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7 Giugno 2023Trent’anni fa, il 23 luglio del 1993, venivano firmati i cosiddetti “accordi di luglio” che aprirono la fase della concertazione sindacale in Italia. Un anno prima, nel luglio del 1992 era stata definitivamente abolita la Scala Mobile dei salari, in una delle peggiori capitolazioni dei dirigenti sindacali di tutta la storia.
Nei mesi successivi un’enorme contestazione contro i vertici sindacali mostrò quanto profonda fosse la rottura tra vertice e base (vedi Rivoluzione no. 89). Su queste basi le burocrazie di CGIL, CISL e UIL cercarono una nuova legittimazione del loro ruolo di mediazione attraverso la trattativa con governo e Confindustria, a loro volta interessati a mettere nero su bianco i nuovi rapporti di forza a loro favore.
La concertazione salariale
Il cuore degli accordi firmati riguardava la dinamica salariale. Al posto della Scala Mobile, che adeguava automaticamente i salari all’inflazione reale, si introdusse il meccanismo dell’inflazione programmata: i contratti nazionali (CCNL) non avrebbero potuto contenere aumenti superiori all’inflazione prevista. La durata del CCNL passava da 3 anni a 4, con l’impegno a rivedere ogni 2 anni la dinamica reale dei prezzi. Quando un contratto scadeva senza essere rinnovato, si introduceva un aumento del 30% dell’inflazione reale dopo 3 mesi e del 50% dopo 6 mesi.
La contrattazione aziendale, o di secondo livello, veniva vincolata al raggiungimento di parametri aziendali di profitti, incrementi di produttività, ecc. In altre parole, si stipulava nero su bianco che i salari non avrebbero mai potuto aumentare a spese dei profitti.
La contrattazione divenne una eterna rincorsa, nella quale i salari erano condannati in partenza a perdere rispetto ai prezzi.
Per la prima volta venivano inoltre introdotti periodi di “tregua” sindacale obbligata, con l’impegno ad astenersi dagli scioperi per 4 mesi a cavallo della scadenza dei contratti.
Il debutto della precarietà
Un altro punto fondamentale fu l’assenso all’introduzione del lavoro interinale o in affitto, che sarebbe diventato poi legge col “pacchetto Treu” approvato dal governo Prodi (centrosinistra) con l’appoggio di Rifondazione Comunista nel 1997. Ipocritamente, la formulazione iniziale prevedeva il lavoro in affitto solo per mansioni non presenti in azienda e per qualifiche medie e alte. In realtà fu il cavallo di Troia che aprì la stagione della precarietà dilagante, che dura tutt’oggi. Successivamente sarebbero arrivati la citata legge Treu, poi la Legge 30 (ministro Maroni, governo Berlusconi, 2003), il Jobs Act (Renzi, centrosinistra, 2014) che, insieme ad altri provvedimenti meno noti ma non meno infami come quelli di Sacconi del 2008 (governo Berlusconi), sono stati una vera e propria pestilenza che da un quarto di secolo massacra i diritti e i salari dei lavoratori italiani.
Come risultato degli accordi di luglio, la quota del reddito annuale che finisce ai lavoratori italiani è crollata. Se negli anni ’70 salari e pensioni rappresentavano il 65-70% del reddito nazionale, dopo il 1993 questa quota è calata in media del 12%, raggiungendo un minimo nel 2000, collocandosi poco sopra il 56%. Nonostante l’aumento regolare del numero di lavoratori dipendenti rispetto a quelli autonomi e nonostante la crescita della produttività, la classe lavoratrice italiana ha visto i propri redditi schiacciati verso il basso. Neppure il calo della disoccupazione negli anni ’90 e 2000 ha invertito questa tendenza. Quanto agli anni più recenti, basti dire che l’Italia è l’unico dei principali paesi nel quale i salari reali non hanno ancora recuperato il livello precedente la crisi del 2007.
Le burocrazie sindacali hanno sempre rivendicato gli accordi del 1993 come un riscatto dopo la sconfitta sulla Scala Mobile. Ancora nel 2016 l’ex segretario della CGIL Cofferati rivendicava il 23 luglio come “un bel giorno” per l’Italia. I dati, ma soprattutto l’esperienza viva di milioni di lavoratori, dimostrano che non è così. Fu invece l’inizio di una spirale discendente nella quale salari, diritti, condizioni di lavoro, la stessa dignità dei lavoratori sono precipitati e della quale ancora non si vede il fondo.
Dai Consigli di Fabbrica alle RSU
Sulla base degli accordi di luglio ci fu anche il passaggio dai Consigli di Fabbrica (CdF) alle Rappresentanze Sindacali Unitarie (RSU) come organismi eletti dai lavoratori. Il passo indietro fu notevole: le RSU erano più saldamente controllate dagli apparati sindacali, tanto che per gli anni a seguire un terzo dei delegati non era eletto, ma veniva nominato pariteticamente da CGIL, CISL e UIL. Anche se tale norma è poi stata rimossa, con la prassi successiva e in particolare con il famigerato accordo del 2014 si è cercato di affermare una concezione dei delegati non come espressione democratica dei lavoratori che li eleggono, ma come terminali degli apparati sindacali.
Tuttavia l’introduzione delle RSU ebbe un effetto contraddittorio: in moltissime aziende i CdF non erano stati rinnovati da tempo e il fatto che si ricominciasse comunque a tenere elezioni dei delegati nelle aziende ebbe un effetto di rinnovamento. A conferma che anche le peggiori norme burocratiche non possono contenere all’infinito la pressione dei lavoratori, quando questi decidono di farsi sentire in forma collettiva. Coordinamenti autoconvocati di RSU espressero ad esempio la forte opposizione alla controriforma delle pensioni nel 1995 e indubbiamente vedremo sorgere anche in futuro forme di autoconvocazione e democrazia dal basso, nelle migliori tradizioni di lotta del movimento operaio.
Oggi è sotto gli occhi di tutti come il sistema della concertazione sia stato una gabbia micidiale per il movimento sindacale e per i lavoratori. L’esplosione dell’inflazione e della crisi sociale ha messo completamente a nudo tutte le menzogne che attribuivano alla Scala Mobile e alle “eccessive” pretese salariali la colpa dell’aumento dei prezzi.
Della concertazione non rimane pietra su pietra: oggi né il governo, né Confindustria si disturbano a contrattare le proprie pretese con un apparato sindacale che ha consumato la propria credibilità. Ma sotto l’urgenza della crisi salariale nascerà inevitabilmente un nuovo movimento di lotta dai luoghi di lavoro, che darà l’ultima spallata a questa facciata ormai cadente e spazzerà via la stagnazione sindacale che sta soffocando ogni istanza dei lavoratori. È solo questione di tempo e, crediamo, neanche troppo.