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11 Dicembre 2015di Alessandro Giardiello
La risposta del primo ministro spagnolo Rajoy all’esito delle elezioni in Catalogna del 27 settembre, che hanno visto un tracollo del Partido popular (Pp) e un’affermazione delle liste indipendentiste, è stata: “sarò sempre disponibile alla discussione e all’ascolto ma senza liquidare la legge, né mettere in discussione l’unità della Spagna e la sua sovranità nazionale”; della serie: “discutiamo finché volete sempre che siate disposti a discutere di quello che voglio io”. Il governo di destra ha così negato il valore di plebiscito a un risultato che in realtà è molto netto e ha insistito sul fatto che le forze indipendentiste sono state sconfitte perché non hanno raggiunto la maggioranza assoluta dei voti. Che non abbiano ottenuto il 51% è vero, ma il loro risultato è tutt’altro che una sconfitta e tutti gli indicatori politici mostrano che la richiesta di indipendenza cresce esponenzialmente in Catalogna. Quasi 2 milioni di persone, il 47,82% dei voti, hanno sostenuto le due liste che difendono l’indipendenza con una maggioranza assoluta di seggi nella Generalitat (il Parlamento catalano). Se a questi si aggiungono i voti delle liste che, pur non essendo a favore della separazione, riconoscono il diritto dei catalani a decidere del proprio futuro (Catalunya sì que es pot e Uniò), si arriva al 60% dell’elettorato, senza contare che un settore rilevante della base del Psc (Partito socialista di Catalunya) è comunque a favore del diritto all’autodeterminazione. I voti indipendentisti di Junts pel sì e della Candidatura d’unitat popular (Cup) sono 300mila in più rispetto alle elezioni del 2012. Ma ciò che conta è che rispetto ad allora sono orientati più a sinistra; perché l’incremento si deve quasi esclusivamente alla crescita spettacolare della Cup che triplica i consensi passando dal 3 all’8%. La Cup non è una generica forza della sinistra riformista, ma difende un programma anti-capitalista e ha al suo interno componenti che si considerano apertamente per il socialismo. Per quanto il partito consideri l’indipendenza catalana l’obiettivo immediato da raggiungere, relegando a un secondo momento la questione di classe, è una forza estremamente radicale che vede un afflusso significativo di giovani e ultimamente anche di lavoratori. Il suo eccellente risultato è un sintomo evidente della radicalizzazione politica che sta attraversando la società catalana.
Le origini dell’indipendentismo catalano
La questione nazionale in Spagna sta diventando vera e propria dinamite, è dunque di importanza vitale comprenderla a fondo. Se trattata correttamente dal movimento operaio e dalla sinistra, può trasformarsi in una leva fondamentale per la lotta al capitalismo, viceversa rischia di dividere il movimento operaio su basi nazionali. Il nazionalismo catalano affonda le proprie radici negli albori del capitalismo iberico quando, già a partire dal XVI secolo, la borghesia mercantile catalana confliggeva con il carattere feudale del regime centrale in uno scontro che, con la successiva comparsa dell’industria, si accentuò sempre più assumendo il carattere di un vero e proprio movimento di liberazione nazionale. Tuttavia, diverse furono le occasioni in cui la borghesia catalana ebbe modo di tradire le aspirazioni nazionali del paese, facendo sì che nel corso del XIX secolo la guida del movimento fosse assunta da una direzione piccolo-borghese. Quest’ultima, sebbene fosse anch’essa disposta a pessimi compromessi con lo Stato centrale, venne a trovarsi sotto i colpi del franchismo che per quarant’anni sottopose le minoranze nazionali ad una brutale repressione. Per questi motivi, nonostante i limiti della direzione piccolo-borghese, il movimento nazionalista catalano (così come quello basco) ha sempre rappresentato un fattore rivoluzionario di primo ordine, trovandosi più volte al fi anco del movimento operaio nella lotta contro il fascismo. Solo così è possibile comprendere fi no a che punto l’indipendentismo catalano sia fortemente radicato nella coscienza di massa.
Perché cresce l’indipendentismo oggi?
I partiti che compongono la lista Junts pel sì, Cdc (Convergencia democratica de Catalunya) e Erc (Esquerra republicana de Catalunya), rappresentano rispettivamente gli interessi della grande e della piccola borghesia catalana, mentre la Cup è una forza della sinistra classista. È decisivo inserire un cuneo tra queste forze che impedisca alla Cup di appoggiare un governo con Artur Mas e il suo partito. Nel frattempo a metà ottobre il Tribunale superiore della giustizia ha deciso di processare Artur Mas e due dei suoi collaboratori. La colpa che gli viene attribuita è di aver convocato il referendum consultivo dello scorso 9 novembre, nel quale si chiedeva ai catalani se volevano separarsi dalla Spagna. Per quanto Mas sia mal visto da buona parte della popolazione catalana, per le politiche di austerità e i casi di corruzione che l’hanno coinvolto, questa imputazione viene considerata dal popolo catalano come l’ennesima provocazione del governo di Madrid. Quando un Ministro dell’istruzione afferma che bisogna “spagnolizzare i bambini catalani”, o i dirigenti del Pp e di Ciudadanos gridano nei comizi “Catalogna è Spagna”, negano nei fatti al popolo catalano il diritto di decidere se essere parte o meno dello Stato spagnolo. Non bisogna pensare che l’appoggio all’indipendentismo rappresenti un sostegno a Mas e a Convergencia. Molti catalani hanno sostenuto la lista Junts pel sì con l’obiettivo esplicito di respingere l’autoritarismo del Pp, pensando che con l’indipedendenza prima si farà fuori Rajoy, poi, in un secondo momento, si regoleranno i conti con Mas. Se Mas sta avendo un certo successo in questa situazione la colpa è da attribuirsi alla politica disastrosa della sinistra spagnola. La direzione del Psoe, quando è stata al governo, ha difeso, seppure con toni diversi, le stesse politiche del Pp. La proposta del nuovo segretario del Psoe, Pedro Sanchez, di riformare l’Estatut (Statuto catalano) e la Costituzione è una strada già battuta con il precedente governo socialista. Cosa accadde? Zapatero, dopo aver promesso in campagna elettorale che avrebbe rispettato la volontà dei catalani, fece esattamente l’opposto e respinse tutti i punti fondamentali dello Statuto proposti dal Parlamento catalano. Dopo quell’esperienza, la proposta di riforma dell’Estatut è una strada chiusa, che la maggior parte del popolo catalano non prende neanche in considerazione. Ma le responsabilità sono anche di Esquerda unida y alternativa (Eua) e Iniciativa per Catalunya (Ic) le due forze nate da Izquierda unida in Catalogna. Hanno governato in Catalogna (in un governo tripartito con il Partito socialista catalano e Erc) per due legislature e non hanno mai messo in discussione il potere della borghesia catalana su nessun tema chiave. Artur Mas È stato proprio il governo tripartito che ha inaugurato le politiche d’austerità, represso gli studenti che lottavano contro il Plan Bolonia e istituito i ticket sanitari, provocando grande delusione tra i lavoratori. Questa delusione permise a Convergencia di tornare al potere nel 2010 e continuare sulla strada intrapresa dal governo tripartito. Non è migliore la situazione dal punto di vista sindacale. Ci sono state molte lotte in Catalogna e nel resto della Spagna contro le politiche di austerità, ma la stragrande maggioranza di queste sono state sconfitte per responsabilità delle direzioni sindacali. Nessuno nella sinistra spagnola riesce a dimenticare la riunione di Toxo e Mendez (segretari di CcOo e Ugt) che sedevano al tavolo con Rajoy per aprire una nuova trattativa alla vigilia della Marcha por la dignidad (Marcia della dignità) che avrebbe portato oltre un milione di persone nelle piazze di Madrid. Se non si capisce questo non si capisce perché, nel corso di un processo di radicalizzazione sociale profondo che dura ormai da quattro anni, siamo al punto più alto di crescita del movimento indipendentista in Catalogna.
Per il diritto all’autodeterminazione, basta con i ricatti e la repressione!
Come marxisti ci dichiariamo totalmente a favore del diritto all’autodeterminazione di tutte le nazionalità dello Stato spagnolo e respingiamo qualsiasi tipo di imposizione a un’unione forzata. Denunciamo il terrorismo psicologico messo in campo dal governo e dalla classe dominante, che tenta di terrorizzare il popolo catalano dipingendo scenari apocalittici nel caso di una secessione della Catalogna. Riteniamo indegna la minaccia del Ministro della difesa Pedro Morenés di inviare l’esercito in Catalogna, così come sono infami le dichiarazioni di Felipe Gonzalez, storico segretario del Psoe, oggi uomo delle multinazionali e dell’imperialismo Usa, che ha comparato il movimento nazionalista catalano con il fascismo di Hitler e Mussolini e il regime dell’ex-Urss. Respingiamo inoltre le ingerenze del presidente dell’Ue, Jean-Claude Juncker, che ha minacciato di espellere la Catalogna dall’euro e dall’Ue in caso di separazione. Giudichiamo altresì intollerabile che Toxo e Mendez, che in questi anni non hanno mosso un dito contro il più pesante attacco ai diritti sociali dai tempi della dittatura, siano usciti con una dichiarazione pubblica per allinearsi al governo contro il diritto all’autodeterminazione della Catalogna. Non bastavano i preti del Vaticano ad organizzare le “messe nazionali per l’unità della Spagna”, dovevano aggiungersi anche i segretari di CcOo e Ugt. In questa catena di ricatti e minacce, il governo Rajoy sta preparando una riforma del Tribunale costituzionale – composto da funzionari di regime nominati dal Pp – che autorizzi la destituzione da parte dei tribunali dei presidenti delle autonomie e la dissoluzione dei rispettivi parlamenti. Persino il Presidente del governo spagnolo potrebbe essere destituito, e senza un intervento parlamentare, se venisse approvata tale riforma. Questa escalation repressiva e autoritaria dell’apparato dello Stato si somma alla legge “mordaza” e alle numerose leggi repressive e antisciopero approvate in questi anni dal Parlamento spagnolo. Dobbiamo denunciare questi tentativi come un attentato gravissimo ai diritti democratici e alla classe lavoratrice. Oggi nel mirino c’è l’indipendentismo catalano, domani useranno questa legislazione repressiva contro il movimento operaio. Gli interessi dell’oligarchia per l’“unità della Spagna” non sono quelli della classe lavoratrice. Sono gli stessi interessi che animarono la “santa crociata nazionale” contro gli operai e i contadini spagnoli nel 1936 e che hanno sostenuto quarant’anni di dittatura franchista. Per loro “unità della Spagna” significa tutelare i propri interessi economici, i privilegi e il prestigio della classe dominante. Perdere la Catalogna è perdere l’accesso diretto a un mercato, a materie prime, a infrastrutture e industrie, così come i fondi che la Catalogna invia alle casse di Madrid, cosa che rappresenterebbe un colpo duro al finanziamento dell’apparato dello Stato.
L’indipendenza della Catalogna e i compiti della sinistra spagnola Ma altrettanto importante per loro è il colpo che soffrirebbe il prestigio del nazionalismo spagnolo. Il nazionalismo dell’oligarchia spagnola ha una lunga tradizione reazionaria, che vive del ricordo di un passato di grande potenza imperiale, di un fascismo clericale che tra i suoi slogan aveva quello di “una Spagna unita, grande e libera”, che disprezzava la cultura delle nazionalità storiche della Catalogna, del Paese Basco e della Galizia. L’apparato burocratico-militare si è nutrito per secoli di questa paccottiglia reazionaria. La classe operaia spagnola deve respingere questi sentimenti reazionari. La classe dominante vuol farle credere che la Spagna e la Catalogna le appartengono, ma questo è falso. La Spagna e la Catalogna appartengono alle 200 famiglie che controllano le leve fondamentali dell’economia, le grandi banche, i monopoli, le imprese dell’Ibex35 (l’indice azionario delle 35 aziende più grandi nella borsa di Madrid), i grandi latifondi. I lavoratori spagnoli non hanno alcun interesse a mantenere dei vincoli di unità forzata, né a limitare i diritti democratici di espressione e opinione di nessuno.
Catalunya sì que es pot: le ragioni di una sconfitta
L’esplosione di Podemos a seguito delle elezioni europee del 2014 ha mostrato fi no a che punto si fosse alla ricerca di un’alternativa. La vittoria di Ada Colau a Barcellona e delle altre candidature di Unità popolare nel maggio scorso sembrava aver risvegliato una speranza diffusa. Di fatto in quel momento i sondaggi attribuivano a Podemos un consenso nazionale al di sopra del 20%. Ma nelle recenti elezioni catalane sono emersi tutti i limiti della proposta di Pablo Iglesias. La lista Catalunya sì que es pot, che partiva con un consenso potenziale che, secondo i sondaggi, avrebbe potuto assegnarle 30 seggi, ne ha ottenuti solo 11, con una percentuale del 9% dei voti. I dirigenti di Podemos hanno spiegato l’insuccesso elettorale con il fatto che mancava il simbolo di Podemos sulla scheda, ma si sbagliano. Tutti sapevano che Catalunya sì que es pot era sostenuta da Podemos anche perché Pablo Iglesias è intervenuto personalmente in decine di comizi in tutta la Catalogna. I problemi sono altri: a differenza delle amministrative di maggio, dove programma e candidati sono stati defi niti in decine di assemblee popolari e con elezioni primarie, in queste elezioni tutto è stato deciso al vertice attraverso un accordo tra i gruppi dirigenti di Podemos, Ic e Eua. Ma ancora più decisiva è stata l’assoluta mancanza di chiarezza sulla questione nazionale. I dirigenti di Podemos hanno commesso il grave errore di mettere sullo stesso piano le forze indipendentiste catalane e quelle che sostengono il governo Rajoy, quando in realtà le prime difendono un diritto democratico essenziale profondamente sentito in Catalogna, mentre le altre perseguitano nei tribunali chi difende tale diritto. È vero che Pablo Iglesias ha difeso il diritto all’autodeterminazione, ma molti l’hanno percepito come una difesa formale, che non aveva alcuna conseguenza pratica, e hanno preferito votare la Cup. Iglesias ha dichiarato in campagna elettorale che: “se la Catalogna avvia in modo unilaterale il processo verso l’indipendenza – attraverso una dichiarazione d’indipendenza e leggi transitorie – si aprirebbe un problema la cui soluzione non spetta al governo, ma al potere giudiziario, vale a dire ai tribunali”. Con questa dichiarazione ultra-legalitaria ha chiarito al popolo catalano che, anche se formalmente è a favore del diritto all’autodeterminazione, considera come unica via percorribile quella di una riforma costituzionale. Non si può dire ai catalani che devono aspettare una nuova Costituzione, quando è del tutto evidente che non esiste alcuna possibilità di ottenere qualcosa del genere a breve termine. Difendere il diritto all’autodeterminazione non è una questione astratta, ma un compito concreto. La prima cosa che dovrebbero rivendicare le organizzazioni del movimento operaio spagnolo è un referendum in cui il popolo catalano decida se far parte o meno dello Stato spagnolo. Tutti sanno che Rajoy e il Pp non accetteranno mai la separazione della Catalogna. L’alternativa che propone Pablo Iglesias di dar vita a un governo di coalizione con il Psoe ugualmente non risolverà il problema, visto l’atteggiamento tenuto in passato dal Psoe sull’argomento. Così, mentre Iglesias diceva ai catalani che dovevano rassegnarsi ad attendere per un lungo periodo di tempo, dall’altra parte c’erano due liste che nel programma si impegnavano a portare la Catalogna alla dichiarazione di indipendenza entro 18 mesi. In realtà non è l’indipendenza che vuole Mas, né la maggior parte della borghesia catalana, il cui obiettivo è solo quello di contrattare condizioni migliori con Madrid. Ma questo non significa che sull’onda delle mobilitazioni non possa realizzarsi uno scenario di questo tipo, a prescindere dalla volontà di Mas. Che farà la sinistra (da Podemos a Izquierda unida) se il Parlamento catalano a un certo punto provasse ad andare in questa direzione? La sinistra dovrebbe battersi per difendere il diritto del popolo catalano a decidere e, se il governo di Madrid negasse il referendum, dovrebbe considerare legittima la decisione del Parlamento catalano di separarsi dalla Spagna. Questo non significa che il movimento operaio e le sue organizzazioni debbano subordinarsi al governo catalano o appoggiare le sue misure. Bisogna continuare a combattere le politiche di destra, vengano da dove vengano, dal governo catalano o da quello spagnolo, difendendo allo stesso tempo l’idea di una federazione che unisca tutti i popoli dello Stato spagnolo, una federazione democratica e socialista, che non può essere imposta contro la volontà di alcun popolo, ma deve essere basata sulla libera adesione. Se la sinistra non difenderà una posizione del genere, finirà inevitabilmente con l’allinearsi con i settori più reazionari dello Stato spagnolo, sollevando un muro tra la classe lavoratrice catalana e la classe lavoratrice del resto dello Stato. Non difendiamo una federazione socialista per “salvare l’unità della Spagna”, ma per dare risposte alle richieste democratiche e sociali. La rottura con lo sciovinismo spagnolo non deve riguardare solo le minoranze nazionali, ma è un obiettivo a cui devono aspirare tutti i lavoratori che vivono in Spagna. Per la semplice ragione che come diceva Marx: “un popolo che ne opprime un altro non potrà mai essere libero”.
Rifondare la sinistra di classe
Il problema fondamentale da affrontare è la profonda crisi del capitalismo spagnolo e del regime nato nel 1978, che è incapace di garantire condizioni di vita degne e una convivenza democratica per i popoli che fanno parte dello Stato spagnolo. A questo si somma la mancanza di un’alternativa della sinistra, politica e sindacale, a questo regime e a questo sistema. Durante la “Transizione” dalla dittatura alla democrazia, sia il Psoe che il Pce difendevano il diritto dei popoli all’autodeterminazione. La classe lavoratrice in tutto il paese fece sua la richiesta democratica dei popoli catalano, basco e galiziano. Ciononostante le direzioni di entrambe le organizzazioni abbandonarono abbastanza presto questa richiesta, così come abbandonarono la difesa della memoria storica o la difesa della trasformazione socialista della società. Il cosiddetto “Stato delle Autonomie” non era una via particolare al federalismo, ma al contrario una trama progettata per impedire la nascita di uno Stato federale. È un errore abituale quello di separare la lotta per i diritti sociali da quella per i diritti democratici. O ancora peggio opporre gli uni agli altri con frasi del tipo: “Lascia stare le stupidaggini sull’autodeterminazione, ciò che conta è combattere la disoccupazione”. È curioso che questo coincida con gli argomenti che la destra utilizza, cinicamente. Non c’è nessuna necessità di separare le due richieste. Primo, perché le due sono parte di una realtà e, in secondo luogo perché è comune la soluzione ad entrambe. È falso che la disoccupazione e le politiche di austerità in Catalogna dipendano dall’avidità di Madrid che tiene per sé la maggior parte delle risorse. Non c’è dubbio che la borghesia spagnola tuteli la propria parte di torta. Ma la principale causa di diseguaglianza non ha basi territoriali bensì di classe. La differenza tra ciò che la Catalogna porta nelle casse dello Stato e ciò che riceve da Madrid, secondo i dati forniti dalla stessa Tesoreria della Generalitat, è di 3,23 miliardi di euro; la spesa sociale rapportata al livello di ricchezza catalana è invece inferiore di 19,6 miliardi. Il “deficit sociale” della Catalogna è molto più grande del deficit fi scale, quasi sette volte di più. Per cui non è un problema di mancanza di risorse, ma di come si redistribuiscono tra le classi sociali in Catalogna. La miglior forma per garantire lavoro, casa, servizi sociali, sanità e istruzione pubblica per tutti e tutte, è legata alla nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia (banche, compagnie energetiche, telecomunicazioni, ecc.) che oggi sono nelle mani di un oligopolio privato, che è poi chi comanda in Spagna e in Catalogna. La nazionalizzazione di queste risorse permetterebbe il controllo democratico dell’economia e la possibilità di orientarle secondo le necessità sociali. Questo, assieme a una riduzione della giornata di lavoro a parità di salario, con un salario garantito dignitoso, la riduzione dell’età pensionabile, assicurerebbe condizioni degne per la popolazione. Questo programma si scontra però con gli interessi delle borghesie spagnola e catalana. Lottare per esso e vincere significa unire la forza di tutti i lavoratori dello Stato. L’unico modo per raggiungere questa unità è difendere il diritto all’autodeterminazione dei popoli e dar vita a un regime sociale e politico differente, basato sui bisogni della popolazione e non sui profitti di una minoranza. Solo se ci opponiamo alla repressione di questa rivendicazione nazionale possiamo impedire alla maggioranza della classe lavoratrice catalana di cadere sotto l’influenza della propria borghesia. In Catalogna, il compito della sinistra è promuovere un movimento della classe lavoratrice indipendente dalla borghesia catalana, che sia in grado di difendere i propri interessi e di unire la propria lotta a quella dei lavoratori del resto della Spagna e di tutta l’Europa.
novembre 2015