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Nutrirsi di riso e fagioli per tutta la settimana, e di pane burro e marmellata la settimana dopo; fare la fila al banco alimentare per una razione di carne, una pagnotta e quattro litri di latte, tutto cibo scaduto prima ancora di prenderlo dallo scaffale; saltare la cena per lasciare a tuo figlio qualcosa da mangiare: se non avete ancora provato esperienze come queste, è possibile che lo abbia fatto qualcuno vicino a voi. Queste infatti sono, quotidianamente, le condizioni di vita di milioni di lavoratori in questo paese [gli Stati Uniti, ndt]: condizioni di insicurezza alimentare.
Nel terzo decennio del ventunesimo secolo il paese più ricco al mondo non è in grado di liberarsi dall’indigenza. Nel capitalismo è il “libero mercato” che stabilisce chi riceverà abbastanza cibo e chi no e l’intervento di organizzazioni statali o benefiche o gli sforzi di gruppi di mutuo soccorso tesi a colmare questo vuoto rappresentano solo una goccia nel mare. La fame, nel sistema capitalista, è endemica e solo un sistema socialista a economia pianificata potrà eliminare questo problema.
La fame nell’abbondanza
Iniziamo dai fatti. Nell’estate del 2022 un sondaggio del Census Bureau ha rivelato che l’11.9% delle famiglie ha sofferto di carenza alimentare: ovvero decine di milioni di persone “non hanno avuto abbastanza di cui sfamarsi per diverse volte negli ultimi sette giorni”; si tratta del dato più alto dal dicembre 2020, quando ancora imperversava la pandemia.
Parallelamente, l’Urban Institute informa che più di una famiglia su cinque ha avuto problemi di “insicurezza alimentare”, termine col quale il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti fa riferimento ad un’ampia casistica che comprende, ad esempio, la necessità di rinunciare ad una dieta bilanciata. Ma indipendentemente da come viene misurata, l’insicurezza alimentare rappresenta un fenomeno di massa, negli Stati Uniti, ed ha raggiunto oggi il livello peggiore dal picco della pandemia.
Poiché il mercato non riesce a garantire un lavoro e un salario adeguato, milioni di lavoratori sono costretti a rivolgersi ad enti di “beneficenza” per integrare i propri consumi alimentari. Le principali “reti di sicurezza” per far fronte alla fame sono fornite dal programma pubblico di assistenza alimentare integrativa SNAP (Supplemental Nutrition Assistance Program) e da una serie di banchi alimentari gestiti da organizzazioni caritatevoli private.
SNAP, inizialmente noto come Food Stamp Program, è entrato in funzione nel 1964, durante il boom del dopoguerra. Durante questo periodo eccezionale di “vacche grasse” per il capitalismo statunitense, lo stato ebbe modo di intervenire ridistribuendo le briciole dalla tavola dei capitalisti. Tuttavia, dalla fine del boom negli anni Settanta siamo entrati in una lunga fase di crisi del sistema, che ha conosciuto tagli senza sosta e l’applicazione di verifiche dei mezzi di sussistenza e altre restrizioni all’accesso a SNAP.
Fin dall’inizio, SNAP non fu altro che un grande compromesso. Il governo trasferisce denaro ai gruppi della grande distribuzione e agro-industriali, grazie al quale i più poveri potranno consumare una parte dei loro prodotti. Allo stesso tempo, l’esistenza stessa del programma permette agli altri capitalisti di pagare salari da fame, consapevoli che i loro lavoratori potranno integrare la propria spesa alimentare con i buoni SNAP. Tutto ciò è funzionale alla protezione dei profitti delle aziende. Da grande compromesso, SNAP ora si prepara ad affrontare altri tagli e ridimensionamenti imposti da entrambi i partiti politici borghesi: e questa è la tendenza generale delle riforme, in un sistema capitalista.
Un lavoratore su 10 appartiene ad un nucleo familiare che beneficia dello SNAP. Il programma presenta svariati criteri di ammissibilità basati sull’impiego, la cui funzione è quella di tener fuori gli indigenti “non meritevoli”. Le risorse che SNAP distribuisce a quanti riescono ad accedervi sono insufficienti e ciò si aggiunge alla mancanza di assistenza per coloro che restano fuori dal programma: il risultato sono milioni di lavoratori costretti a rivolgersi ai banchi alimentari, come è successo, nel 2021, a più del 15% della popolazione degli Stati Uniti. E va considerato che le statistiche sull’ “insicurezza alimentare” portano a concludere che molti bisogni di base rimangono insoddisfatti, malgrado il diffuso ricorso ai banchi alimentari.
L’inflazione sta rendendo il problema più acuto. I miliardi di dollari pompati nel sistema economico durante la pandemia da coronavirus hanno contribuito a far schizzare i prezzi alle stelle; il caos a livello di catena degli approvvigionamenti, allungando tempi di produzione e di trasporto dei beni, ha fatto lievitare ulteriormente i prezzi; a ciò si aggiungano gli sconvolgimenti legati alla guerra in Ucraina e l’effetto dei cambiamenti climatici su raccolti e allevamenti; per finire, i maggiori costi di carburante e trasporti combinati con la carenza di manodopera hanno peggiorato ulteriormente le cose.
Per giunta, i gruppi agro-industriali hanno sfruttato a proprio vantaggio la situazione di caos, spingendo i prezzi al rialzo. I prezzi più alti hanno poi determinato minori donazioni ai banchi alimentari che si sono ritrovati alle strette: da un sondaggio condotto la scorsa estate da Feeding America è emerso che oltre l’80% dei banchi alimentari contattati aveva registrato una domanda alimentare stabile o in crescita, mentre il 73% affermava che le donazioni erano calate nei mesi precedenti.
Anche i recenti tagli apportati ai programmi pubblici di assistenza hanno contribuito ad aggravare il problema alimentare: a fine 2021, infatti, il governo ha cancellato le misure di sostegno e gli assegni di disoccupazione introdotti durante la pandemia, come pure i maggiori crediti d’imposta per figli a carico. Ad aggravare la situazione, a marzo di quest’anno sono state cancellate anche le assegnazioni di buoni SNAP legate all’emergenza pandemica, costringendo milioni di utenti a rinunciare ad un programma che aveva contribuito a salvarli dall’indigenza. Di conseguenza, i banchi alimentari sono stati travolti dall’impennata della domanda e una quantità crescente di bisogni rimane insoddisfatta.
E questo è quanto di meglio il capitalismo del XXI secolo è in grado di fare nel paese di gran lunga più ricco della storia mondiale: in questo regime di bassi salari e disoccupazione cronica per una percentuale significativa della classe lavoratrice, la fame rappresenta un elemento connaturato al sistema.
Secondo l’ufficio del censimento degli Stati Uniti, l’11.6% degli americani è sceso sotto la soglia di povertà nel 2021. Gli ultimi dati “ufficiali” sulla disoccupazione si attestano solo al 3.6%, ma se guardiamo ad una misura più accurata, come il tasso di disoccupazione U6 (che include anche i cosiddetti lavoratori “ai margini della forza lavoro” ovvero coloro che non hanno attivamente cercato un impiego nelle precedenti 4 settimane), il dato tocca il 6.8%. I capitalisti sono disposti ad assumere nuove risorse o a pagare salari più alti solo quando strettamente necessario, e a patto di ricavarne un profitto: su queste basi, il sistema non è in grado di garantire salari adeguati e un impiego per tutti.
In agricoltura, la produttività ha raggiunto livelli tali da permettere di produrre più cibo di quanto possa essere consumato: nessuno dovrebbe quindi trovarsi nella condizione di patire la fame. Tuttavia, in questo barbaro sistema, il cibo rappresenta una merce prodotta non per soddisfare i bisogni umani ma per essere scambiata sui mercati al fine di generare profitti: in tal modo, una parte della popolazione non potrà permettersi di acquistare abbastanza cibo per sé e la propria famiglia e sarà condannata all’inedia; molti altri, invece, vivranno nell’angoscia generata dall’insicurezza alimentare.
Beneficenza o lotta di classe?
Anche provando in tutti i modi, armati di buona volontà, a salvare il sistema, questi fatti sono incontrovertibili. Le organizzazioni benefiche cercano di mitigare i limiti più gravi del sistema, ma riescono a fallire anche in questo tentativo: i banchi alimentari distribuiscono cibo a milioni di persone, eppure il numero di affamati aumenta.
Marx ha chiarito che, in definitiva, gli interessi di classe sono il fattore decisivo. Gli enti caritativi ridistribuiscono risorse da settori della classe capitalista e del proletariato al settore più povero della classe lavoratrice e ai disoccupati cronici, ma la natura predatoria del capitalismo impone che la ricchezza fluisca continuamente verso l’alto: le attività benefiche si rivelano così uno sforzo inutile, teso ad arrestare un processo inesorabile. I capitalisti non hanno alcun tornaconto a risolvere il problema della povertà o della fame: per loro la questione non rappresenta un interesse di classe.
Le organizzazioni di beneficenza si basano interamente sulla buona volontà dei singoli individui. L’unico modo che hanno per incrementare le donazioni è attraverso “appelli” efficaci, di solito di carattere morale. Le donazioni che molti lavoratori fanno ai banchi alimentari attingendo dai propri magri salari col nobile scopo di aiutare altri della propria classe non vanno, in realtà, al cuore del problema, rappresentato da un sistema guidato esclusivamente dai profitti. Inoltre, i lavoratori non hanno così tante risparmi da “donare”. Chiaramente, l’impegno dei capitalisti in attività filantropiche è funzionale a distogliere l’attenzione dal ruolo di sfruttatori che essi esercitano nel sistema, e per questo in premio ricevono consistenti agevolazioni fiscali. Sotto ogni punto di vista, le organizzazioni caritative forniscono una soluzione individuale ad un problema che richiede, invece, una risposta collettiva.
Quanto sopra vale, a maggior ragione, anche per le iniziative di “mutuo soccorso”, come ad esempio i banchi alimentari gestiti da attivisti politici allo scopo di “aiutare i poveri” o “costruire una nuova società all’interno della vecchia”. Tuttavia, se nemmeno le organizzazioni che dispongono delle risorse più cospicue riescono a soddisfare i bisogni dei milioni di lavoratori che si rivolgono a loro, l’idea di potercela fare con risorse ancora minori non ha molto senso. Queste organizzazioni di mutuo soccorso sono destinate al fallimento, nella misura in cui gli attivisti scoprono che non possono far fronte ai vasti problemi posti dal sistema e non possono nemmeno sperare di “competere” con le grandi organizzazioni umanitarie.
Non si può costruire una “società nuova” entro i limiti di quella attuale. “Strutture alternative” come reti o comunità di mutuo soccorso si basano sull’acquisto di risorse prodotte dal sistema esistente, anche quando queste sono distribuite gratuitamente: da questo punto di vista, si tratta di iniziative non molto dissimili dalle tradizionali organizzazioni benefiche. L’approccio “mutualistico” in definitiva si fonda sull’illusione riformista secondo la quale, se le risorse fossero distribuite in maniera diversa, si potrebbe effettivamente soddisfare i bisogni della maggior parte delle persone all’interno del sistema capitalista: ciò tuttavia trascura il fatto che la causa ultima di fame e privazioni sia proprio la produzione orientata al profitto e non al soddisfacimento dei bisogni umani. I fautori delle iniziative mutualistiche tentano di eludere la lotta di classe e, di fatto, accettano i limiti imposti dal capitalismo.
Solo il proletariato organizzato può attaccare il sistema alle radici, interrompendo il flusso dei profitti e assumendo il controllo democratico dei mezzi di produzione: solo allora si potrà produrre cibo per soddisfare bisogni reali e non l’avidità della classe capitalista.
Ma se le organizzazioni benefiche o mutualistiche non possono fornire una soluzione, nemmeno programmi e interventi pubblici sembrano in grado di alleviare le sofferenze umane in maniera significativa: il capitalismo non può certo essere “regolato” dallo stato, perché perché è guidato dal profitto nel quadro anarchico e irrazionale del “libero mercato”. Il sistema attraversa inevitabilmente crisi periodiche, durante le quali la classe lavoratrice vede sfumare le conquiste ottenute durante le fasi precedenti: i salari diminuiscono, la disoccupazione aumenta e sempre più famiglie della classe operaia soffrono la fame.
Durante queste fasi, il sostegno pubblico ai consumi alimentari non è per nulla in grado di tenere il passo del crescente livello di bisogno. Peggio ancora, durante i periodi di crisi, a causa della contrazione delle entrate fiscali, lo stato dispone di minori risorse da destinare a queste iniziative. In aggiunta, i capitalisti chiedono ulteriori tagli a programmi di assistenza come SNAP; l’austerità non è una scelta politica, è una necessità, sotto il capitalismo: le riforme vengono spazzate via per preservare i profitti.
Il capitalismo non può assicurare una vita al riparo dagli stenti. Riforme, beneficenza e altre mezze misure non possono arginare l’ondata di crescente insicurezza alimentare. Solo un’industria alimentare nazionalizzata, orientata non al profitto ma alla produzione diretta per i bisogni umani, potrebbe assicurare il benessere di tutti. In un’economia pianificata a controllo democratico, con salari significativamente più alti e piena occupazione, l’insicurezza alimentare potrebbe essere spazzata via da questo paese nel giro di poche settimane. Un’economia socialista pianificata metterebbe fine all’anarchia del mercato e ridurrebbe notevolmente il rischio di gravi interruzioni degli approvvigionamenti. Senza l’interminabile ciclo di crisi, malfunzionamenti e privazioni che minacciano le loro possibilità di sostentamento, milioni di esseri umani potrebbero progredire verso un livello superiore di esistenza ed entrare nell’era della vera libertà umana.
30 maggio 2023