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8 Aprile 2016Le presidenziali peruviane di domenica 10 aprile chiuderanno il ciclo elettorale aperto dalla vittoria di Macri in Argentina e passato per le sconfitte dei governi progressisti in Venezuela e Bolivia. In questo caso la disfatta del governo è addirittura scontata: è stato il proprio Ollanta Humala a ritirare a sorpresa il suo PNP (Partito Nazionalista Peruviano) e tutti i suoi candidati dalla consultazione elettorale, schiacciato da sondaggi che lo vedevano ben al di sotto della soglia del 4% necessaria a evitare la cancellazione della sua sigla dal registro dei partiti riconosciuti.
Solo 5 anni fa, nel 2011, un sostegno di massa con radici nei partiti della sinistra, i sindacati e le organizzazione contadine e indigene del Perù, aveva permesso a Humala di conquistare il 31,72% dell’elettorato al primo turno e quasi otto milioni di voti (il 52%) al secondo turno, battendo Keiko Fujimori (la figlia di Alberto il presidente che tra il 1990 e il 2000, con metodi dittatoriali, piegò il Perù alla volontà del FMI), del capitale finanziario internazionale e di una cricca di corrotti che lo accompagnarono al governo. Oggi invece è proprio Keiko Fujimori a essere in testa nei sondaggi, ma anche a concentrare l’attenzione e le proteste di attivisti, lavoratori, giovani e contadini contro la sua candidatura.
La debacle del PNP è una lezione per certi aspetti comune a tutto il quadro politico sudamericano attuale. Il PNP nacque per sostenere la candidatura di Humala nel 2006 e riunire attorno ad essa partiti di sinistra, sindacati e movimenti sociali. Un partito senza insediamento sociale proprio, trascinato a fondo dalla caduta dei consensi a Humala.
Negli anni del suo mandato Humala ha tradito le attese come nessuno tra i governi progressisti latinoamericani. In nome dello “sviluppo del paese”, ha duramente represso scioperi contadini contro le multinazionali minerarie – occidentali e cinesi – cosi come quelli di professori, medici, operai ecc. In politica estera, ha provato a scaricare le proprie contraddizioni interne in una causa internazionale contro il Cile per la territorialità di un braccio di mare, ma allo stesso tempo, con il Cile governato dai partiti pinochetisti, la Colombia e il Messico ha dato vita alla Alleanza del Pacifico, una specie di trattato regionale di libero commercio con gli USA promosso contro l’asse dei paesi dell’ALBA e del MERCOSUR.
Nonostante i primi anni del suo governo abbiano avuto a favore i venti dell’economia e dei prezzi delle materie prime, e nonostante la crescita delle entrate fiscali, le riforme di Humala sono state assolutamente di poco conto: le sperequazioni nella distribuzione del reddito, misurate con il metodo del coefficiente di Gini, sono rimaste praticamente inalterate, facendo del Perù uno tra i paesi più disuguali della regione. La sua unica riforma del lavoro è stata il taglio del 25% del salario, diretto e indiretto, e dell 50% delle ferie ai giovani neoassunti, scatenando le proteste perfino della gioventù nazionalista di Lima.
Un nazionalismo borghese alla costante e disperata ricerca di approvazione da parte degli investitori privati e dell’imperialismo che, anche per questo, si è caratterizzato in primo luogo per la corruzione, così dilagante da coinvolgere anche la moglie di Humala, Nadine Heredia. E che oggi deve fare i conti con una crisi economica galoppante, con il PIL peruviano ridotto dall’8,5% del 2010, a circa il 2,1% del 2015, che impedisce a Humala anche quelle poche riforme come l’aumento del salario minimo a livelli adeguati all’aumento dei prezzi.
Un settore della classe dominante e dell’imperialismo sostiene Pedro Pablo Kuczynski, un economista già ministro di Toledo agli inizi degli anni 2000, in un governo segnato da una certa stabilità economica, ma anche dalla svendita del paese alle multinazionali minerarie. Kuczynski è una figura non compromessa nè con il fujimorismo nè con il governo di Alan Garcia e l’APRA, e il ricordo dell’autoritarismo, della corruzione e dell’iperinflazione che questi rievocano. Con i suoi apprezzamenti alla controriforma del lavoro giovanile di Humala e in generale a tutto quanto di “destrorso” è stato realizzato dalla presunta sinistra del PNP, rappresenterebbe la garanzia di poter raccogliere il testimone di quest’ultimo senza eccessivi sconvolgimenti. Tuttavia l’immagine di un paese preda della criminalità e in disfacimento usata dai mass-media per fare pressione su Humala, ma soprattutto le lotte sociali di questi anni, spingono contro il “moderato” Kuczynski.
Keiko Fujimori dovrebbe richiamare alla memoria il pugno di ferro del padre contro le sinistre e sindacati in generale. Ma la candidata di Fuerza Popular usa quest’immagine presentandosi agli elettori dei ceti medi e popolari come opzione demagogica contro il disordine sociale. La candidatura di Keiko è evidentemente protetta dallo Stato, nel cui apparato ancora fujimorista raccoglie consensi, dall’imperialismo e da sondaggi probabilmente manipolati. Nonostante contro di lei ci fossero le stesse prove di compravendita di voti che hanno portato alla defenestrazione di altri due candidati presidenziali, il tribunale elettorale l’ha mantenuta in corsa.
Un ballottaggio tra Keiko e Kuczynski sarebbe probabilmente lo scenario ideale per la classe dominante, per far convergere sul secondo le proteste crescenti contro la Fujimori e utilizzare questa come spauracchio o eventualmente come manganello contro la classe operaia e la gioventù del Perù.
Ma la particolarità di queste elezioni, rispetto alla storia del paese e allo scenario internazionale, è la presenza di una candidatura che potrebbe sparigliare questi progetti, capace di raccogliere lo scontento di giovani, lavoratori e contadini che sostennero Humala, e in generale dei settori più socialmente avanzati del suo elettorato. Si tratta di Veronika Mendoza, “Vero”, ex dirigente nazionale e parlamentare del PNP, uscita dal governo e dal partito per protesta contra la repressione alle mobilitazioni contadine contro una multinazionale mineraria nella regione della sua natia Cusco. Attorno a Mendoza si è raccolto un Fronte Ampio, che va da Tierra y Libertad, partito ispirato alla teologia della liberazione, a maoisti e stalinisti, ecologisti, attivisti dei diritti civili e importanti settori sindacali, operai e contadini.
Perfino i sondaggi manipolati la danno in tale ascesa da poter arrivare al ballottaggio con la Fujimori. Le manifestazioni contro quest’ultima che hanno riunito decine di migliaia di attivisti a Lima a pochi giorni dal voto, sono una prova che esiste un interesse politico di massa che ricerca una via d’uscita a sinistra dalla crisi e dalla crisi del PNP. Il Fronte Ampio la offre, ma solo a metà. Il suo programma propone un aumento di circa il 33% del salario minimo, la rottura dell’Alleanza del Pacifico e il rifiuto della sottoscrizione del TPP, diritti civili, ecologismo, credito a piccoli produttori ecc. Erede di un più volte fallito progetto di unità a sinistra, rivitalizzato ora dalla adesione della propria Mendoza, il FA propone di strutturarsi come organizzazione politica a livello nazionale, con riferimenti sociali e di classe più marcati di quanto non avesse il PNP e con la partecipazione di vari dirigenti sindacali.
Ma il bilancio che il FA propone della debacle del PNP è abortito prima ancora di nascere. Nel suo programma di governo il FA afferma esplicitamente che non esiste altro mondo possibile al di là di un capitalismo regolato e dal volto umano. Ma questo capitalismo in crisi, anche in Perù, che nega diritti alle giovani generazioni, scarica la sua violenza sui lavoratori e difende i propri interessi con la delinquenza e i paradisi fiscali, è lo stesso che ricatta i governi dei paesi in via di sviluppo condizionando investimenti e trasferimenti di tecnologia alle esigenze di mercato dei paesi industrializzati. Humala ha governato in un periodo di crescita economica e non se ne è servito per estendere i diritti lavorativi e sociali, ma questa epoca è finita. Anche le più timide riforme proposte dal FA non sarebbero possibili senza rompere con le compatibilità imposte dal sistema.
Una buona affermazione del FA costiuirebbe un aiuto per la lotta di massa contro il fujimorismo, ma non sarà sufficiente a superare le contraddizioni del PNP, che ora attacca settariamente Humala, senza un bilancio vero della sua sconfitta dal quale elaborare un programma rivoluzionario per trasformare questo sistema marcio. Né l’uno né l’altro potranno emergere ed essere a disposizione delle masse senza l’azione indipendente e di lotta della classe lavoratrice. Quella classe che Humala non ha potuto piegare e che ora rappresenta il più potente ostacolo al ritorno dei fantasmi reazionari della storia recente del Perù.