapitalista non trovò una forza organizzata in grado di dirigerla, in parole povere non esisteva in Jugoslavia un partito che potesse dotare il movimento di un programma e di una strategia rivoluzionaria. Il movimento in assenza del fattore soggettivo sfumò e aprì la strada alla rincorsa nazionalista che Milosevic seppe interpretare magistralmente iniziando nell’89 la repressione contro gli albanesi del Kosovo.
Allo stesso modo i dirigenti sloveni e croati concordemente con l’imperialismo, usarono la carta del nazionalismo, preparando le condizioni per la guerra che si sviluppò tra il ‘91 e il ‘95 e che fu interrotta temporaneamente dagli accordi di Dayton. Dei fatti che si sono prodotti in quegli anni abbiamo già dato un esposizione esauriente nel documento pubblicato dalla redazione di Falcemartello nel settembre del ‘95: Jugoslavia: una tragedia annunciata, a cui rimandiamo i nostri lettori.
Gli effetti della restaurazione capitalista in Jugoslavia
Lo smembramento della ex-Jugoslavia e la nascita della Slovenia, della Croazia e della Bosnia sono il frutto delle politiche economiche avanzate dal Fondo monetario internazionale alla fine degli anni ‘80. Con il ricatto del debito estero, il F.M.I. impose alla Jugoslavia una politica di austerità e di liberalizzazione economica. Il governo svalutò la moneta e accettò di trasformare le aziende “autogestite” in aziende capitaliste.
Questo aprì la strada a una privatizzazione dei settori più importanti dell’economia e il fallimento delle aziende meno produttive (guarda caso le prime erano quasi tutte al Nord, le seconde quasi tutte al Sud). Il governo varò tra l’88 e l’89 tutta una serie di leggi che toglievano ogni limitazione alla penetrazione del capitale straniero (che si appropriò a prezzi stracciati delle migliori aziende pubbliche) e che permettevano di dichiarare il fallimento delle aziende non produttive. Fallirono così migliaia di aziende che provocarono quasi un milione di licenziamenti. Anche il sistema bancario venne smantellato, togliendo al governo il controllo della leva monetaria.
Belgrado non fu più in grado di inviare alle Repubbliche autonome le rimesse avendo le casse completamente vuote. Le repubbliche più ricche non volevano sostenere il peso di quelle più povere e di fatto si determinò una secessione economica che preparò la strada a quella politica.
Lubiana e Zagabria erano già sotto l’orbita tedesca e integrate nell’area del marco, prima che si dichiarasse la loro separazione da Belgrado. Non fu un caso che proprio la Germania (insieme al Vaticano) fu il primo paese a riconoscere gli stati sloveno e croato.
Con l’introduzione del mercato le cose sono molto peggiorate in tutta la ex-Jugoslavia e in Serbia in particolare. Il reddito pro capite ha subìto una drastica riduzione da 3300 dollari nell’89 a 1400 nel ‘97. Un’inflazione a tre cifre è stata provocata dalla politica del governo che nel ‘90 ha confiscato i conti in divisa dei privati, e nel corso degli anni ‘90 ha svalutato il dinaro a più riprese. Nel ‘98 il deficit della bilancia commerciale era di 2 miliardi di dollari e il debito estero ammontava a 15 miliardi di dollari.
La Serbia, sotto la direzione di Milosevic, è andata molto avanti sul terreno delle privatizzazioni. Secondo le fonti del governo serbo, nel ‘96 l’industria apparteneva per il 44% al settore privato e per il 14% al “settore sociale”. La disoccupazione già prima dell’inizio della guerra era al 34%.
I lavoratori con la restaurazione del capitalismo hanno ottenuto solo guerra, massacri, distruzioni, disoccupazione e fame. Una minoranza di ex burocrati si è arricchita sulla pelle dei lavoratori vendendo al capitale internazionale le ricchezze dello Stato, ma la gran parte della popolazione ha visto solo arretrare le proprie condizioni di vita.
Lo smembramento della vecchia Repubblica Jugoslavia iniziato nel ‘91, ha avuto un ruolo reazionario proprio perché ha facilitato la penetrazione del capitale internazionale trasformando gli stati balcanici in colonie dell’imperialismo, abolendo la pianificazione economica che, nonostante gli sprechi della burocrazia e l’assenza di democrazia operaia, aveva permesso uno sviluppo delle forze produttive senza precedenti.
Divisioni nel fronte Nato
La “missione umanitaria” aveva obiettivi economici e politici molto precisi. In Kosovo non c’è petrolio come in Kuwait, ma la zona ha un’importanza strategica, perché è situata sul cosiddetto corridoio n°8, il progetto che il F.M.I. ha finanziato con miliardi di dollari per la realizzazione di oleodotti, gasdotti e altre vie di trasporto che uniscono l’Adriatico con il Mar Nero; inoltre i Balcani sono una zona di collegamento con le risorse energetiche delle repubbliche asiatiche ex-sovietiche.
Ci sono aziende americane che hanno investimenti nella zona (Tenneco Gas, AT&T, Hewlett Packard, Ibm, Microsoft, Mobil, Texaco, ecc.) ma la parte del leone in questi anni l’hanno fatta Germania e Italia.
A differenza di quello che si possa pensare, l’Italia non ha un ruolo secondario nei Balcani, ma è una forza imperialista di primaria importanza. Ci sono importanti investimenti dell’industria tessile, delle calzature, della meccanica e delle telecomunicazioni. Nel ‘97 la Telecom (con la Ote greca) aveva acquistato il controllo della Telecom serba. La Fiat aveva accordi di coproduzione con la Zastava e sia l’Eni, che l’Enel erano impegnate rispettivamente nella costruzione di gasdotti e di centrali idroelettriche.
Ma la maggior parte degli investimenti del capitale italiano (circa il 90%) sono di piccole e medie imprese, soprattutto del nordest. L’interscambio commerciale italo jugoslavo era nel ‘98 di 800 milioni di dollari. Queste aziende hanno visto nella guerra un ostacolo ai propri affari, perché i bombardamenti hanno distrutto industrie, reti di telecomunicazioni, infrastrutture.
Le grandi aziende verranno indennizzate con la ricostruzione (alla Telecom è stata assegnata dalla Nato la costruzione di una rete di fibre ottiche tra Tirana e Kukes per un valore di 210 miliardi di lire) ma molte piccole aziende hanno visto sfumare i capitali investiti.
Se ci fosse stato un intervento di terra il disastro economico sarebbe stato anche peggiore. Non sorprende dunque che Italia e Germania fossero favorevoli all’iniziativa di Chernomyrdin. Gli Usa invece avevano tutto l’interesse a ridimensionare il ruolo delle due potenze europee, ribadendo la loro egemonia in un momento in cui l’unificazione europea è in procinto di mettere in discussione l’esistenza di un solo “gendarme” nel mondo.
Colpire la Serbia serviva inoltre a Clinton per dimostrare a tutti i paesi coloniali a quali pericoli va incontro chi non si sottomette alla volontà americana. Hanno tentato di dare una dimostrazione di forza e in 48 ore pensavano di piegare Milosevic, ma le cose non sono andate proprio come si aspettavano.
In primo luogo perché in Serbia il popolo si è compattato attorno al governo e non aveva nessuna intenzione di cedere, mentre in Occidente, nonostante la propaganda martellante, le posizioni di appoggio all’intervento bellico hanno attecchito in misura inferiore sui lavoratori di quanto non si sia visto in passato, ad esempio nella Guerra del Golfo.
Poi sono iniziati i problemi con la Russia e la Cina, sempre più insofferenti nei confronti dell’arroganza americana e delle dichiarazioni altisonanti della signora Albright e del generale Clark.
In Russia l’odio contro la Nato e in particolare contro gli americani è giunto a un punto mai visto. Chernomyrdin ha minacciato gli americani dalle pagine del Washington Post di rompere tutte relazioni con gli Usa. Decine di migliaia di giovani erano disposti ad andare a combattere a fianco dei loro fratelli slavi e i militari erano inferociti dall’umiliazione che gli Usa volevano dare alla Russia. La realtà è che se Eltsin non avesse assecondato chi nell’apparato civile e militare non era disposto ad inginocchiarsi ai piedi della Nato, avrebbe rischiato di mettere a repentaglio la sua stessa sopravvivenza politica. Le elezioni in Russia sono dietro l’angolo e la situazione nel paese è così tesa che un atteggiamento di sottomissione verso gli Usa avrebbe anche aperto la strada a chi tra i militari ragiona di imporsi con un colpo di stato.
L’entrata trionfale dei militari russi a Pristina dimostra fino a che punto l’imperialismo rischia grosso con la Russia. Infatti hanno trattato la vicenda con il massimo tatto, ma ciò dimostra che i tempi in cui gli Usa potevano fare qualsiasi cosa con il sostegno della Russia sono finiti.
È vero che la Russia ha bisogno dei soldi dell’Occidente, ma, a parte che di soldi non è che ne siano arrivati poi così tanti, il F.M.I. li ha sempre prestati a condizioni che non facevano che peggiorare l’andamento economico del paese.
Non sorprende che nella nuova borghesia russa ci sia chi oggi pensi a risolvere i problemi economici con una classica politica di aggressione imperialista, che obiettivamente si porrebbe in concorrenza con gli Usa.
Lo stesso vale per la Cina: da una parte Pechino ha bisogno delle credenziali Usa, per aderire al Wto (l’organizzazione del commercio mondiale), ma dall’altra bisogna dire che le condizioni americane stanno facendo pagare a Pechino un prezzo salato. La scorsa estate la Cina, sottoposta alle pressioni di Clinton, ha accettato di non svalutare la propria moneta quando tutti i paesi nel Sud-est asiatico svalutavano le loro monete anche della metà. Non svalutando lo yuan, come ha ammesso lo stesso Camdessus, la Cina ha evitato che la crisi del Sud-est asiatico trascinasse l’intera economia mondiale nel caos, ma i prodotti cinesi hanno perso di competitività, la Cina ha visto calare la crescita della propria economia e questo ha provocato enormi tensioni nella popolazione che ha visto peggiorare notevolmente le proprie condizioni di vita. Quando poi i cinesi si sono visti bombardare l’ambasciata di Belgrado, gesto chiaramente intimidatorio, la rabbia della burocrazia, oltreché della popolazione è esplosa. La Cina con la sua astensione alla risoluzione del Consiglio di sicurezza ha inviato un messaggio molto chiaro a Clinton. Gli Usa non possono non tener conto dell’opinione di Pechino.
Di fatto si è creata un’alleanza contro gli Usa, che vede uniti la Russia, l’Europa (eccetto la Gran Bretagna) e la Cina. Se ci fosse stato l’intervento di terra, questo, invece di dividere il fronte anti-Usa, lo avrebbe rafforzato. Si sono dovuti fermare e fare un passo indietro, perché le conseguenze di un intervento sarebbero state peggiori del male che volevano curare.
Intervento “umanitario”?
L’imperialismo non ha rispettato neanche una parvenza di legalità internazionale. I raid sono partiti senza l’autorizzazione dell’Onu e senza il mandato dei parlamenti dei paesi direttamente impegnati nel conflitto. D’altra parte non avevano scelta considerando che Russia e Cina, in sede di Consiglio di sicurezza, non avrebbero avallato le posizioni della Nato.
Kofi Annan non li ha comunque privati della sua benedizione, dimostrando l’inconsistenza dell’organismo che presiede e degli argomenti di quei “pacifisti” che ogni volta che inizia un massacro chiedono l’intervento dell’Onu.
I Governi occidentali hanno giustificato l’intervento dicendo che era necessario fermare i massacri attuati da Milosevic contro gli albanesi, quando era evidente che l’aggressione imperialista dava il via libero a Milosevic per attuare una “pulizia etnica” senza precedenti contro gli albanesi. I raid contro i civili e l’industria più che indebolire il dittatore serbo lo rafforzavano, come si era già visto in Iraq con Saddam Hussein.
I “bombardamenti umanitari” non ci hanno privato delle loro letizie, dell’assassinio indiscriminato di popolazioni inermi, serbe e albanesi. Sono stati bombardati i quartieri operai di Belgrado e i convogli di profughi kosovari, con la precisa idea di intimidire le popolazioni e impedire ogni reazione allo strapotere dell’imperialismo.
L’obiettivo non era solo quello di piegare la Serbia, ma di dare un messaggio molto chiaro a tutte le popolazioni balcaniche: non ci si può sottrarre alla legge del più forte, l’unica strada che avete è accettare il dominio della Nato! Hanno così distrutto un paese e massacrato migliaia di civili, lasciando in condizioni di vita precarie milioni di persone.
Gli imperialisti avevano tanto a cuore la causa dei kosovari e desideravano così tanto che tornassero nelle loro case che hanno pensato bene di cospargere l’intero territorio di bombe a grappolo che provocheranno altri morti e che renderanno estremamente difficoltoso il rientro dei kosovari, ammesso che abbiano un interesse a rientrare in una regione distrutta dai bombardamenti e dove non esistono più le loro abitazioni. Si pensi che le bombe utilizzate sono molto simili a quelle usate in Vietnam, dove ancora oggi a 26 anni dal conflitto, c’è gente che ogni giorno muore o resta mutilata calpestando i campi minati.
La Nato ha riconosciuto che nel conflitto sono state usate anche bombe all’uranio impoverito, come quelle usate nel Golfo. Hanno così contaminato la Serbia e il Kosovo di rifiuti radioattivi che in Iraq, specialmente nella zona di Bassora, hanno provocato centinaia di migliaia di casi di cancro, di leucemia e di malformazioni alla nascita.
L’accordo di pace siglato il 2 giugno e quello proposto a Rambouillet
Oggi la propaganda imperialista sostiene che Milosevic ha accettato le stesse condizioni che aveva rifiutato a Rambouillet e che se avesse firmato 78 giorni fa non ci sarebbe stata una guerra. Ma in questa storiella non c’è un briciolo di verità.
Negli accordi di Rambouillet la Nato pretendeva di separare il Kosovo dalla Jugoslavia; infatti nell’articolo 8 appendice B, c’era scritto non solo che le truppe Nato (e non Onu) avrebbero potuto occupare il Kosovo, ma che avrebbero potuto “passare liberamente, senza restrizioni e senza limitazioni d’accesso, attraverso la Repubblica Federale di Jugoslavia… Questa disposizione include (senza limitarsi solo a questo) il diritto di utilizzare qualsiasi area o ciò che è necessario per aiuti, addestramento e per operazioni”. Inoltre l’articolo 10 prevedeva il libero accesso per la Nato alle strade, ai porti e aeroporti della Jugoslavia. In poche parole stavano chiedendo al governo di Milosevic di rinunciare alla propria sovranità e di metterla nelle mani degli imperialisti.
Di fatto la Nato pretendeva non solo di separare il Kosovo dalla Serbia, ma di occupare militarmente l’intero territorio jugoslavo (Serbia e Montenegro inclusi) trasformando la Repubblica jugoslava in uno stato coloniale degno del XIX secolo. Erano condizioni inaccettabili e infatti sono state pensate proprio perché non fossero accettate dalla Jugoslavia. L’obiettivo degli Usa era di bombardarli comunque.
A Rambouillet era previsto dopo 3 anni un referendum che avrebbe deciso del futuro del Kosovo. Di questo referendum nei nuovi accordi non c’è più traccia e l’integrità territoriale della Jugoslavia non viene messa in discussione. A comporre le “forze di pace” non c’è un contingente Nato, bensì un contingente Onu, cosa non irrilevante visto che tutto fa pensare che i russi non si sottoporranno a un comando unificato.
Gli Usa hanno fatto di tutto per mettere i russi sotto il proprio comando, ma hanno dovuto desistere quando i generali russi, in accordo con Milosevic, sono entrati dalla Serbia in Kosovo occupando l’aeroporto di Pristina.
Lo smacco subìto dagli Usa è evidente, non hanno potuto evitare che i primi ad entrare in Kosovo fossero i russi, accolti dall’entusiasmo della popolazione, mentre i marines erano bloccati dai manifestanti nel porto di Salonicco in Grecia.
Inoltre nel nuovo accordo è previsto un numero non ancora quantificato (si parla di 10mila soldati) di militari serbi che stazioneranno in Kosovo, non solo ai confini ma anche all’interno del paese, con la scusa di difendere i santuari ortodossi.
Non si può certo dire che gli Usa abbiano vinto questa guerra, aldilà di quanto viene spacciato nei mass-media occidentali; la verità è che non hanno piegato la Serbia (lo si vedeva anche dall’entusiasmo delle truppe serbe in ritirata dal Kosovo) e che l’imperialismo ha mostrato la sua incapacità ad imporre nella realtà la superiorità tecnologico-militare che avrebbe sulla carta.
La “vittoria di Pirro” dell’imperialismo
Come era prevedibile, i piani di Clinton e della signora Albright erano troppo ottimisti, la popolazione serba ha dimostrato una forte volontà di resistere contro l’aggressione, nonostante la violenza dei raid e il livello di distruzione delle basi produttive del paese.
Come insegna la scienza militare, era impensabile che la Nato piegasse la Repubblica Jugoslava solo sulla base dei bombardamenti aerei, per quanto massicci fossero. Dopo solo due settimane dagli inizi dei bombardamenti la strategia della Nato era già entrata in crisi e le divisioni tra gli imperialisti erano emerse con chiarezza.
Da una parte c’erano gli angloamericani che volevano esacerbare lo scontro inviando le truppe di terra, dall’altra Italia, Germania e fino a un certo punto la Francia che cercavano la strada dell’accordo. Si trattava ovviamente di posizioni dettate da interessi diversi. Un intervento di terra avrebbe infatti colpito gli interessi economici della borghesia tedesca e italiana. Questo non significa che l’imperialismo italiano o tedesco sia più pacifista di quello Usa: se domani i suoi interessi lo spingessero nella direzione di fare nuove guerre non esiterà a farle.
Gli Usa erano però preoccupati dagli esiti della guerra. Uno stratega militare americano aveva calcolato che in un intervento di terra, su un terreno montagnoso, favorevole per chi difende e contro un esercito addestrato, da anni impegnato in combattimenti di guerriglia ed estremamente motivato, le perdite della Nato sarebbero state dell’8%. Ipotizzando che fossero bastati 200mila uomini (numero peraltro insufficiente) era possibile perdere più di 15mila uomini (tra morti e feriti).
Non c’era nessuna certezza di vincere per l’imperialismo; nonostante la superiorità sul terreno tecnologico potevano essere sconfitti come avvenne nel Vietnam. Che reazione avrebbe comportato in Europa e negli Usa uno scenario del genere?
Come spiegavamo nell’articolo “Quale via d’uscita dalla crisi nei Balcani” su Falcemartello n°132, a cui rimandiamo i lettori, era quindi probabile che la linea Albright-Blair venisse battuta dalla linea Chernomyrdin-Schroeder-D’Alema.
Gli Usa dovevano accettare una mezza sconfitta (anche se è stata presentata come una grande vittoria e una resa di Milosevic) per non pagare un prezzo ancora più alto. Hanno dovuto accettare una mediazione con la Russia e tollerare una divisione delle responsabilità nel contingente tenuto a garantire la “pace” nel Kosovo, su cui Clinton aveva dichiarato di non essere disposto a trattare.
Sulla base di un accordo, l’Uck è stata scaricata, l’imperialismo, che ha strumentalizzato la causa albanese per i propri fini, non si è preoccupato di tradire i kosovari, che come si è visto servivano solo come pretesto per intervenire contro la Serbia.
Dal giorno dopo l’accordo, i profughi del Kosovo che sbarcheranno sulle coste italiane torneranno ad essere dei clandestini da reprimere e ci si dimenticherà di loro, come di ogni “missione umanitaria” su cui si è particolarmente distinto il governo italiano con l’operazione Arcobaleno: una politica ipocrita che, dopo aver favorito un esodo di massa e provocato massacri, si impegna a dar da mangiare ai poveri profughi.
Con la scusa dell’aiuto umanitario si giustifica la presenza di militari, che provocheranno nuove guerre, aumentando l’instabilità nei Balcani. Anche le cosiddette associazioni non governative, magari di matrice pacifista che organizzano gli aiuti per i profughi, devono essere viste dai lavoratori con il massimo scetticismo. Come è stato documentato da più fonti tra cui il Manifesto, in più di un occasione queste associazioni sono state scoperte a trasportare armi, insieme a medicinali e alimentari.
I popoli balcanici non hanno bisogno di questi aiuti, l’unico aiuto che possono ricevere dall’imperialismo è che questo esca dai Balcani, in quanto principale responsabile dei massacri e degli scontri etnici, insieme alla vecchia burocrazia ex-stalinista che recentemente si è riciclata in una nuova borghesia corrotta e nazionalista. Ma questo è un compito che spetta ai lavoratori e ai popoli dei Balcani, con il sostegno della classe operaia a livello internazionale.
La Serbia non è sconfitta
Il popolo serbo ha visto questa guerra contro la Nato come una vera e propria guerra di liberazione nazionale e non a torto, visto che l’imperialismo, dopo aver provocato la secessione di Slovenia, Croazia, Bosnia e Macedonia, si sta adoperando per smembrare ciò che resta della ex Jugoslavia (Kosovo, Montenegro e Vojvodina ungherese).
La ragione per cui questo avviene non è perché Milosevic sia un dittatore sanguinario che opprime le minoranze nazionali, cosa che è senz’altro vera. Con lui hanno fatto accordi commerciali e gli hanno venduti armi accorgendosi che era un mostro solo quando gli faceva comodo.
A questo proposito preme ricordare che per noi marxisti, Milosevic è sempre stato un nemico, a differenza degli imperialisti che a Dayton lo hanno legittimato come “uomo garante della pace” abbiamo sempre denunciato le atrocità di cui si è macchiato il dittatore serbo contro gli altri popoli e contro i lavoratori della stessa Serbia. Ma allo stesso tempo abbiamo sottolineato come anche da parte croata e musulmana c’erano bande di delinquenti fascisti che commettevano atrocità contro i serbi. Milosevic non è l’unico mostro della zona, ci sono anche Tudjman, Izetbegovic che non sono meno di lui.
Gli Usa sostengono finanziariamente e militarmente governi e dittatori, che reprimono minoranza etniche e religiose e che occupano militarmente altri territori; si pensi, solo per fare alcuni esempi, alla Turchia, Israele, Indonesia, Afghanistan, Pakistan, Colombia; regimi in certi casi ben più sanguinari di Milosevic, ma che a differenza di Belgrado hanno il pregio di piegarsi alle volontà dell’imperialismo.
La gran parte del popolo serbo non ama Milosevic, ma nella lotta contro l’imperialismo, i lavoratori serbi, parafrasando una famosa frase di Lenin, “avrebbero appoggiato il loro fucile sulla spalla di Milosevic” per sconfiggere la Nato.
Solo una sconfitta della Nato poteva creare le premesse perché i lavoratori serbi uniti agli albanesi del Kosovo potessero rovesciare in un secondo momento il proprio dittatore. L’esperienza irakena è lì a dimostrarlo, a 8 anni dall’intervento militare e con un embargo che ha provocato la morte di milioni di irakeni, Saddam Hussein è ancora lì al governo. L’interesse dei lavoratori dei Balcani, come di quelli occidentali, era che la Nato uscisse sconfitta da questa guerra. Se ci fosse stato l’intervento di terra, come volevano Blair e la signora Albright, la Serbia avrebbe resistito come un solo uomo e avrebbe messo in difficoltà la Nato, che avrebbe dovuto inviare più di 200mila uomini, se non di più, per diversi anni e senza alcuna garanzia di uscirne vittoriosi.
Secondo l’autorevole rivista militare Jane’s Defence Weekly, le affermazioni dei serbi secondo cui l’Uck era in grosse difficoltà contro l’esercito jugoslavo, sono più vicine alla verità di quelle dell’Uck secondo cui i serbi erano nello scompiglio più totale.
Per il settimanale americano, alla fine di maggio, l’Uck aveva solo 4.000 guerriglieri in Kosovo, confinati e circondati in 3 piccole aree. La maggior parte dei 20.000 combattenti di cui disponeva era dovuta fuggire in Albania. Il che dimostra come, nonostante il sostegno americano e il vantaggio di combattere sul proprio territorio, i combattenti kosovari non siano stati minimamente capaci anche solo di scalfire la forza di un esercito come quello serbo, ben equipaggiato, fornito di armi russe abbastanza moderne, ben addestrato ma soprattutto estremamente motivato a farla pagare cara agli invasori della Nato e ai loro alleati che avevano distrutto il loro paese e che tentavano di umiliarlo.
Avrebbero avuto la stessa motivazione i soldati europei e quelli Usa? A morire lontano da casa, per cosa? La Serbia, se Clinton fosse stato intransigente sulla strada dell’intervento di terra, poteva trasformarsi in un vero e proprio Vietnam. I marxisti non avrebbero avuto alcun dubbio nel dare il proprio sostegno al popolo serbo contro l’invasione dell’imperialismo e a lottare per la sconfitta della Nato. Il primo nemico dei lavoratori è in casa propria. I lavoratori italiani avrebbero dovuto mobilitarsi contro il proprio governo perché venisse sconfitto, contro ogni tentazione nazionalistica e patriottica.
L’Uck, un movimento reazionario
Per dare un’idea delle tendenze politiche che hanno preso il sopravvento nell’Uck, si pensi che il 13 maggio la Bbc inglese ha reso noto che l’Uck aveva messo a capo del proprio esercito un ex generale di brigata dell’esercito croato, Agim Ceku.
Ceku dal ‘91 ha preso parte a numerose battaglie contro i serbi in Croazia e in Bosnia, è stato decorato 9 volte da Tudjman e nel 1995 è stato uno dei pianificatori dell’operazione Tempesta, con la quale i croati hanno espulso oltre 350.000 serbi dal territorio croato. Insomma, uno “stratega” della pulizia etnica, che nulla ha da invidiare a Milosevic.
L’Uck è un movimento di origine “enverista” (dal nome del vecchio dittatore stalinista albanese, Enver Hoxha), che non ha mai goduto di grandi appoggi in Kosovo, fino a quando gli albanesi godevano di una certa autonomia e i lavoratori del Kosovo avevano un tenore di vita mediamente superiore a quello albanese.
Nel 1974, il Kosovo aveva ottenuto l’autonomia da Belgrado, che nel 1989 venne tolta da Milosevic, che applicò uno “stato di emergenza”, con la chiusura dell’università e delle scuole in lingua albanese, avviando una politica di odio nazionalista che discriminava gli albanesi, che, non dimentichiamolo, rappresentavano il 90% della popolazione kosovara.
In questo clima i leader moderati come Rugova persero terreno a vantaggio dell’Uck, che proponeva di separarsi da Belgrado ed unirsi a Tirana.
L’imperialismo Usa, dopo essersi garantito il sostegno incondizionato da parte dell’Uck, isolando gli elementi più critici come Demaqi, lo ha rifornito di soldi, armi e mercenari, perché iniziasse la guerra contro Belgrado, giustificando un intervento della Nato.
Quando Milosevic ha rifiutato le condizioni poste a Rambouillet, i capi dell’Uck hanno invitato la Nato a bombardare la Serbia, istigando a loro volta l’odio sciovinista, invitando gli imperialisti ad aggredire un altro popolo con le tragiche conseguenze che più di tutti hanno pagato proprio gli albanesi del Kosovo.
L’Uck che ha sempre civettato con il vecchio regime albanese di Sali Berisha, non ha sostenuto la Rivoluzione in Albania nel ‘97 e si è schierato già in quella occasione dalla parte dell’imperialismo, che cospirò contro la rivolta con l’aiuto dello stesso Berisha e della burocrazia del Partito socialista. I principali finanziatori dell’Uck sono dei ricchi albanesi che vivono negli Usa e in gran parte sostenitori del Partito Repubblicano.
Nell’Uck ci sono diverse frazioni, in scontro tra di loro. È probabile che l’accordo raggiunto e il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo facciano venir meno le ragioni che tenevano insieme il movimento, aprendo una vera e propria faida nell’Uck, tesa a determinare il dominio del movimento e, si presume, il futuro governo del Kosovo.
Si dice che l’Uck si dedichi al contrabbando di armi e di droga e che dietro di essa si muova la Mafia che ha ovviamente grossi interessi ad operare in quelle zone destabilizzate o dove esiste un’assenza di legalità.
In una parola l’Uck è un movimento reazionario (e in certi casi banditesco) che in combutta con la diaspora albanese in Usa e in Turchia ha come unica strategia (e questo già da prima che iniziassero le persecuzioni di Milosevic) quella di ottenere l’indipendenza con l’intervento dell’imperialismo. Pia illusione, a cui l’esperienza bosniaca può certamente insegnare qualcosa.
A più di tre anni dagli accordi di Dayton, la Bosnia è diventata un protettorato internazionale nel quale i minimi dettagli della vita quotidiana vengono decisi dall’Alto rappresentante della Comunità Internazionale, che risponde direttamente ai paesi imperialisti.
Secondo il vice dell’Alto rappresentante, l’americano Jacques Klein, in Bosnia non c’è nessun partito politico, nessun potere giudiziario indipendente, nessuna legge, nessuna attività economica degna di nota.
Anche allora c’era chi sosteneva l’autodeterminazione della Bosnia, come oggi in Kosovo; i risultati di un’indipendenza ottenuta grazie all’intervento dell’imperialismo Usa ed europeo sono sotto gli occhi di tutti: la Bosnia è un deserto economico, politico e sociale e gli abitanti non godono di alcuna sovranità; in Kosovo le cose non andranno molto diversamente. L’esperienza della Bosnia dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, come l’imperialismo non potrà mai liberare un popolo oppresso, ma solo provocare nuove e più spietate oppressioni. Anche i kosovari purtroppo dovranno imparare questa lezione sulla loro pelle.
Il movimento operaio e il ruolo delle socialdemocrazie
In questa guerra i dirigenti dei partiti socialisti in tutta Europa hanno dimostrato tutta la loro degenerazione politica e morale. Tony Blair, Schroeder, Jospin, D’Alema hanno mostrato alla borghesia la loro affidabilità e con il massimo dello zelo hanno condotto la guerra imperialista senza esitazioni, godendo oltretutto (con alcune importanti eccezioni come la tedesca Ig-Metall) del sostegno delle burocrazie sindacali che hanno tenuto a freno i lavoratori e li hanno convinti che ci si trovava di fronte a una “guerra giusta”.
Si può dire senza timori di sorta che oggi i principali fautori della formazione di un polo imperialista europeo da opporre agli Usa (lasciando fuori ovviamente Tony Blair che è legato a doppio filo a Washington) siano proprio i dirigenti socialdemocratici.
E qui si vede l’inconsistenza del riformismo di fronte alla crisi storica che attraversa il capitalismo. Questa guerra infatti è il sottoprodotto di una scarsa capacità di sviluppo delle forze produttive cui è giunto il capitalismo negli ultimi 25 anni.
Oggi la crisi assume forme ancora più nette, la lotta per la conquista dei mercati si realizza in una lotta spietata di cui la guerra diventa lo strumento per imporre le proprie merci e per conquistare nuovi mercati.
È incredibile come in questa logica imperialista siano cascati tutti quegli pseudopacifisti, come i Verdi e quei partiti comunisti che governano insieme alle socialdemocrazie, in Italia i Comunisti italiani di Cossutta, in Francia il Pcf di Robert Hue, che hanno sostenuto da sinistra l’intervento della Nato, dandogli una legittimità agli occhi dei lavoratori.
In Italia l’opposizione alla guerra nonostante tutto è stata forte (dopo la Grecia probabilmente l’Italia è stato il paese europeo dove più forte è stata la mobilitazione). Grazie anche all’opposizione di Rifondazione Comunista ci sono state due mobilitazioni di massa il 3 e il 10 aprile e altre decine di manifestazioni locali e nazionali. Tuttavia, a parte Massa Carrara, dove i lavoratori hanno fatto uno sciopero generale contro la guerra, che ha visto una partecipazione più alta delle manifestazioni del ‘94 contro Berlusconi, non c’è stata quella risposta che sarebbe stata necessaria da parte della classe operaia.
A un certo punto nel movimento operaio si stava facendo strada la proposta dello sciopero generale, ma appena un centinaio di Rsu hanno fatto circolare un appello in questo senso si è messa in moto la macchina dell’apparato sindacale che ha sabotato l’iniziativa.
Cofferati, D’Antoni e Larizza organizzavano manifestazioni di sostegno al popolo kosovaro e la direzione del Pds faceva un corteo “contro tutti i razzismi” il 24 aprile, che aveva chiaramente lo scopo di deviare la mobilitazione in chiave patriottica e di sostegno alla guerra con la scusa della “solidarietà” con gli albanesi oppressi.
Tuttavia, nonostante queste operazioni, il dissenso nelle fabbriche cresceva, lo sciopero era possibile, solo che tutto un pezzo della sinistra sindacale (di apparato) o formava Coordinamenti e iniziative in alternativa a quelle del Coordinamento Rsu o premeva sul Coordinamento delle Rsu per non dare un carattere politico alla mobilitazione contro la guerra e per non convocare lo sciopero generale.
Purtroppo la maggioranza dei delegati a capo del Coordinamento hanno capitolato di fronte a queste pressioni e nell’assemblea del 22 aprile a Milano, che avrebbe potuto dare una svolta alla mobilitazione della classe operaia, si sono tirati indietro dal convocare lo sciopero generale e hanno semplicemente invitato le segreterie di Cgil-Cisl-Uil a convocare lo sciopero, cosa che si sono guardate bene dal fare. Anche qui si vede come i limiti delle avanguardie e i loro errori possano compromettere una situazione che, con un’altra direzione, poteva prendere una piega molto diversa. Purtroppo il ruolo giocato da Rifondazione nella sinistra sindacale per coordinare i lavoratori più critici verso la guerra e per promuovere una mobilitazione a un livello più alto della semplice manifestazione del sabato mattina è stato pari a zero. Anzi qualche funzionario della Cgil iscritto al Prc ha proprio remato contro i delegati impegnati a preparare il terreno per lo sciopero generale, mentre il partito concentrava tutta la sua battaglia in Parlamento.
Le posizioni del Prc
Gli assi della politica di Bertinotti in questa guerra sono stati i seguenti:
– L’Europa deve liberarsi dal giogo Usa e sprigionare il suo “ruolo progressista”;
– La “guerra imperiale”, come è stata definita da Bertinotti non va vista secondo i classici canoni leniniani, non è una guerra imperialistica, ma è una guerra della globalizzazione capitalistica egemonizzata dagli Stati Uniti. Corollario di questa teoria è che oggi non si può più parlare dell’esistenza degli stati nazionali;
– Dobbiamo lottare perché si imponga la “pace delle diplomazie” e che sia l’Onu a intervenire con una propria “forza di pace”;
– Che si arrivi a un accordo di pace purchessia;
– “Santa alleanza” di tutti quelli che si opponevano alla guerra a partire dal Vaticano.
È necessario polemizzare con questi argomenti, che in questi mesi hanno certamente limitato l’intervento dei militanti comunisti contro la guerra.
In primo luogo le potenze europee impegnate nell’aggressione Nato hanno fatto la loro parte come gli Usa. Pensiamo che tra una bomba Usa e una “progressista” bomba europea la popolazione jugoslava abbia visto una qualche differenza? Indubbiamente, come abbiamo spiegato, c’è competizione tra l’Europa e gli Usa, dettata da interessi imperialistici diversi. Ogni governo aveva a cuore gli interessi della propria borghesia nazionale che erano diversi. Nient’altro.
Rispetto alla “guerra della globalizzazione” vorremmo far notare che la maggior concentrazione del capitale e la maggior rapidità con cui i capitali si muovono sui mercati mondiali non annullano il legame delle grandi aziende con gli stati nazionali, né sminuisce il ruolo degli Stati nazionali, caso mai li rafforza.
Vorremmo che qualche teorico della globalizzazione ci dimostrasse una volta tanto se e quando la Mitsubishi ha smesso di essere una azienda giapponese e la General Motors ha smesso di essere una azienda americana e da quando i rispettivi Stati hanno smesso di operare secondo gli interessi delle loro imprese nazionali.
Il pericolo della posizione assunta dalla direzione del Prc è che sottovaluta il ruolo dell’imperialismo europeo e di conseguenza rischia di esserne succube.
La “classica posizione” di Lenin, spiegata nell’Imperialismo fase suprema del capitalismo, a noi sembra più che attuale; ricordiamo i capisaldi di questa concezione:
1) Concentrazione della produzione e dei capitali, con lo sviluppo di monopoli nei settori chiave della produzione e della finanza;
2) Fusione del capitale bancario col capitale industriale, formazione di un’oligarchia finanziaria;
3) Aumento dell’importanza dell’esportazione di capitali sull’esportazione di merci;
4) Suddivisione del mercato mondiale fra i grandi gruppi capitalistici;
5) Ripartizione dell’intero pianeta in colonie e sfere d’influenza fra le grandi potenze.
Domandiamo: c’è forse qualcosa che non quadra con la realtà attuale? Ci pare proprio di no, questi fenomeni in 80 anni si sono solo estremamente approfonditi, ma non hanno cambiato natura. Le posizioni di Bertinotti invece ricordano in modo fortissimo le posizioni riformiste che proprio Lenin combatteva scrivendo quel libro, la concezione del “superimperialismo” sviluppata dal capo della socialdemocrazia internazionale: Karl Kautskij.
Rispetto al ruolo dell’Onu e delle diplomazie, ci si dimentica troppo spesso di ricordare come l’Onu in ultima analisi sia un “covo di briganti imperialisti”, e che le diplomazie sono al servizio degli interessi della borghesia. Fanno la pace se questa conviene all’imperialismo. Se sono giunti a un accordo è perché in questo momento è la cosa che conviene di più a tutti, ma questo non significa che domani non gli convenga riprendere a fare la guerra.
Anzi, l’accordo raggiunto oggi rappresenta una base che prepara future guerre ancora più sanguinose, esattamente come gli accordi di Dayton hanno preparato la guerra nel Kosovo. Rifondazione comunista, votando la mozione parlamentare presentata da D’Alema, ha di fatto votato a favore della risoluzione dei G8, che chiedeva precisamente la formazione di un “protettorato” nel Kosovo.
Si è dato credito che l’intervento delle forze armate imperialiste (se sotto bandiere Nato o Onu conta poco) possa portare la pace nei Balcani. Niente di più falso! Infine per quanto riguarda il ruolo della Santa Sede, ci sembra incredibile e grave che si possa dare credito al Papa, che oggi chiede la pace, ma che ha avuto una responsabilità gravissima nella guerra civile jugoslava, quando ha riconosciuto la “cattolica” repubblica croata e si è messa a capo delle “pulizie etniche” organizzate contro i serbi della Krajina. L’ipocrisia del Vaticano deve essere denunciata, altro che riconoscere il “ruolo di pace” giocato dalla Santa Sede come ci è capitato di leggere sulle pagine di Liberazione, il quotidiano di Rifondazione Comunista.
Chi paga il costo di questa guerra?
Le operazioni di guerra sono costate alla Nato circa 40mila miliardi di lire, di cui 2mila solo all’Italia, a cui bisogna sommare le perdite derivate dal crollo delle esportazioni e dei consumi e dalla distruzione delle economie delle regioni bombardate.
Si parla oggi di un nuovo piano Marshall per la ricostruzione dei Balcani; la differenza con quello del dopoguerra sta nel fatto che a pagarlo in gran parte non saranno gli Usa, ma i governi europei, che dovranno scaricarlo sui lavoratori con nuove tasse e tagli alla spesa sociale. Secondo le prime stime i danni economici in Kosovo ammontano a 15-20 miliardi di dollari, mentre quelli in Serbia sarebbero di 100 miliardi di dollari, una cifra impressionante che corrisponde a 10 volte il Pil jugoslavo.
A causa della distruzione delle industrie chimiche, meccaniche, tessili ed altro è rimasto disoccupato oltre un milione di lavoratori jugoslavi (più della metà degli occupati prima che iniziasse la guerra). Tutti i paesi balcanici, come effetto della guerra, sono sull’orlo del collasso, il deficit dei bilanci salirà di molto e questo si tramuterà in debito estero che sottoporrà ancora di più i paesi al ricatto dell’imperialismo e del F.M.I. Nei 6 paesi bellici limitrofi alla Jugoslavia la guerra provocherà nel ‘99 un crollo del Pil del 5%. Sia i lavoratori dei Balcani che quelli occidentali pagheranno sulla propria pelle il costo di questa sporca guerra che interessa solo ai capitalisti che sulle macerie, le distruzioni e le sofferenze umane potranno fare nuovi profitti.
La questione nazionale e il diritto di autodeterminazione
La lotta per i diritti delle nazionalità oppresse, si inserisce nell’ambito della rivoluzione democratica borghese, perché l’esistenza dello Stato nazionale ha rappresentato storicamente il terreno più adatto per lo sviluppo di rapporti economici capitalistici.
In Europa l’epoca della formazione degli stati borghesi ha avuto inizio con la rivoluzione francese e si è conclusa con la costituzione dell’impero tedesco.
Ma quegli stati borghesi che si erano formati per primi a un certo punto si trasformavano in Stati imperialisti, impedendo lo sviluppo di borghesie nazionali che nei paesi coloniali potessero farsi carico dei compiti della rivoluzione borghese, primo fra tutti la formazione dello stato nazionale, spesso questo compito è stato portato avanti da altri classi (operai, contadini, studenti, in certi casi persino dai militari) contro il volere della borghesia che si alleava con la nobiltà, la gerarchia ecclesiastica e i latifondisti
All’inizio di questo secolo in Oriente (Russia, Cina, Persia, Balcani) sono iniziate le rivoluzioni democratiche nazionali. Questa fase si è chiusa con le guerre balcaniche che rappresentarono la fine di un processo di formazione di stati nazionali nell’Europa dell’Est.
Mentre in Europa occidentale, la rivoluzione borghese sviluppava tendenze verso l’unificazione degli stati come in Germania e in Italia, In Oriente si espresse fondamentalmente nella direzione della separazione degli stati, che volevano sottrarsi dalla dominazione della nazionalità dominante.
Lenin capì che la questione nazionale avrebbe assunto un’importanza fondamentale nel processo rivoluzionario e proprio per questo difese la posizione del diritto all’autodeterminazione dei popoli, e polemizzò duramente con la Luxemburg, che era contraria alla separazione della Polonia dalla Russia su basi capitaliste e più in generale al paragrafo 9 del programma del partito socialdemocratico russo (Posdr), che prevedeva il diritto delle nazioni all’autodecisione.
Lenin non propagandava l’autodeterminazione, semplicemente difendeva il diritto all’autodeterminazione a quei popoli che ne facessero richiesta e rifiutava con questo ogni forma di oppressione nazionale. Allo stesso tempo si opponeva irrimediabilmente all’idea che le organizzazioni del movimento operaio (partiti e sindacati) fossero divise su basi nazionali.
Questa rivendicazione veniva comunque catalogata da Lenin come una rivendicazione democratico-borghese e quindi da subordinarsi agli interessi del proletariato a livello internazionale. Non si trattava di un dogma.
Non è un caso che Marx a suo tempo, mentre aveva sostenuto la separazione della Polonia dall’impero zarista, anche se il movimento nazionalista polacco era diretto da aristocratici reazionari, si era opposto all’indipendenza dei cechi che erano inglobati dall’impero austroungarico.
La ragione fondamentale stava nel fatto che la separazione dei polacchi avrebbe indebolito l’impero zarista, cioè il principale bastione della reazione mondiale, mentre quella dei cechi avrebbe rafforzato la guerra reazionaria che la Russia voleva mettere in atto (in alleanza con la Francia) contro la Germania, che allora non era un paese imperialista.
Al centro del problema, sia per Marx sia per Lenin, c’erano sempre gli interessi generali della classe operaia, la difesa al diritto di autodeterminazione non è mai stata vista da parte loro come una questione di principio, ma sempre e soltanto come una questione concreta da valutarsi ogni volta sulla base dei rapporti di forza internazionali.
Questo significa che, nel caso in cui il movimento di un popolo, per quanto legittimo come quello degli albanesi del Kosovo, che hanno subito ogni sorta di ingiustizia da parte di Milosevic, sia lo strumento di un intrigo reazionario internazionale ed entri in sinergia con gli obiettivi dell’imperialismo nella propria azione di sfruttamento dei popoli arretrati economicamente, i comunisti in nessun modo possono appoggiare, né difendere il diritto di autodeterminazione di quel popolo su basi capitaliste, cioè sotto il dominio dell’imperialismo.
Per questa ragione chi scrive, pur simpatizzando con le ragioni degli albanesi, non ha mai visto la soluzione del loro problema nella separazione del Kosovo dalla Repubblica Jugoslava.
In una zona così destabilizzata come quella dei Balcani, dopo anni di guerre civili che avevano portato allo smembramento della ex Jugoslavia, fomentando ogni tipo di odi nazionali e con la presenza di decine di migliaia di soldati delle diverse potenze imperialiste in competizione tra loro per ritagliarsi nuovi mercati e sfere di influenza, è impensabile che un piccolo popolo come quello degli albanesi del Kosovo possa guadagnarsi una reale indipendenza nazionale su basi capitaliste. Ci pare che l’esperienza di questi due mesi abbia confermato la correttezza di questa tesi.
Era evidente che applicare il diritto all’autodeterminazione in questo contesto non poteva che provocare un massacro di vite umane, senza far avanzare di un millimetro la causa dell’indipendenza degli albanesi.
Si aggiunga a questo che la prospettiva dell’Uck era quella di riunire il Kosovo all’Albania, a un paese che non gode di alcuna indipendenza, ma che oggi è un vassallo dell’imperialismo italiano. E non è tutto. Rivendicare l’autodeterminazione del Kosovo significava destabilizzare anche la Macedonia, dove come è noto vive una forte minoranza albanese (circa il 40% della popolazione) che sarebbe stata spinta a rivendicare lo stesso diritto dei Kosovari, innescando una spirale conflittiva tra i governi di quelle potenze imperialiste minori (Grecia, Bulgaria, Turchia) che da tempo hanno dichiarato le loro mire espansionistiche sulla Macedonia.
Non si capisce, inoltre, cosa bisognerebbe fare di quel 10% di serbi che vivono nel Kosovo; espellerli come è avvenuto in Krajina o rivendicare anche per loro il diritto all’autodeterminazione formando uno stato serbo-kosovaro di 200mila abitanti? In realtà nello scenario balcanico, se si volesse applicare seriamente l’autodeterminazione di tutti i popoli della zona, si dovrebbe formare oltre 40 stati indipendenti, in una zona dove vivono non più di 80 milioni di persone.
L’obiettivo della borghesia è proprio questo. Suddividere i Balcani in tanti piccoli stati etnici, continuamente in guerra tra di loro, che diventerebbero deboli strumenti degli imperialismi. Oggi i movimenti nazionali nei Balcani non sono il frutto di una lotta per l’indipendenza nazionale contro l’oppressione di uno stato feudale, come poteva essere all’inizio del secolo contro l’impero Ottomano. Non hanno il carattere di rivoluzioni coloniali, che hanno una funzione antifeudale o antimperialista, ma sono il frutto marcio della restaurazione capitalistica di quello che era uno stato operaio, che, per quanto deformato, vedeva al suo interno rapporti economici di produzione assolutamente progressisti, basati sulla pianificazione e sulla nazionalizzazione delle industrie, delle banche e del commercio.
In pratica la frammentazione della Jugoslavia è stata lo strumento per accelerare un processo di liberalizzazione che era già in corso dai tempi di Tito e che l’imperialismo ha fomentato per agevolare la penetrazione del capitale finanziario, impossessarsi delle industrie statali e disporre di manodopera a basso costo.
L’autodeterminazione (che bisogna ricordarlo, per Lenin significava diritto alla secessione) in questo caso non libera un popolo dall’oppressione di un altro popolo, ma permette all’imperialismo di opprimere entrambi i popoli coinvolti nella contesa, quello serbo, come quello albanese.
Oggi non esiste alcuna soluzione democratico-borghese al problema albanese, neanche in forma parziale e distorta. La soluzione del problema va ricercata sul terreno proletario, dell’unità dei lavoratori di tutte le etnie contro i dittatori della zona. La spartizione dei Balcani in tanti staterelli, etnicamente puri, ammesso che fosse possibile, non è affatto progressista, né ha un carattere antimperialista, come qualche compagno, anche della sinistra del Prc, ha avuto modo di sostenere, perché riporterebbe i Balcani nel Medioevo, restringendo le basi per lo sviluppo economico e produttivo.
Questi Stati non potrebbero godere di alcuna indipendenza, sarebbero dei vassalli delle potenze imperialiste che infatti non aspettano altro che smembrare la zona per ritagliarsi delle zone di influenza.
Lenin si è sempre opposto alla difesa del diritto all’autodeterminazione quando il farlo comportava una guerra tra potenze imperialiste, determinando massacri di proporzioni gigantesche, soprattutto se si trattava di piccoli popoli.
Ci sono dei marxisti (o presunti tali) che in questa vicenda hanno propagandato il diritto all’autodeterminazione del Kosovo, che obiettivamente nella situazione odierna significava, indipendentemente dalle loro intenzioni, sostenere la causa dell’imperialismo. Altri invece hanno difeso questo diritto in chiave subordinata alla lotta contro l’imperialismo, sostenendo l’idea che non bisogna contrapporre le rivendicazioni democratico-nazionali con quelle di classe, idea in astratto giusta, ma che nella pratica non aggiunge nulla, perché non spiega chiaramente che oggi come oggi è impossibile realizzare il diritto di autodeterminazione in Kosovo se non nel quadro di una federazione socialista dei Balcani.
Oggi nessuna fazione politica né in Kosovo, né in un nessun altro paese balcanico è esente dal veleno nazionalista. Tutte le espressioni indipendenti della classe operaia sembrano essere state spazzate via. Tuttavia la classe operaia di quei paesi ha una tradizione di lotte rivoluzionarie che per quanto oggi possa apparire soffocata prima o poi dovrà riemergere.
Attraverso l’esperienza le masse balcaniche capiranno che il nemico non è il vicino di etnia diversa, ma la propria classe dominante e quella dei paesi occidentali che li condanna alla povertà.
L’esperienza di oltre un secolo dimostra che, sotto il capitalismo, né la separazione in staterelli “indipendenti” (come in parte esisteva prima del 1914), né l’unificazione forzata in un unico stato (come fu dal ‘19 al ‘45) può costituire una base stabile per la pace.
Solo una federazione che garantisca il massimo rispetto delle varie lingue, culture, religioni può raggiungere questo scopo. L’unica forza che oggi può porsi questo obiettivo è la classe operaia. È necessario in primo luogo liberarsi dalle ingerenze delle potenze imperialiste e poi delle borghesie locali.
La tradizione della guerra partigiana, che dal 1941 al 1945, non solo liberò il paese dai nazifascisti, ma diede un durissimo colpo alle forze della vecchia società (monarchia, gerarchie ecclesiastiche, classi dominanti borghesi e agrarie), ponendo le basi per un’epoca di sviluppo che durò trent’anni, deve rivivere oggi su una base più avanzata, liberata dalle scorie dello stalinismo. Solo una nuova rivoluzione può liberare definitivamente le masse dall’incubo di una guerra senza fine. È il socialismo l’unico antidoto contro il veleno nazionalista e l’unica via d’uscita dalla crisi dei Balcani. Chi cerca una soluzione più “semplice” insegue un’utopia che può contribuire solo ad allontanare nel tempo il giorno in cui i lavoratori dei Balcani potranno liberarsi dall’oppressione imperialista e dallo sfruttamento capitalista.
Aprile 1999