“Russia – dalla rivoluzione alla controrivoluzione” – Introduzione e indice dei capitoli
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15 Novembre 2019Il ’68 è l’anno degli studenti. Il ‘69, l’anno dell’unità degli studenti con la classe operaia. Un’alleanza che, come vedremo, non seguì vie lineari.
Tra l’autunno del ’67 e la primavera del ’68 tutte le università italiane e centinaia di licei e istituti vengono occupati dagli studenti. La risposta delle classi dominanti è un’ondata repressiva senza precedenti. Migliaia sono i provvedimenti disciplinari, le imputazioni giudiziarie, le manganellate della polizia.
Il 1° marzo 1968 a Valle Giulia, a Roma, si verifica un evento senza precedenti. Dopo averne prese tante, gli studenti decidono che è arrivato il momento di dire basta e per la prima volta reagiscono alle cariche della polizia. Trecento fra studenti e poliziotti rimangono feriti negli scontri che si protrarranno per diverse ore.
Si è parlato e si è scritto molto sulla violenza di quegli anni, ma quello che non è stato sufficientemente ricordato è che gli studenti all’inizio erano assolutamente pacifici, e che la violenza, veniva tutta dalla polizia e dall’apparato dello Stato, una violenza brutale e senza freni, di un sistema confuso e disorientato, che sentiva di perdere il controllo sulla società.
La rivolta di Corso Traiano
16 mesi più tardi sarà un’altra piazza in rivolta, altrettanto simbolica, quella di Corso Traiano nella Torino proletaria. Qui più che gli studenti (che pure erano presenti) i protagonisti sono gli operai della Fiat. Il 3 luglio del 1969 migliaia di manifestanti tengono in scacco le forze di polizia fino alle prime ore dell’alba. Tra questi sono gli operai più giovani, in gran parte immigrati dal Mezzogiorno d’Italia, i più decisi a portare la lotta fino alle estreme conseguenze. La manifestazione assumerà un carattere semi-insurrezionale, come era stata quella dei “ragazzi con le magliette a striscie” a Genova nel 1960 e quella di Piazza Statuto nel 1962.
Se a Valle Giulia c’erano cartelli con la scritta “Potere studentesco”, uno slogan prevalente nelle università (anche a Torino) per tutto il ’68, con il ’69 e l’ascesa delle lotte operaie gli studenti trovano un soggetto di riferimento. Capiscono che l’unico potere realmente alternativo al capitale è quello che viene dalla classe lavoratrice. Nei fatti la loro mobilitazione era solo un’anticipazione di un uragano che stava per travolgere tutta la società.
È allora che la classe dominante inizia davvero a tremare. E diventa ancora più violenta, mettendo in campo le stragi e la strategia della tensione, inaugurate con la bomba a Piazza Fontana il 12 dicembre del ’69, proprio al culmine dell’Autunno caldo.
Quali furono le motivazioni che spinsero gli studenti dell’epoca (in gran parte figli delle classi medio alte) in direzione della classe operaia?
Fino a quel momento le mobilitazioni studentesche non avevano avuto un carattere particolarmente progressista. Giova ricordare che prima del ‘68 le università erano state i serbatoi di tutti i movimenti reazionari e nazionalisti, dalle manifestazioni a favore del colonialismo di inizio secolo, a quelle del “maggio radioso” del 1915, che spinsero l’Italia ad entrare nella prima guerra mondiale, fino alle squadracce fasciste che schiacciarono il movimento operaio e condussero Mussolini al potere.
Anche durante la Resistenza, tra il ’43 e il ’45, solo una piccola parte degli studenti si era schierata dalla parte dei partigiani, mentre il grosso si identificava con le posizioni goliardico-qualunquiste che alle elezioni del 1946 raccolsero il 5,3% dei voti con la lista dell’Uomo qualunque. Ancora nei primi anni ’50 gli studenti erano la base dei cortei fascisti per Trieste italiana.
Fino a quel momento gli operai si erano abituati a vedere gli studenti dall’altra parte della barricata, che davano manforte alla polizia.
I lavoratori guardavano con ammirazione e persino un pizzico di invidia al movimento del ‘68, ma se ne sentivano comunque estranei, in fondo si trattava pur sempre della mobilitazione di uno strato sociale proveniente dalla borghesia medio-alta, che storicamente gli era stato ostile.
Il ’68 rovescerà per sempre questo schema e collocherà definitivamente gli studenti nel campo progressista, come principali alleati della classe lavoratrice nel processo di trasformazione della società.
L’assemblea operai-studenti
La storia dell’assemblea operai-studenti di Torino è certo la più significativa tra tutte quelle che si formano in quegli anni. Perché a Torino c’è la Fiat, che all’epoca concentra oltre 140mila operai, di cui circa 50mila nello stabilimento di Mirafiori. Non a caso quando cominciano le lotte della Fiat, arrivano dal resto d’Italia tutti i principali leader studenteschi, dal pisano Adriano Sofri, ai veneti Toni Negri e Sergio Bologna, al milanese Giairo Daghini, al romano Franco Piperno, oltre ai torinesi: Luigi Bobbio, Vittorio Rieser, Romolo Gobbi, Emilio Soave, per citarne alcuni.
Da tutti i punti di vista l’assemblea operai-studenti, che in seguito prese il nome di Lotta continua rappresentava l’unità del movimento studentesco con la classe operaia e la rivolta di corso Traiano ne sarà l’espressione politica più compiuta.
Come ammise Sergio Garavini, all’epoca segretario della Quinta lega Fiom di Torino: “per circa 6 settimane la direzione del movimento a Mirafiori fu nelle mani di Lotta continua”. Solo dopo questo scacco iniziale i vertici sindacali correranno ai ripari e per recuperare consenso nella classe operaia si apriranno alle rivendicazioni della base e riconosceranno i delegati operai eletti dalle assemblee nei reparti.
Gli studenti ci arrivano non per calcolo politico, ma per assenza di strategia. Alla fine del ‘68, dopo diversi mesi di occupazioni il movimento era in piena crisi di identità e di prospettive.
C’era stata l’influenza del Maggio ’68 francese, certo, ma si erano anche fatte strada le concezioni “policentriche” di Rudi Dutschke, il leader studentesco tedesco, e dei teorici della scuola di Francoforte, concezioni che negavano il ruolo della classe operaia come soggetto principale della trasformazione sociale.
Come afferma Luigi Bobbio, all’epoca uno dei principali leader all’Università di Torino: “Se tutte le istituzioni, scuole, chiese, giornali, fabbrica, ecc., sono luoghi di oppressione e di manipolazione autoritaria degli individui, non solo si legittima il ‘ruolo autonomo del movimento studentesco’ ma si autorizza ‘anche una certa qual equivalenza’ tra le lotte dei vari strati sociali”.
Secondo questo schema, il Maggio ’68 viene letto alla rovescia, non come l’affermazione della centralità della classe operaia e dell’unità operai-studenti, ma come la non riuscita comunicazione tra i due soggetti sociali.
Si trattava di una lettura fuorviante in quanto confondeva la classe operaia con la sua direzione politica. Studenti ed operai si attraevano naturalmente. Il problema era la direzione stalinista del Pcf di George Marchais, e in Italia il gruppo dirigente del Pci.
Quando la lotta alla Fiat si sviluppa in forme spontanee e radicali nella primavera del ’69, ogni dubbio viene dissipato. Gli operai con la loro mobilitazione portano gli studenti fuori dalle secche e gli forniscono una prospettiva e una strategia.
Ma anche gli operai hanno bisogno degli studenti, di quelle capacità intellettuali che oltre a mettere giù le loro idee in un buon italiano, li aiutano a vedere il mondo e le rivoluzioni che si sviluppano in ogni angolo del pianeta.
Superate le iniziali diffidenze, si instaura un buon rapporto di fiducia e collaborazione. L’attivismo degli studenti supplisce alla mancanza di una rete organizzativa che permetta l’informazione relativa a quanto sta accadendo dentro una fabbrica che è grande come una città.
“Loro ci sono stati molto utili”, ricorda l’operaio Luciano Parlanti e Nico Ciarciaglino afferma che gli operai iniziarono a “usare gli studenti come propri scrittori, uscivamo dai cancelli e dicevamo: ‘oggi è successo questo, scrivilo’”; attraverso la lettura di quei volantini “ho cominciato a trovare la spiegazione sulla mia condizione”, conclude Calogero Montana (in G. Polo, I tamburi di Mirafiori).
Falsificazioni staliniste
La relazione tra il ’68 studentesco e l’Autunno caldo operaio è stata oggetto di numerose semplificazioni e di vere e proprie falsificazioni. Il gruppo dirigente del Pci fece di tutto per screditare e ridimensionare la portata della rivolta di Corso Traiano. A differenza di altre fonti indipendenti, che parlano di 5mila manifestanti, l’Unità, l’organo del Pci abbassa la cifra a 1.500, aggiungendo che sono “tutti giovani del Movimento Studentesco”. Il redattore torinese Pietro Mollo insiste che solo all’inizio vi è solo un piccolo numero di operai, che si allontanano quando cominciano gli scontri.
Ma la realtà è molto diversa, alla fine gli arrestati sono 29, di cui solo 2 studenti e 27 giovani operai. I due studenti, di 17 e 19 anni, di certo non potevano essere quei leader universitari ai quali l’Unità addebitava tutta la responsabilità degli scontri.
Dopo un’iniziale compiacenza da parte di Longo nel ’68, il gruppo dirigente del Pci e della Cgil inizia a vedere gli studenti come una minaccia alla propria autorità nelle fabbriche e quindi ha inizio la campagna contro i “rivoluzionari che prestano il fianco al padrone”, che danno luogo a gazzarre in cui “possono razzolare tutti, anche i fascisti” (da Unità Operaia, mensile dei lavoratori comunisti alla Fiat). Minucci su Rinascita il 18 luglio si spingerà a parlare “di una convergenza tra gruppi estremisti e strategia padronale”.
Dopo i fatti di Valle Giulia, il leader della destra migliorista del Pci Giorgio Amendola ha apostrofato gli studenti di “rigurgito di infantilismo estremista e di vecchie posizioni anarchiche”. Con Corso Traiano questa diventa la posizione di tutto il Pci.
Erano gli stessi argomenti di Marchais, che puntavano a tenere separato il movimento operaio da quello studentesco, mantenendolo nei binari di un tiepido riformismo.
L’operazione Pasolini
In questa operazione anche un testo di Pier Paolo Pasolini, venne strumentalizzato a dovere.
L’Espresso il 16 giugno 1968, ne pubblicherà un estratto:
“Avete facce di figli di papà. Vi odio come odio i vostri papà. Buona razza non mente (…) Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perchè i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano (…)
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento di lotta di classe: e voi cari (benchè dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, cari (…)
Si trattava con ogni evidenza di una provocazione che puntava a far emergere la contraddizione di quei figli che “potevano permettersi il lusso di lottare”, cosa che veniva negata al proletariato, troppo povero ed oppresso, costretto per necessità a “servire lo Stato”.
A voler ben vedere, per quanto confuse, le intenzioni di Pasolini erano fin troppo evidenti. Il titolo originario del brano era “Il Pci ai giovani” e se si legge la versione integrale del testo e non solo l’estratto pubblicato da l’Espresso, Pasolini esorta i giovani ad aiutare gli operai ad occupare le fabbriche e a cambiare il Pci, il più grande partito operaio dell’epoca.
La burocrazia del Pci e della Fgci (la giovanile del Pci) tuttavia non si fa scrupoli nell’usare quel testo non tanto contro i limiti piccolo borghesi dei leader studenteschi, che certamente esistevano, ma contro il movimento nel suo insieme, utilizzando a tale scopo il falso titolo con cui venne pubblicato: “Vi odio cari studenti”.
Una campagna talmente estesa e ad ampio raggio che ancora 20 anni più tardi (e a 13 anni dalla scomparsa del poeta) chi scrive, all’epoca attivista del movimento studentesco in un istituto tecnico del milanese, durante un’occupazione si sentiva apostrofare come “nemico del popolo” da un vicepreside, iscritto alla Cgil, che a supporto delle sue tesi citava le frasi del povero Pasolini.
50 anni dopo ci piace ricordare che quegli studenti ed operai, che si misero in gioco fino in fondo e cercarono di cambiare il mondo, erano dalla parte della ragione. Il fatto che fossero privi di un partito che li rappresentasse realmente, di una strategia e di una prospettiva, non toglie nulla al valore della loro battaglia che deve ispirare le nostre battaglie di domani.
I vecchi dirigenti del Pci e della Fgci e i loro eredi sono quelli che oggi guidano il Pd. Non fanno paura perché non hanno, neanche lontanamente, l’autorità che avevano tra gli operai dell’epoca. Sono l’avversario da battere e come tali verranno visti dalle avanguardie operaie e studentesche di domani. C’è di che essere ottimisti.
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