Elezioni a Roma: la sinistra che non c’è e quella che bisogna costruire
18 Marzo 2016La lezione della Spagna, l’ultimo avvertimento
21 Marzo 2016Pubblichiamo di seguito le tesi sul sindacato approvate alla Conferenza nazionale dei lavoratori di Sinistra, Classe, Rivoluzione che si è svolta il 13 e 14 Febbraio 2016 a Reggio Emilia. Qui è possibile scaricarle in formato PDF.
Lotta economica e lotta politica nel capitalismo in crisi
La questione dei sindacati ha un’importanza vitale per il movimento operaio e di conseguenza ce l’ha per il nostro movimento.
Già nel Manifesto Marx chiarisce il rapporto esistente tra lotta economica e lotta politica: “I comunisti lottano per raggiungere gli scopi e gli interessi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano in pari tempo l’avvenire del movimento stesso”.
Le lotte economiche (per il salario, per la riduzione della giornata lavorativa, ecc.) sono necessarie perché attraverso queste lotte i lavoratori rompono il loro isolamento, sviluppano una visione di classe e una maggiore comprensione della necessità di lottare contro il sistema. La lotta sindacale, rappresenta la condizione di base senza la quale la lotta di classe difficilmente potrebbe svilupparsi come lotta politica.
Va dunque chiarito come nella polemica del Che fare?, Lenin non si proponeva di negare il valore della lotta economica per propugnare direttamente quella politica. Questa lettura, data da alcune organizzazioni settarie, è ben lontana dalla realtà. Lenin, combattendo l’economicismo, non diceva niente di nuovo: lo stesso Marx, nel sostenere la lotta economica, avvertiva di non esagerarne l’importanza.
Nel capitolo conclusivo di Salario, prezzo, profitto, Marx scriveva: “[…] la tendenza generale della produzione capitalistica non è all’aumento del livello medio dei salari, ma alla diminuzione di esso, cioè a spingere il valore del lavoro, su per giù, al suo limite più basso. Se tal è in questo sistema la tendenza delle cose, significa forse ciò che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare temporaneamente la sua situazione?
(…) Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande.
Nello stesso tempo la classe operaia, indipendentemente dalla servitù generale che è legata al sistema del lavoro salariato, non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che essa può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Perciò essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società. Invece della parola d’ordine conservatrice: ‘Un equo salario per un’equa giornata di lavoro’, gli operai dovrebbero scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: ‘Soppressione del sistema del lavoro salariato’.”
La lotta economica, per quanto necessaria e importante, non è lo scopo, ma il mezzo. Fino a quando il potere politico resta nelle mani della borghesia, le condizioni di lavoro e di vita dei proletari saranno sempre soggette agli alti e bassi della congiuntura economica. Le lotte avranno come obiettivo solo quello di provare ad impedire che il salario scenda al di sotto di un limite miserabile e che le condizioni di sfruttamento trasformino la classe lavoratrice in una “massa amorfa”. Questo è tanto più vero in un contesto di crisi economica, come quello in cui siamo entrati da 7-8 anni a questa parte.
La battaglia di Lenin contro l’economicismo nasceva nel momento in cui, mentre erano maturate le condizioni per la lotta politica, la componente che successivamente avrebbe dato vita al menscevismo, promuoveva la lotta economica come unico mezzo per combattere lo zarismo. Il menscevismo l’assolutizzava, idealizzandola come la “vera lotta” dei proletari per il cambiamento sociale. In questa veste, lasciavano il campo libero alla borghesia, “legittima titolare” della sola rivoluzione possibile, quella borghese.
In una fase precedente, fu lo stesso Lenin a sostenere e spingere le lotte economiche. In uno scritto del 1895 (Progetto e spiegazione del programma del partito socialdemocratico russo) argomentava in questi termini: “Aiutare gli operai significa indicare le esigenze più urgenti per le quali si deve lottare, esaminare le ragioni che aggravano particolarmente la situazione di questi o quegli operai, spiegare le leggi e i regolamenti sulle fabbriche, la cui violazione (oltre ai trucchi fraudolenti dei capitalisti) espone tanto spesso gli operai a una duplice rapina. Aiutare gli operai vuol dire esprimere in modo più esatto e più preciso le loro rivendicazioni e formularle pubblicamente, scegliere il momento più opportuno per la resistenza, scegliere il metodo di lotta, discutere la situazione e valutare le forze delle due parti impegnate nella lotta, ricercare se esiste un metodo migliore di lotta”.
Questo è il lavoro che, in questa fase concreta, fanno prevalentemente i nostri compagni delegati (e non) nei luoghi di lavoro. Ed è un lavoro fondamentale. La partecipazione a lotte per risultati contingenti e limitati non è in contraddizione con la lotta più generale per l’abbattimento del sistema capitalista e la trasformazione in senso socialista della società. L’esistenza stessa del partito rivoluzionario (anche se nella sua fase embrionale di sviluppo) è la garanzia che non verrà mai attribuito alle rivendicazioni parziali un valore fine a se stesso. Il metodo che da sempre ha caratterizzato il nostro movimento è quello del programma transitorio, non rinneghiamo le lotte per conquiste parziali ma le agganciamo sempre e comunque a una prospettiva di superamento del capitalismo, senza la quale le conquiste parziali vengono facilmente cancellate dai padroni.
In questo lavoro di propaganda l’uso del giornale e della nostra rivista teorica nei luoghi di lavoro assume un’importanza strategica.
La funzione della lotta economica e le tentazioni anarcosindacaliste
I marxisti hanno insistito più volte sul carattere pedagogico della lotta economica per la maturazione del livello di coscienza dei lavoratori, così come hanno insistito sul fatto che se questa lotta è slegata da una partecipazione attiva all’organizzazione rivoluzionaria del proletariato è un esercizio sterile, inconcludente, che in ultima analisi conduce all’opportunismo, e al piegarsi alla volontà della classe dominante, come si è visto più volte nel passato.
Oltre alla polemica con gli economicisti di destra, è necessario affrontare anche quella con gli economicisti di sinistra (anarcosindacalisti, sindacalisti rivoluzionari, operaisti), a cui abbiamo dedicato il primo numero di Falcemartello. In un testo di Trotskij del 1929, Comunismo e sindacalismo, troviamo alcune considerazioni rivolte ai sindacalisti rivoluzionari del gruppo di Monatte, a cui possiamo dare un valore generale:
“(…) L’espressione più definita di questo sindacalismo fuori tempo massimo è la cosiddetta Lega sindacalista. Per le sue caratteristiche, appare come un’organizzazione politica che tenta di subordinare il movimento sindacale alla sua influenza. Infatti recluta i suoi militanti secondo il metodo dei gruppi politici e non quello del sindacato. Ha una piattaforma, non un programma, e la difende nelle sue pubblicazioni. Ha una sua disciplina interna nel movimento sindacale. Nei congressi della Confederazione i suoi sostenitori si comportano come una frazione politica, così come fanno i comunisti. In poche parole: la tendenza della Lega sindacalista si riduce alla lotta per liberare entrambe le Confederazioni dalle direzioni socialiste e comuniste e unirle sotto la direzione del gruppo di Monatte. La Lega non agisce apertamente in nome del diritto della minoranza più avanzata a lottare per estendere la sua influenza sulle masse arretrate e sulla necessità che questo avvenga. Si presenta dietro la maschera di ciò che chiama ‘indipendenza’ sindacale. In questo senso si approssima al Partito socialista, che allo stesso modo esercita la propria direzione nascondendosi dietro lo slogan dell’‘indipendenza’ del movimento sindacale. Invece il Partito comunista dice apertamente alla classe operaia: questo è il mio programma, la mia tattica e la mia politica, e la propongo ai sindacati. Il proletariato non deve credere a niente alla cieca. Deve giudicare ogni partito e ogni organizzazione per il suo lavoro. Gli operai devono diffidare doppiamente degli aspiranti dirigenti che agiscono in incognito, e pretendono di far credere ai lavoratori che non hanno bisogno di alcuna direzione (…)”. (evidenziatura nostra)
Potremmo facilmente girare queste critiche a numerosi collettivi, “coordinamenti di lotta”, sindacati di base che agiscono in Italia (e non solo), che si oppongono al doppio livello di militanza (politico e sindacale) e tentano di fondere, per non dire confondere, le due funzioni (egualmente fondamentali) che da sempre hanno caratterizzato la lotta del proletariato.
L’importanza che dava Trotskij alla lotta contro queste posizioni è ben chiarita anche da un passaggio successivo del testo: “L’opposizione di sinistra deve connettere indissolubilmente i problemi del movimento sindacale con quelli della lotta politica del proletariato. Deve offrire un’analisi concreta del livello attuale di sviluppo del movimento operaio francese. Deve fare una valutazione, tanto quantitativa come qualitativa, del movimento di lotta attuale e delle sue prospettive in relazione alle prospettive dello sviluppo economico francese. Va da sé che essa esclude completamente la possibilità di una stabilizzazione e una pace capitalista che duri per decenni. Questo si deve a una caratterizzazione rivoluzionaria della nostra epoca. Da cui deriva la necessità di una preparazione opportuna del proletariato di avanguardia di fronte alle svolte brusche che non solo sono probabili ma inevitabili”.
Non separarsi dalle masse
Il principio generale a cui ci ispiriamo è da sempre quello di considerare la lotta sindacale come un terreno necessario per intervenire tra le grandi masse ed elevarne il livello di coscienza, sempre e comunque con il fine di impedire che la burocrazia sindacale separi l’avanguardia dalla massa dei lavoratori.
Su questo ci sono numerosi passaggi illuminanti nelle tesi sindacali dei primi quattro congressi dell’Internazionale comunista, così come nell’Estremismo di Lenin, nel capitolo: “Devono i rivoluzionari lavorare nei sindacati reazionari?”. In tutte le polemiche che abbiamo condotto in questi anni all’interno del sindacato ci siamo ispirati a queste posizioni che è necessario richiamare, seppur brevemente, in questo testo.
Nelle tesi del secondo congresso del Comintern si dice: “Ogni diserzione volontaria dal movimento professionale, ogni tentativo di scissione artificiale di sindacati che non sia determinato dall’eccessiva violenza della burocrazia professionista (dissoluzione di sezioni locali sindacali rivoluzionarie da parte dei vertici opportunisti) o dalla loro rigida politica aristocratica che impedisce alle grandi masse di lavoratori poco qualificati di entrare negli organismi sindacali, rappresenta un enorme danno per il movimento comunista. Esso scarta dalla massa gli operai più avanzati, più coscienti, e li spinge verso i capi opportunisti che lavorano negli interessi della borghesia (…)” (evidenziatura nostra).
L’idea di fondo è quella di lavorare nei sindacati di massa o comunque maggiormente rappresentativi, salvo che gli impedimenti burocratici siano tali da provocare l’espulsione dei nostri compagni o più in generale l’impossibilità a condurre la nostra azione verso i lavoratori.
Nei suddetti casi, le tesi avanzano anche una proposta metodologica su come condurre le scissioni quando sono inevitabili e necessarie: “Siccome i comunisti danno più valore alla natura e ai fini dei sindacati che alla loro forma, essi non devono assolutamente esitare di fronte alle scissioni che si potrebbero produrre nel seno delle organizzazioni sindacali, se per evitarle fosse necessario abbandonare il lavoro rivoluzionario e rifiutarsi di organizzare la parte più sfruttata del proletariato. (…) Nel caso in cui una scissione divenga inevitabile, i comunisti dovrebbero accordare una grande attenzione a che tale scissione non li isoli dalla massa operaia.”
Quello che deve essere evitato in tutti i casi, sono le scissioni fatte per “salvarsi l’anima”, per ragioni individuali, per il disgusto verso i burocrati, che non tengono conto del livello di comprensione generale delle masse.
Nel patrimonio storico della nostra Internazionale possiamo contare su diverse esperienze di lavoro sindacale, una delle più importanti è senza dubbio quella della Ugt-Ust di Alava (nel Paese Basco). La nostra Internazionale dirigeva l’Ugt in questa provincia ed esprimeva il segretario generale (Arturo Val del Olmo). Quando la burocrazia nazionale dell’Ugt decise di espellere i nostri compagni nel 1983, per evitare che si disperdesse il patrimonio di quadri e delegati che avevamo formato fin dai tempi della clandestinità durante la lotta contro la dittatura, i compagni decisero di dare vita all’Ust (Union socialista de los trabajadores) che organizzava circa 3.000 lavoratori nei principali settori lavorativi della provincia. Il sindacato visse per 10 anni fino a quando non venne riammesso nell’Ugt, dopo una battaglia campale, nella quale i nostri compagni rivendicavano la riammissione ad ogni congresso. Si tratta di un modello di lotta sindacale che merita di essere conosciuto e a cui è dedicato uno degli articoli del terzo numero di Falcemartello.
Le difficili condizioni in cui lavoriamo oggi in una serie di categorie sindacali della Cgil non possono farci escludere che un’eventualità del genere si verifichi nuovamente; è necessario preparare i compagni anche a una tale evenienza, pur sapendo che anche il cosiddetto sindacalismo di base non è immune da logiche burocratiche, sottoposto com’è alle stesse pressioni sociali e materiali dei sindacati confederali, particolarmente lì dove riesce ad avere un’influenza significativa tra i lavoratori.
Bastasse formare un sindacato alternativo per assicurarsi la vittoria contro il padronato, l’ostacolo rappresentato dalle burocrazie sindacali sarebbe stato rimosso da tempo.
Il sindacalismo di base oggi
La realtà di oggi è molto diversa da quello che esisteva negli anni ’80, quando diverse realtà del sindacalismo di base disponevano di un insediamento significativo, ad esempio nell’impiego pubblico, nei trasporti e nella scuola, e potevano contare su un notevole numero di quadri ereditato dalle lotte degli anni ’70.
Oggi il sindacalismo di base è la brutta copia di ciò che era in quegli anni ed è nel corso della crisi che assistiamo ad un passaggio qualitativo ulteriore del suo processo di degenerazione.
Potremmo citare gli scontri tra sigle verificatisi negli scorsi anni e che hanno fatto saltare il Patto di base, o quello che si è risolto nei tribunali, nel percorso traumatico che ha dato vita all’Usb nel 2010.
Il peggio forse lo abbiamo visto di recente quando i dirigenti dell’Usb, dopo aver fatto una campagna contro il Testo Unico sulla Rappresentanza, l’accordo siglato il 10 gennaio 2014 da Confindustria e Cgil-Cisl-Uil, hanno poi finito per aderirvi il 23 maggio del 2015.
L’argomento che hanno utilizzato per giustificare questa piroetta acrobatica è stato di essersi battuti strenuamente da soli contro questo provvedimento senza smuovere nulla, per cui avevano il dovere di “mettere in sicurezza” l’organizzazione. Niente altro che una scusa perché le energie impiegate in questa battaglia sono state minime e prevalentemente sul fronte legale. La Confederazione Cobas di Bernocchi in tal senso è stata la più lesta, aderendo al Testo Unico già il 24 marzo 2014, cinque giorni dopo che l’Usb aveva presentato il suo ricorso alla magistratura.
Questo cedimento trova le sue basi anche nelle ragioni che erano state addotte dai vertici dei sindacati di base per opporsi al Testo Unico. Infatti la parte iniziale del Testo Unico, che stabilisce le regole per la “misurazione della rappresentanza” – attraverso una media fra iscritti certificati e voti alle Rsu – non era in conflitto con la concezione generale dell’Usb e di altri sindacati di base, che da anni sostengono la necessità di una “legge sulla rappresentanza”, illudendosi che il sistema politico attuale possa stabilire regole che tutelino i “sindacati di classe”, quando la realtà è esattamente l’opposto, e cioè che un’ipotetica legge sulla rappresentanza, se mai ci sarà, servirà al medesimo scopo del Testo Unico: proteggere gli apparati dalla pressione dei lavoratori.
La conseguenza inevitabile di questo è che non appena la magistratura rigettava il ricorso, il 15 maggio scorso, dopo soli 8 giorni la direzione dell’Usb decideva di aderire al Testo Unico. Ma la cosa peggiore è che questa decisione veniva presa in modo repentino e inatteso per la stragrande maggioranza dei militanti di base, fino al punto che ancora pochi giorni prima del Consiglio nazionale dell’Usb, che ha assunto la decisione, sono stati organizzati presidi e alcuni scioperi, per la verità isolati, contro l’accordo.
Non c’era mai stata una discussione su cosa fare nell’eventualità del rigetto del ricorso, se non in ristretti ambiti, e il corpo del sindacato nel suo insieme è stato lasciato all’oscuro della decisione che andava maturando ai vertici.
Questo esempio dimostra come in Usb, ma si tratta di un dato generale, non esista oggi una reale vita sindacale, fatta di riunioni di delegati, militanti ed iscritti. Dalla nascita delle Rappresentanze di Base (Rdb), nei primi anni ’80, a quella di Usb, nel 2010, si è assistito a un progressivo decadimento della partecipazione e della preparazione politica e sindacale dei militanti, oltre che a uno svuotamento dei luoghi decisionali a cui possono accedere i compagni di base.
Per quanto circa 250 dirigenti e militanti si siano opposti a questa decisione sottoscrivendo un “Appello per il ritiro della firma dal Testo Unico”, la direzione Usb ha proseguito dritta sulla sua strada ignorando le critiche e calpestando regolamenti e statuti interni pur di imporre la sua decisione.
Quando il 5 settembre scorso si è tenuta a Bologna la riunione dei sostenitori dell’Appello, i compagni in questione hanno redatto un comunicato significativo: “È emersa unanimemente la convinzione che la vicenda del Testo Unico non rappresenti né un eccezione all’interno di una corretta prassi sindacale classista, né un primo segnale di una degenerazione di Usb verso il sindacalismo concertativo e sia invece la eclatante manifestazione di un processo in atto da tempo: ciò è stato efficacemente descritto negli interventi di diversi militanti con disparati esempi”.
I sindacati in tempi di crisi
Questa vicenda, che ha coinvolto con dinamiche più o meno simili altri sindacati di base, è istruttiva da molti punti di vista. Non si tratta solo di constatare che queste realtà, laddove riescono a conquistare una posizione significativa, si trovano in diversi casi a firmare accordi di natura concertativa alla stregua di Cgil-Cisl-Uil (i casi non si contano). Ancora più interessante è che numerosi militanti Usb (che presumibilmente vanno ben oltre i firmatari dell’Appello) sono giunti alla conclusione che non siamo di fronte a un errore sporadico ma a un processo degenerativo consolidato, determinato dalla pressione della classe dominante e dello Stato borghese, che ha reso l’Usb un sindacato concertativo a tutti gli effetti.
È diversa l’Usb dalla Cgil? Certamente sì. Così come la Cgil è diversa da Cisl-Uil. Si tratta di differenze qualitative? Cambia il grado di degenerazione politica, ma le ragioni che stanno alla base del processo sono le stesse. Nel caso specifico ci troviamo di fronte a un apparato che si è consolidato nell’arco di 30 anni (essendo l’Usb la continuazione di Rdb e un pezzo proveniente dalla Cub) che non ha mai rotto con le logiche tipiche del riformismo di sinistra.
Se guardiamo allo scenario generale possiamo constatare come le realtà migliori del sindacalismo di base siano quelle di più fresca costituzione (nelle quali un apparato vero e proprio non ha avuto il tempo di consolidarsi) soprattutto se espressione di processi di lotta reali e radicati, sottoposte dunque alla pressione diretta dei lavoratori. È oggi il caso del Si.Cobas o per citare altri esempi del passato (fine anni ’80 – inizio anni ’90) dello Slai Cobas all’Alfa Romeo, del Comu dei macchinisti o dei Cobas scuola.
Il problema, anche in queste esperienze avanzate, è che ogni volta che viene meno la pressione diretta dei lavoratori, si “istituzionalizzano” facendo rientrare dalla finestra le dinamiche burocratiche che erano uscite dalla porta.
Per tornare all’Usb, è utile riportare un passaggio della risoluzione approvata al Coordinamento nazionale dell’11-12 dicembre 2015: “(…) Non va sottovalutata l’operazione che è in corso ormai da tempo per privare il movimento dei lavoratori della propria rappresentanza collettiva, attraverso un’opera costante e scientifica di delegittimazione dei corpi intermedi, che trova terreno facile fra lavoratori ormai disincantati rispetto al ruolo di Cgil Cisl e Uil ma che indirettamente colpisce anche noi e che è fatta anche di continui e ripetuti attacchi ai servizi come Caf, patronato ecc.. Questi continui interventi legislativi di restrizione della possibilità di operare, con conseguente inevitabile riduzione dell’attività e quindi degli introiti, stanno già oggi mettendo a rischio anche per noi fonti di sostegno economico ancora indispensabili per l’Usb.
In questo quadro, che non ci sembra affatto fondato su una lettura esagerata della situazione esistente, ci troviamo di fronte all’apertura di un fronte interno che oggettivamente indebolisce la capacità di resistenza e di contrattacco dell’organizzazione e che si è concretizzato nell’Assemblea del 5 dicembre a Bologna convocata da tre organismi statutari locali (…)
Il Coordinamento nazionale Confederale Usb prende atto della volontà di rottura dell’unità dell’organizzazione messa in opera dai promotori dell’Assemblea del 5 dicembre che si sono peraltro rifiutati di discutere delle ragioni dell’assemblea nei luoghi deputati, primo fra tutti l’esecutivo del 2 dicembre.
Dissentire dalle decisioni assunte dall’organizzazione, anche a posteriori di scelte approvate a pressoché totale maggioranza, è lecito se ciò avviene negli ambiti deputati alla discussione interna e all’interno degli organismi democraticamente votati nei Congressi e negli organismi che ne hanno titolarità. È invece inaccettabile che, sommando questioni le più disparate e spesso antitetiche fra loro, si costituisca una vera e propria corrente/area interna con l’intenzione di ritagliarsi uno spazio di autonomia politica, organizzativa e amministrativa che si pone oggettivamente al di fuori delle regole e dello Statuto dell’ Usb (…)”
Apprendiamo così che in Usb non esiste il diritto di costituirsi in area, un diritto che persino la Cgil riconosce, e che l’organizzazione dipende finanziariamente dallo Stato borghese e dalle sue prebende (patronati, distacchi, ecc.)
Le ragioni materiali di questo processo degenerativo sono state ben spiegate da Trotskij nel testo: “I sindacati nell’epoca di declino dell’imperialismo”:
“C’è un aspetto comune nello sviluppo, o più correttamente nella degenerazione, delle moderne organizzazioni sindacali a livello mondiale: è il fatto che sempre più si avvicinano e si fondono con il potere statale. Questo processo è presente sia nei sindacati ‘indipendenti’, che in quelli socialdemocratici, comunisti e ‘anarchici’. Questo fatto da solo dimostra che la tendenza verso la fusione con lo stato è implicita non in questa o quella dottrina in quanto tale, ma è causata dalle condizioni sociali che sono comuni a tutti i sindacati. Il capitalismo monopolista non si fonda sulla competizione e sulla libera iniziativa privata, ma sul comando centralizzato. Le cricche capitaliste a capo dei trust onnipotenti, dei cartelli, dei consorzi bancari, ecc., vedono la vita economica dalle stesse altezze del potere statale e hanno bisogno ad ogni loro passo dell’assistenza e della collaborazione di quest’ultimo. A loro volta le organizzazioni sindacali dei principali settori industriali si trovano private della possibilità di trarre vantaggio dalla rivalità tra le diverse imprese. Si trovano invece ad affrontare un avversario capitalista centralizzato e intimamente legato al potere dello stato. Da qui si deduce la necessità dei sindacati – fino a quando questi rimangano su posizioni riformiste, cioè di mantenersi nei limiti della proprietà privata – di adattarsi allo stato capitalista e di porsi in competizione coi capitalisti per ottenere la sua collaborazione. Secondo la burocrazia sindacale il compito fondamentale consiste nel “liberare” lo stato dalla stretta del capitale, indebolire la sua dipendenza dai trust e spingerlo a passare dalla propria parte” (evidenziatura nostra).
Come spiega Trotskij l’unico modo per contrastare questo processo è rompere con il riformismo abbracciando una prospettiva rivoluzionaria: “Da quello che abbiamo detto fin qui sembrerebbe – a prima vista – semplice trarre la conclusione che i sindacati cessino di essere sindacati nell’epoca dell’imperialismo. Non viene lasciato quasi nessuno spazio alla democrazia operaia che, nei bei tempi andati in cui il libero mercato dominava la scena economica, costituiva la linfa della vita interna delle organizzazioni operaie. In assenza della democrazia operaia non può esserci alcuna libera lotta per l’influenza politica sulla massa degli iscritti ai sindacati. A causa di ciò sparisce l’arena principale per il lavoro dei rivoluzionari nelle organizzazioni sindacali. Una simile analisi, comunque, porterebbe a conclusioni completamente false. (…) i sindacati nell’attuale epoca non possono semplicemente essere organismi democratici come erano nell’epoca del libero mercato capitalista e non possono più mantenersi politicamente neutrali, cioè limitarsi a rispondere alle esigenze quotidiane della classe operaia. Non possono più essere anarchici, nel senso che non possono più ignorare l’influenza decisiva dello stato sulla vita delle masse e delle classi. Non possono più rimanere riformisti, perché le condizioni oggettive non lasciano alcuno spazio a riforme minimamente serie e durevoli. I sindacati al giorno d’oggi possono solo servire o, da un lato, come strumento ausiliario nelle mani del capitalismo imperialista per subordinare e disciplinare le masse operaie e sbarrare il passo alla rivoluzione, oppure – al contrario – i sindacati possono diventare uno strumento del movimento rivoluzionario del proletariato. La neutralità delle organizzazioni sindacali è ormai relegata irrevocabilmente al passato, passata a miglior vita insieme alla democrazia borghese. Da quello che si è detto si può ricavare chiaramente che, nonostante la progressiva degenerazione dei sindacati e il loro intrecciarsi con lo stato capitalista, il lavoro all’interno di queste organizzazioni non solo non perde alcunché della sua importanza, ma mantiene quella di prima e in un certo senso acquista un’importanza ancora più decisiva per qualsiasi partito rivoluzionario. La questione in gioco è essenzialmente la lotta per l’influenza sulla classe operaia. Ogni organizzazione, ogni partito, ogni tendenza che si conceda una posizione ultimatista sui sindacati, cioè in ultima analisi volti le spalle alla classe operaia per il semplice motivo che non è di suo gradimento l’organizzazione di questa classe, è destinata a perire, e – dobbiamo dirlo – non si merita altro” (evidenziatura nostra).
Naturalmente quando la spinta del movimento operaio è debole e la lotta di classe stenta, anche le forze più temprate vengono messe duramente alla prova. Nella storia del movimento marxista le defezioni di sindacalisti non si contano, come si è visto nei casi di adattamento agli apparati verificatisi anche nella nostre fila, anche da parte di compagni che avevano una storia politica assolutamente esemplare, fino a quel momento.
Affrontare questo aspetto da un punto di vista morale è assolutamente sciocco e superficiale. Si tratta di comprenderlo da un punto di vista materialista e di contrastarlo politicamente: da una parte garantendo un seguito collettivo all’attività sindacale (non solo da parte dei compagni sindacalisti), dall’altra elevando il livello politico dei nostri quadri sindacali e la loro totale internità al progetto politico complessivo del nostro movimento.
In mancanza di questo non ha senso parlare di un intervento sindacale fatto da marxisti, e ancora meno ha senso parlare di un’organizzazione rivoluzionaria.
La dialettica classe-apparato
Queste dinamiche che sono sempre esistite, come abbiamo visto, diventano particolarmente acute e pressanti in un contesto di crisi organica del capitalismo.
Nell’attuale situazione, i lavoratori hanno sempre meno strumenti di difesa economica. In passato la difesa degli interessi del capitale da parte dei vertici sindacali non era così spudorata come oggi, in quanto la borghesia aveva maggiori margini economici ed era disposta a raggiungere una mediazione su tempi e modi degli attacchi alla classe, in modo che gli apparati sindacali evitassero l’avvio di processi di lotta incontrollabili.
Ma questo elemento, che in passato interessava anche i padroni, nel garantire il ruolo di mediazione sociale degli apparati sindacali, si sta affievolendo sempre più, come dimostra l’offensiva portata avanti da Marchionne alla Fiat, che sta trovando un seguito in altre categorie. Il vertice sindacale trova contro di sé un muro sempre più alto rappresentato dalla resistenza del capitale, che dà sempre meno margini di concessione, intanto perché è consapevole che i lavoratori sono più ricattabili, dall’altra perché è sottoposto alle pressioni competitive del mercato mondiale.
Questo, se da una parte sta provocando un discredito senza precedenti degli apparati sindacali e un loro spostamento sempre più a destra, dall’altra, in determinate circostanze può produrre delle “sortite” brusche ed improvvise nella direzione opposta, di pezzi dell’apparato consapevoli che i loro privilegi sono garantiti solo fino a quando regge l’organizzazione ed il riconoscimento del suo ruolo di mediazione sociale, non solo da parte del capitale ma anche da parte dei lavoratori.
Per la verità questo tipo di “sortite” non si sono verificate in gran numero da quando è cominciata la crisi del 2008, e nei pochi casi in cui si sono verificate hanno avuto un carattere sbiadito, ad esempio in Grecia, in Spagna, in Portogallo, paesi che sono stati attraversati da processi significativi di radicalizzazione sociale. Ma questo non significa che questo elemento non si svilupperà in futuro, particolarmente in Italia, dove al momento non esiste una sinistra politica che possa esprimere la rabbia accumulata dalle masse contro il sistema. Quanto visto in Fiom tra il 2009 e il 2011 (fino all’accordo di Grugliasco) è solo l’anticipazione di un processo che con ogni probabilità si manifesterà con più forza in futuro.
È su queste basi che abbiamo avanzato la proposta di un partito di classe che nasca dai settori più combattivi del sindacato, in primo luogo, dalla Fiom. Non torneremo su questa questione che è stata già ampiamente affrontata, ma che obiettivamente è oggi in secondo piano a causa delle esitazioni di Landini, dettate dal suo riformismo e in ultima analisi dalla sua sfiducia verso le masse.
Le ragioni di una paralisi
Risulta evidente come si stia diffondendo tra i lavoratori la consapevolezza che per avere una minima possibilità di riuscita ci debba essere una lotta senza quartiere. Questo elemento si radica ogni giorno di più nella coscienza collettiva delle masse. I lavoratori sono sempre meno disposti a fare “lotte rituali”, e di fatto le disertano, ma in quelle occasioni in cui vengono chiamati a mobilitazioni serie e radicali, da parte di dirigenti o delegati di cui si fidano, rispondono: presente! È questo il caso dei facchini nelle mobilitazioni della logistica, vere e proprie lotte per la sopravvivenza, dove obiettivamente il Si.Cobas ha svolto un ruolo, così come lo stanno svolgendo, tra gli autisti, i nostri compagni con il movimento Trasporti in lotta.
Ma a parte alcune eccezioni, guardando alla classe in termini generali, la consapevolezza di cui sopra sta avendo l’effetto di paralizzare le mobilitazioni e quest’autunno è stato uno dei più “freddi” da molti anni a questa parte. Bisogna probabilmente risalire agli anni ’50, in un contesto per altro molto diverso da quello attuale, per trovare un autunno sindacale con un livello così basso di mobilitazione sindacale. L’Istat da un po’ di anni non ci viene in aiuto con le statistiche sul numero di ore di sciopero, ma al di là delle statistiche ciò che conta è che questa realtà viene percepita dai nostri compagni e dalle avanguardie più in generale.
Se è vero che i lavoratori lottano meno in un contesto di crisi perché hanno molto di più da perdere e sono più ricattabili, è anche vero che questo elemento oltre un certo livello di sfruttamento, quando la condizione diventa insopportabile, può trasformarsi nel suo contrario producendo esplosioni vere e proprie, difficili da far rientrare da una burocrazia sindacale, la cui autorità è ai minimi termini. Per questa ragione le multinazionali del settore della logistica a un certo punto si sono sedute al tavolo direttamente col Si.Cobas e hanno firmato accordi con concessioni significative. Hanno dato dieci per non essere costrette a dare cento in un secondo momento. Hanno nei fatti bypassato gli apparati confederali, aggravando la loro condizione di precarietà.
La risposta che si è avuta da parte della dell’apparato della Cgil è stata contraddittoria e differente a seconda dei territori: un settore si è spostato ancora più a destra organizzando azioni di crumiraggio contro gli scioperanti per accreditarsi agli occhi dei padroni e dimostrare la loro “utilità”, un altro settore invece sta tentando di recuperare terreno sul Si.Cobas, spingendosi in certi casi, nel proporre azioni di vero e proprio avventurismo. Si tratta di un’anticipazione di quello che in futuro vedremo su scala più generale.
Nel frattempo dobbiamo evitare di cadere nell’impazienza che è sempre foriera di gravi errori politici. Dobbiamo essere consapevoli che il processo conflittuale della classe lavoratrice, necessita dei suoi tempi. L’estensione delle lotte, il superamento dei loro limiti, non è qualcosa che i lavoratori possano realizzare per un’astratta “presa di coscienza”, per una astratta “negazione” della limitatezza dello scontro, o per la “semplice propaganda” fatta dall’esterno: quest’ultima è fondamentale soprattutto per rivolgersi alle avanguardie, ma quando si parla di larghe masse quello che conta più di ogni altra cosa è l’esperienza. La classe lavoratrice apprende attraverso tentativi successivi, in un processo che non è graduale ed è sottoposto a svolte brusche e salti di coscienza improvvisi. Perché questo è il carattere dell’epoca.
Pretendere un’immediata unificazione generale delle situazioni di conflitto come fanno i collettivi autogestiti o i presunti coordinamenti di lotta, significa concepire lo sviluppo del fattore oggettivo in modo astratto. Prima di arrivare a un nuovo autunno caldo, gli operai dovranno necessariamente attraversare un processo che è fatto di varie forme di resistenza sui luoghi di lavoro, di piccole lotte immediate, le quali non possono non partire che da rivendicazioni generiche e particolari al tempo stesso. La tentazione di sostituire lo stato reale in cui si trova la classe in questo momento con il lancio continuo di espressioni rivendicative “forti”, con le quali si crede di cambiare la situazione generale “stimolando”, per così dire, una reazione, è esercizio tanto sterile quanto velleitario.
Da qui la polemica che abbiamo ingaggiato con i dirigenti de Il sindacato è un’altra cosa, nelle assemblee di Bellaria e di Roma, presentando dei documenti critici che non richiamiamo in questo testo perché ampiamente conosciuti dai compagni. Il fatto che diversi esponenti dell’area confondano un atteggiamento che caratterizza da sempre il lavoro dei rivoluzionari, con mancanza di coraggio e pavidità sindacale, dimostra semplicemente come questi compagni siano impotenti e sempre più incapaci di stringere vere relazioni con il movimento reale della classe operaia, completamente assorbiti da logiche interne all’apparato.
I comunisti, come indicava Lenin, in nessun momento possono permettersi di vagheggiare superamenti idealistici di processi che possono essere solo materiali: essi devono aiutare e sostenere gli operai, partecipando attivamente, in un doppio compito di appoggio e sostegno delle lotte immediate e di indirizzo, affinché siano superati i limiti ed esteso il fronte di lotta. Devono stare sempre un passo avanti rispetto al livello di coscienza delle masse, ma se la distanza diventa quella che c’è tra Plutone e Marte, semplicemente non verranno presi in considerazione e le masse continueranno ad ignorarne l’esistenza.
La nostra collocazione nel sindacato
Come detto consideriamo la direzione de Il sindacato è un’altra cosa una componente inadeguata ad assolvere i compiti che sorgeranno dalle mobilitazione della classe lavoratrice, sia per limiti politici, che per le sue dimensioni sempre più esigue, che la rendono incapace di raccogliere le spinte che provengono dalle masse.
Con l’approssimarsi del congresso della Cgil dobbiamo lavorare fino all’ultimo per avere un unico documento alternativo a quello della maggioranza della Camusso, sostenuto dal fronte più ampio possibile. E che su queste basi si costituisca un’unica area d’opposizione, per quanto articolata e plurale al suo interno.
Naturalmente perché questa proposta si realizzi, non è sufficiente la nostra azione soggettiva, è necessario che Democrazia lavoro o parte di essa e gli Autoconvocati rompano gli indugi e portino fino in fondo lo scontro con la Camusso, annunciato nella Conferenza d’organizzazione, ma al quale fino ad oggi non hanno fatto seguire passi coerenti e conseguenti. Al contrario la Fiom sulla vicenda del contratto sta facendo dei passi nella direzione opposta.
In termini marxisti il criterio principale per individuare una tendenza o una forza sindacale alla quale rivolgersi non può essere dettato solo dalla piattaforma che formalmente esprime e dalla sua vicinanza alle nostre posizioni, è necessario porsi anche il problema della capacità e delle condizioni materiali che questa tendenza ha di incidere sul quadro complessivo della lotta di classe. È fin troppo palese che si può fare il programma più bello di questo mondo ma se è destinato a restare sulla carta la sua utilità è pari allo zero.
Per questa ragione dobbiamo prestare grande attenzione a non erigere steccati “artificiali” tra noi e i settori del proletariato che in prospettiva svolgeranno un ruolo decisivo nella lotta di classe in questo paese.
Ma non è questo l’unico problema, dobbiamo anche essere coscienti dei pericoli che comporta un lavoro prolungato in una componente che, per le sue dimensioni ristrette, vede forze e individui che svolgono un ruolo assolutamente marginale nel conflitto sociale assumere posizioni dirigenti di primo piano. Questo alla lunga non può che produrre concezioni settarie e opportuniste dettate dalla ricerca esasperata di scorciatoie e fughe in avanti tese ad uscire dal cono d’ombra in cui si è per assenza di radicamento e di proposta politica.
Non è casuale che di fronte all’inizio di un movimento di massa, promosso lo scorso autunno dal vertice della Cgil, la maggior parte dei dirigenti de Il sindacato è un’altra cosa fossero completamente disorientati, nell’incapacità più assoluta di applicare la tattica del fronte unico allo scopo di contendere la direzione delle lotte agli apparati burocratici riformisti.
Il fatto che diversi dirigenti di quest’area abbiano dichiarato a più riprese che si sentono un “corpo estraneo” alla Cgil, dimostra fino a che punto siano incapaci di svolgere una seria battaglia per l’egemonia. Non si capisce per altro che senso ha restare in Cgil partendo da posizioni di questo tipo, tanto varrebbe rompere gli indugi ed uscire, così come ha fatto il leader storico della componente, Giorgio Cremaschi.
La Cgil può tornare a “cavalcare la tigre”?
Cremaschi, come emerge chiaramente dal suo ultimo libro, era giunto alla conclusione che una rigenerazione della Cgil, attraverso la spinta del movimento di massa, così come avvenne negli anni ’70, non potesse più ripetersi. Coerentemente con questa posizione è uscito. Se si giunge alla conclusione che i vertici sindacali non hanno più quella capacità di recupero che gli permette di “cavalcare la tigre” quando il movimento torna a presentarsi sulla scena è logico proporre delle strade alternative come quella che è stata avanzata da Cremaschi, della Costituente di un nuovo sindacato di classe.
Si tratta di una posizione che ha una sua coerenza interna e che merita di essere affrontata perché può insinuarsi nella testa di molti attivisti. Per altro è una tesi che fa il paio con un’altra idea che circola sempre più, e cioè che possa esserci un “cedimento strutturale” della Cgil simile a quello visto in Rifondazione comunista e nella sinistra politica più in generale.
È legittimo chiedersi fino a che punto l’estrema subalternità delle direzioni sindacali alle compatibilità, in assenza di grandi movimenti di massa più o meno spontanei, non determini, in ultima analisi, l’irrilevanza della stessa mediazione burocratica. Questa passività coesiste infatti con segnali di crisi per non dire di sgretolamento che si sono visti in Cgil, come le recenti dimissioni di segretari di peso (Campania, Napoli, Milano) e il commissariamento di varie strutture sindacali.
È importante tuttavia non confondere alcuni elementi, con tendenze consolidate guardandosi bene da valutazioni impressionistiche, poiché la crisi del riformismo (vecchio e nuovo che sia) non impedisce che, in mancanza di alternative serie e credibili, continui a esercitare un’egemonia su ampi settori di lavoratori.
Per quanto una possibilità teorica del genere non possa essere esclusa bisogna anche dire che il parallelo con Rifondazione comunista non regge a un’analisi approfondita. In primo luogo perché un sindacato non è un partito, e anche quando ha una politica ultra-concertativa non viene abbandonato facilmente dai lavoratori. La sua esistenza viene giustificata agli occhi delle masse dalla necessità di difendersi quotidianamente sui luoghi di lavoro anche per le piccole cose (oltre che assicurarsi una serie di servizi). Il sindacato è l’unico soggetto esterno che può entrare in fabbrica e negli uffici e che in definitiva gestisce le trattative con il padrone su questioni che toccano direttamente la vita dei lavoratori.
I lavoratori possono anche sognare un sindacato basato sulla democrazia operaia ma, preso atto della realtà, anche quando il sindacato si schiera apertamente contro di loro, se non possono sostituirlo, provano a condizionarlo e a tirarlo il più possibile dalla loro parte. Non è un caso che nonostante la crisi conclamata di autorità dei sindacati confederali non ci sia stato un tracollo rilevante delle iscrizioni alla Cgil. Per altro l’esperienza di altri paesi in cui la sinistra è scomparsa per un lungo periodo di anni (si pensi agli Usa o all’Argentina) non ha determinato una scomparsa delle organizzazioni sindacali, tutt’altro, anzi per certi aspetti ne veniva rafforzata la funzione.
In secondo luogo esiste una differenza qualitativa tra un’organizzazione politica come Rifondazione, che nei suoi tempi migliori aveva 100mila iscritti (e non più di 20mila attivisti) e un’organizzazione come la Cgil che ha oltre 5 milioni di iscritti (di cui circa la metà lavoratori attivi) e che è radicata nella coscienza e nella memoria storica del proletariato.
Riassumendo: la crisi del riformismo sindacale non determina necessariamente la rottura attiva di masse importanti di lavoratori con le direzioni che conducono alla bancarotta. L’apparato della Cgil ha ancora grandi riserve di consenso e di “recupero” tra le grandi masse, non appena deciderà di chiamarle alla mobilitazione.
Le mobilitazioni dello scorso autunno hanno dimostrato una volta di più che la Cgil è l’unica organizzazione del movimento operaio in questo paese che è in grado di mobilitare milioni di persone (così come fece Cofferati nel 2001-2003), ed è questo e nient’altro che giustifica il nostro orientamento generale verso questa organizzazione. Scioperi generali convocati dai sindacati di base ne abbiamo visti un’infinità in questi anni, ma è del tutto evidente la scarsa utilità di convocare “scioperi generali” che, con tutto il rispetto, riguardano poche migliaia di lavoratori (e che sono sempre meno negli ultimi tempi).
Per quanto concerne infine la Costituente del sindacato di classe, abbiamo visto un’infinità di tentativi in questi anni promossi dai sindacati di base e il risultato è stato sempre lo stesso: invece di unire, si è andati verso una frammentazione ancora maggiore delle realtà esistenti alla sinistra della Cgil, proprio nel momento in cui, almeno sulla carta queste organizzazioni avevano delle condizioni ideali per crescere.
Il fatto che Renzi abbia messo nel mirino la Cgil (tra le altre cose con il taglio dei finanziamenti ai patronati e ai funzionarati) è un elemento che non può essere esagerato, ma che in ultima analisi avrà i suoi effetti, in quanto aggrava la crisi di prospettiva della burocrazia e la spinge nella direzione di provare a riaffermare il suo ruolo.
Messi con le spalle al muro a un certo punto i vertici sindacali potrebbero reagire, anche perché è in via di consolidamento una corrente “renziana” che prova a contrapporsi alla Camusso e ad organizzarsi a partire dai settori più moderati della confederazione. Si tratta di quei settori che vedono nella Cisl il loro modello di riferimento.
L’atteggiamento dei padroni
Consapevoli della fragilità dell’apparato sindacale, i padroni sono determinati ad approfittare al massimo della situazione, investendo solo il minimo necessario e sfruttando al massimo i lavoratori.
In questa luce va vista la discussione sul nuovo modello contrattuale e le controriforme messe in cantiere dal governo. L’obiettivo è abolire gli ultimi diritti collettivi, come il diritto all’assemblea, di sciopero e il contratto nazionale, tutti elementi che non colpiscono solo i lavoratori ma anche il potere di mediazione delle burocrazie sindacali, che si trovano sempre più schiacciate dalla classe dominante.
I padroni non esitano a recedere da contratti considerati troppo onerosi annullandoli e puntando a farsi il proprio. Esattamente come ha fatto Marchionne in Fiat nel 2010 quando è uscito da Confindustria e ha introdotto il contratto del gruppo. La stessa cosa accade oggi con Federdistribuzione, che organizza un settore che ha alle sue dipendenze 320mila lavoratori e somma 70 miliardi di fatturato, o come si è visto nel settore assicurativo e nella sanità privata. La ritirata operata dopo lo sciopero del 12 dicembre 2014 e successivamente contro la “Buona scuola” ha generato un vero e proprio rinculo nella classe lavoratrice. Questo ha generato disorientamento e frustrazione tra i lavoratori spianando la strada al governo per nuovi attacchi.
Per il vertice sindacale l’unica cosa che ha sempre contato è essere riconosciuta come interlocutore affidabile dallo Stato e dai padroni. Una volta esaurita la strategia della mobilitazione esclusivamente dimostrativa dello scorso autunno, davanti all’indisponibilità di Renzi a trattare, il vertice della Cgil aveva davanti due scelte, o passare dalle azioni dimostrative a una mobilitazione vera, oppure abbandonare il terreno della lotta per ripiegare su un terreno che è anche più rassicurante e conosciuto dalla burocrazia. Hanno scelta la seconda, che però non risolve il problema di sopravvivenza dell’apparato e la classe dominante non resterà a guardare, ma continuerà sulla sua strada come un rullo compressore. Così come farà il governo.
La Fiom
In questa dinamica si inserisce la traiettoria politica della Fiom.
Davanti al rompete le righe della Cgil contro il Jobs act, Landini ha preferito adeguarsi anziché rendersi protagonista del rilancio della mobilitazione, ripiegando prima sulla Coalizione sociale che ha promosso l’iniziativa fallimentare contro il governo del 21 novembre 2015, per poi, una volta preso atto che dietro alla coalizione non c’erano forze significative e aggiuntive alla Fiom, ripiegare completamente sul fronte sindacale e provare a portare a casa un accordo nazionale sul contratto, rompendo la dinamica di accordi separati che hanno escluso la Fiom in questi anni.
Il fallimento dell’assemblea nazionale della Coalizione sociale di settembre, la revoca della manifestazione del 17 ottobre, la scarsa partecipazione alla manifestazione del 21 novembre, non sono il frutto di un clima di per sé passivo nella classe, ma di un’azione cosciente dell’apparato che ha bagnato le micce per agevolare la strada ad un accordo coi padroni.
Le ragioni dello scontro interno tra Landini e Camusso restano tuttavia latenti, anche se Landini ritiene prioritario “abbozzare” per portare a casa un accordo coi padroni ed essere legittimato ai tavoli dalla controparte.
Pensa di spendersi questo risultato nella battaglia interna alla Cgil. A Cervia il vertice Fiom ha presentato una piattaforma minimale, con grandi concessioni su punti che in passato erano stati motivo di rottura sul contratto nazionale. Ma si tratta di un’illusione su cui Landini non potrà che essere sconfitto ancora una volta dal resto dell’apparato. L’unico modo per mettersi “alla testa” della Cgil, è quello di chiamare alla mobilitazione i lavoratori facendo appello alla base sindacale contro la linea della Camusso, una cosa che il segretario della Fiom in questo momento si guarda bene dal fare.
Il contratto dei metalmeccanici sarà uno snodo fondamentale. I padroni hanno chiarito due punti irrinunciabili. Non ci deve essere nessun aumento salariale e a questo giro anche la Fiom deve firmare. Se non ci sono entrambi le condizioni il contratto non si farà. Il motivo è semplice, là dove la produzione tira i padroni non vogliono avere noie dai metalmeccanici della Cgil, che comunque sono usciti vittoriosi dalle elezioni Rls all’interno del gruppo Fiat e non solo. Secondo i dati forniti dalla Fiom, nell’industria circa il 62% dei delegati sono iscritti alla Fiom (con punte del 90% in Emilia Romagna) ed in Fiat, nonostante la dura discriminazione e repressione subita in questi anni comunque la Fiom si attesta tra il 35 e il 40% delle preferenze.
Lo snodo davanti a cui ci troviamo è il seguente: se Landini porta a casa un accordo, anche solo un accordo ponte per un anno, sarà un accordo pessimo e inevitabilmente aprirà una discussione anche in una parte di quei delegati e operai che in questi anni lo hanno sostenuto. Se invece alla fine l’accordo non si trova, per il vertice della Fiom si pone concretamente il problema di organizzare il conflitto, che significa rompere questo clima di apatia sindacale che ha caratterizzato l’autunno che è alle nostre spalle. In entrambi i casi si aprono delle opportunità importanti per il nostro intervento.
Democrazia lavoro e gli autoconvocati
La maggioranza dell’apparato della Fiom e dei delegati metalmeccanici si riconosce in Cgil nell’area Democrazia e Lavoro, anche se formalmente Landini e i membri della segreteria nazionale della Fiom non hanno aderito all’area. Si tratta di una corrente frutto della fusione di un settore di Lavoro società e de La Cgil che vogliamo, dove quasi tutto viene gestito attraverso la struttura dei funzionari che aderiscono all’area. Nonostante ciò la base di delegati che sostengono l’area ha molti elementi combattivi ed è significativamente più vasta di quella che aderisce all’area de Il sindacato è un’altra cosa.
Un settore importante di questi delegati, non solo metalmeccanici, si riconosce negli Autoconvocati in Cgil una struttura messa in piedi da Rinaldini, con il sostegno di Nicolosi, in cui alcuni delegati tentano di portare avanti una posizione critica in Cgil slegata formalmente dalle posizioni di Democrazia e Lavoro.
In futuro, quando le strutture della Cgil saranno maggiormente attraversate dal conflitto sociale, pertanto più permeabili a una battaglia d’opposizione, la struttura degli Autoconvocati potrà rivelarsi un ambito interessante. Da qui la necessità, fin da ora, di promuovere campagne e appelli per battaglie unitarie con l’obiettivo di allargare il fronte d’opposizione alla Camusso.
Democrazia e Lavoro non è un’area compatta ma una coalizione di componenti, Landini, Rinaldini e Nicolosi stanno insieme per fare massa critica contro il resto dell’apparato. È destinata a subire fratture e ricomposizioni in un processo tortuoso che sarà determinato non dai dirigenti che la guidano (che possono avere ogni tipo di evoluzione) ma dagli sviluppi del movimento e da come questo si rifletterà al suo interno. L’aspetto decisivo è la presenza della Fiom, ma anche di pezzi rilevanti di altre categorie. È del tutto plausibile che il processo di definizione di una vera corrente di opposizione in Cgil sarà traumatico e non lineare. Ma in qualsiasi caso riguarderà in primo luogo quel settore di lavoratori che si riconoscono in Landini e nella sua componente, a cui se ne aggiungeranno di nuovi (che proverranno dalle altre aree o si integreranno per la prima volta alla lotta sindacale).
Il nostro movimento dovrà essere presente in questo processo fin dai suoi primi passi se vorrà giocare un ruolo. Un processo per altro che riguarderà anche il resto de il Sindacato è un’altra cosa che ne verrà semplicemente trascinato a prescindere dalle opinioni dei suoi dirigenti.
Non siamo nelle condizioni di prevedere se gli Autoconvocati, da piccola realtà di delegati quale sono ora, possa trasformarsi in una autoconvocazione vera e propria così come lo è stata quella del 1984 o il coordinamento Rsu del 1992-93. Tendiamo a pensare di no ma è difficile, per non dire impossibile, fare delle previsioni così specifiche.
Ciò nonostante rappresentano un terreno pratico in cui promuovere la proposta di fronte unico ai lavoratori che li compongono e a quelli di Democrazia e Lavoro. Esattamente come facciamo nelle battaglie che conduciamo negli organismi della Cgil, che si rivolgono prevalentemente ad ambiti dirigenti, e che pubblicizziamo all’esterno, come è avvenuto con il documento presentato al direttivo nazionale della Funzione Pubblica del 29 ottobre 2015, assieme ai compagni di Democrazia e Lavoro.
Il sindacato è un’altra cosa
Il sindacato è un’altra cosa da tempo non è più in grado di intercettare neanche il malessere tra gli attivisti più avanzati in Cgil. Ogni giorno che passa il profilo dell’area è sempre più settario, marginale alle reali contraddizioni che si sviluppano nella classe. Lavora più come un intergruppo politico-sindacale che come una vera e propria opposizione in Cgil.
Se da un lato prosegue la disgregazione che da tempo andiamo analizzando, con il passaggio di delegati di quest’area ai sindacati di base (Usb in particolare), dall’altro ogni scadenza, che sia un direttivo, un comitato centrale della Fiom, o una qualsiasi iniziativa di mobilitazione (vedi le manifestazioni convocate dalla Cgil su Jobs act e Buona scuola) viene concepita dai suoi dirigenti esclusivamente come un pretesto per attacchi sterili e testimoniali nei confronti dell’apparato.
Il livello di disgregazione è tale che ormai non esiste neanche la parvenza di un collegamento tra le iniziative promosse dal vertice dell’area e un minimo di azione nei territori. Con il risultato che tendenzialmente ogni territorio provvede a fare da sé e per sé.
Con la definitiva uscita di Cremaschi dalla Cgil, e quindi dall’area, il processo di degenerazione si è aggravato. La crisi finale di quest’area è una prospettiva molto concreta. Come hanno dimostrato i movimenti dello scorso autunno e della primavera, Il sindacato è un’altra cosa è destinato a inabissarsi ogni volta che il movimento dei lavoratori emerge, per tornare a galleggiare nelle fasi di riflusso, quando può limitarsi a polemizzare con gli “apparati dirigenti venduti”.
Il nostro intervento nel contesto attuale
Nonostante la progressiva degenerazione dei sindacati e il loro intrecciarsi con lo Stato capitalista, il lavoro all’interno di queste organizzazioni, per dirla con Trotskij “non solo non perde alcunché della sua importanza, ma ne acquista ancora di più”.
Sempre che sia basato da un significativo intervento di base dell’insieme dei compagni davanti ai cancelli, negli scioperi e in ogni accenno di mobilitazione della classe lavoratrice con i nostri giornali e il nostro materiale politico.
L’esperienza accumulata nelle vertenze sindacali in questi anni rappresenta un patrimonio prezioso per tutti i compagni. Il nostro intervento si è esteso ben oltre i metalmeccanici, che rimangono il principale terreno di intervento, vedendoci protagonisti di vertenze che in alcuni casi hanno avuto un carattere nazionale come
alla Fiat di Pomigliano.
Nell’ultimo anno, particolarmente complesso, abbiamo diretto lotte sia offensive che difensive, applicando nella pratica i metodi che costituiscono il patrimonio del nostro movimento.
La base del nostro intervento è molto ampia e riguarda settori con caratteristiche molto diverse tra loro, dai metalmeccanici dove permane una tradizione sindacale e le condizioni contrattuali sono sicuramente migliori, al pubblico impiego che dal 2009 è senza contratto nazionale, passando a settori come il commercio in cui assistiamo a condizioni di supersfruttamento e una incredibile frammentarietà del settore, nonostante un livello di sindacalizzazione elevato (la Filcams è il sindacato che vede oggi il maggior numero di iscritti tra le categorie del settore privato della Cgil), fino a una presenza nel settore bancario-assicurativo in cui, per la continua crisi delle banche, abbiamo assistito alla ripresa di mobilitazioni da parte dei lavoratori.
In generale troviamo quasi dappertutto attenzione alle nostre proposte e una disponibilità a discutere da parte dei lavoratori, sia rispetto alle questioni prettamente sindacali che in generale sulle nostre posizioni politiche.
La questione fondamentale è avere l’audacia necessaria, saper cogliere le occasioni quando si presentano e saper conquistare il rispetto dei lavoratori e dei delegati con la spiegazione paziente delle nostre idee. Questo vale tanto nell’intervento ai cancelli che negli attivi e nelle assemblee sindacali.
Un esempio è quanto successo nell’assemblea generale del Nord Italia nell’impiego pubblico del luglio 2015. Assemblea convocata dai vertici di Cgil-Cisl-Uil per “la riconquista del contratto nazionale”. Centinaia di delegati provenienti da diverse regioni erano venuti a Milano con grandi aspettative deluse dal vertice sindacale che ha impostato la riunione su basi moderate, a dir poco, per evitare di innescare un processo di lotta simile a quello visto nella scuola.
Gli ingredienti per una mobilitazione estesa c’erano e continuano ad esserci, in particolare nella sanità dove i lavoratori sono da tempo al limite della sopportazione. Su queste basi la nostra compagna delegata è riuscita con concetti semplici e molta determinazione a strappare applausi convinti e ripetuti, costringendo la segretaria nelle conclusioni a proporre posizioni più radicali per recuperare il controllo dell’assemblea.
Nel commercio, davanti all’attacco senza precedenti delle principali aziende della distribuzione, Cgil-Cisl-Uil hanno dovuto convocare due scioperi generali. Nel primo sciopero il 7 novembre 2015, il nostro intervento ai presidi, per quanto fossero piccoli, ha offerto ottime opportunità di diffusione e di discussione.
Quello del riconoscimento sul proprio posto di lavoro è sicuramente uno degli aspetti più importanti per i nostri attivisti. Il ruolo di delegato per un compagno del nostro movimento deve essere uno strumento per promuovere le idee rivoluzionarie partendo dalla soluzione dei problemi immediati e quotidiani.
I risultati ottenuti dai nostri compagni nelle elezioni delle rappresentanze sindacali, in particolare nei metalmeccanici, offrono alcuni spunti di riflessione. Il lavoro costante, l’audacia, e il sostegno dei lavoratori più motivati, sono alla base del nostro radicamento.
Unire i diversi settori della classe
Per quanto riguarda le ultime vertenze che abbiamo affrontato due acquisiscono un’importanza particolare. Si tratta delle vertenze modenesi della Carpigiana e della Motovario.
Alla Carpigiana ci siamo trovati di fronte alla disdetta da parte dell’azienda di un contratto con una cooperativa di una quarantina di dipendenti. Alla fine i lavoratori hanno vinto e sono rimasti in fabbrica grazie alla minaccia di mettere in campo una lotta dura. È bastato un blocco di qualche ora per portare il padrone a più miti consigli. Questo risultato è stato possibile grazie al fatto che siamo riusciti a dar vita a un fronte unico tra la Fiom e il Si.Cobas. In un primo momento i dirigenti del Si.Cobas, così come quelli della Fiom, non ne volevano sapere di unire le forze dei due sindacati, anzi proponevano ai propri iscritti di accettare i licenziamenti e arrivare a un accordo per la buona uscita.
Solo la pressione degli iscritti, che avevano toccato con mano la nostra determinazione a difendere tutti i posti di lavoro, ha portato i dirigenti del Si.Cobas a rivedere la loro posizione. La minaccia del blocco ad oltranza dei cancelli, sommata al sostegno annunciato dei lavoratori diretti ha permesso alla vertenza di vincere. L’unità dei lavoratori diretti e indiretti ha sconfitto la controparte.
Alla Motovario siamo andati ben oltre, abbiamo coinvolto i lavoratori diretti nella mobilitazione a difesa dei lavoratori di una cooperativa che stavano per essere licenziati. I lavoratori diretti, erano già impegnati da mesi nel rinnovo del contratto integrativo, finché la scorsa estate il nostro compagno delegato di fabbrica, si riuniva con i lavoratori della cooperativa per convincerli a lottare contro il licenziamento. La fabbrica aveva molto lavoro, il padrone non poteva permettersi un conflitto prolungato, così il giorno dello sciopero della cooperativa con il blocco dei cancelli e lo sciopero dei lavoratori diretti in solidarietà, ha ceduto in poche ore. Questa vittoria ha galvanizzato i lavoratori diretti che subito dopo hanno deciso di intensificare la mobilitazione per l’integrativo, e nel giro di poche settimane si è arrivati ad ottenere quello che da sette mesi si rivendicava.
La nuova frontiera della logistica
L’esperienza dell’intervento nella logistica e in particolare in Sda, che ha visto in molte zone i compagni senza nessuna esperienza sindacale intervenire con un volantino che offriva una piattaforma semplice e nello stesso tempo decisamente migliorativa, ha dimostrato che, nonostante la cappa burocratica e la passività di molti delegati, i lavoratori discutono e si interessano. Un intervento che ha mostrato la sua efficacia e che va certamente approfondito nel prossimo periodo.
La novità rispetto al passato è che per il vuoto politico e sindacale che si è prodotto anche un intervento come questo, se determinato e con parole d’ordine semplici ed efficaci può dare dei risultati.
Quando due anni fa abbiamo fatto il congresso della Cgil avevamo registrato esattamente questo ambiente. Una estrema disillusione dei lavoratori verso i dirigenti sindacali, e una notevole disponibilità ad ascoltare le nostre proposte. Non assistiamo tanto a una riduzione degli attivisti, quanto ad una inerzia, alla progressiva perdita di fiducia e di orientamento politico e quindi alla difficoltà di interpretare quanto avviene nella classe in termini generali. Tuttavia la conseguenza più importante della crisi del sindacato è il carattere frammentario della conflittualità nel movimento operaio e il consolidamento di nuovi punti di riferimento, almeno per quanto riguarda il settore della logistica, di una forza come il Si.Cobas.
Il Si.Cobas è cresciuto sulla contraddizione di fondo dell’epoca attuale: il sindacato è assente e tuttavia non c’è mai stato così tanto bisogno di sindacato come ora. La nostra esperienza nel settore della logistica e l’attenzione che gli abbiamo prestato negli ultimi anni deve aiutarci a capire quanto sta avvenendo e ad intervenire correttamente.
Abbiamo scritto numerosi articoli sulla modalità di sfruttamento in questo settore attraverso il sistema degli appalti e dei subappalti da parte di un piccolo gruppo di multinazionali che detengono il controllo del mercato e che hanno macinato cifre importanti di profitti. Nella stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro non esiste la percezione da parte dei lavoratori di un quadro normativo di riferimento del loro rapporto di lavoro. Esistono ampi margini di illegalità e lavoro nero. La Filt, nel trasporto merci, dal 2004 al 2013 è passata da 36mila a 58mila iscritti, un aumento del 63%. Sebbene abbia registrato un lieve calo degli iscritti nell’ultimo anno di cui abbiamo cifre, nel settore degli appalti della logistica gli iscritti si mantengono in crescita e sono passati dal 2010 al 2013 da 26mila a 36mila.
Nonostante questo sindacato sia percepito, e spesso non a torto, dagli attivisti e dai lavoratori più coscienti, come un sindacato concertativo, la massa dei lavoratori, senza né esperienza, né tradizione di lotta, vi si rivolge pur di avere una qualsiasi forma di tutela. Nella misura in cui i lavoratori non reagiscono collettivamente alle condizioni di sfruttamento, e non sottopongono i dirigenti confederali alla pressione della lotta, questi ultimi esercitano sui lavoratori la loro influenza, attraverso la contrattazione di deroghe al contratto, peggioramenti sostanziali del salario e della condizione di lavoro, in cambio della continuità lavorativa.
Le ragioni del successo del Si.Cobas e i limiti di avventurismo
Le ragioni del supersfruttamento e dello scarso insediamento sindacale sono anche oggettive: fra gli autisti c’è stato un fenomeno di proletarizzazione, nella misura in cui la crescita del settore ha portato tanti padroncini a fallire e diventare dipendenti. Fra i magazzinieri è molto forte la componente degli immigrati e la loro divisione su basi di comunità. Queste particolarità hanno facilitato l’insediamento del Si.Cobas. Anche se questo insediamento non va esagerato visto che stiamo parlando di un’organizzazione che su scala nazionale non conta su più di 10mila iscritti.
Tuttavia nonostante tutte le specificità del caso non possiamo non vedere come elementi di supersfruttamento senza regole e totale assenza del sindacato siano ormai diffusi in molte categorie: sicuramente nel commercio, ma ormai anche nelle fabbriche, nei servizi e in particolare negli appalti (ferrovie, ecc.). Il totale distacco dei sindacati confederali, per non parlare del loro dibattito interno, dalla condizione reale della classe, apre obiettivamente lo spazio per l’estensione di forme di sindacalismo conflittuale analoghe.
Cosa ha permesso al Si.Cobas di inserirsi in questo vuoto, a differenza degli altri sindacati extraconfederali? Quella di assumere lo scontro con il padronato quale leva decisiva per l’accumulo di forze ulteriori e di concentrarsi su un segmento della classe lavoratrice estremamente sfruttato, con aziende che avevano un mercato che tirava come da nessun’altra parte. L’elemento economico non può essere esagerato, tuttavia è fuor di dubbio che in un contesto in cui è esploso il commercio on line le aziende del settore hanno avuto un’impennata in una situazione di generale stagnazione economica, fattore che ha favorito gli spazi per lotte rivendicative.
Il fatto che le conquiste si ottengono sul terreno dello scontro sociale, dello sciopero e dei blocchi improvvisi è un punto banale, ma ormai dimenticato dagli apparati sindacali, abituati a sedersi ai tavoli, o al limite a convocare noiosissimi cortei con largo anticipo (e quindi facilmente assorbibili dalla controparte) con i fischietti e le canzoncine di lotta per far contenti un po’ di delegati di sinistra.
I padroni ce l’hanno detto in tutte le salse: non c’è trippa per gatti. Dunque per strappare conquiste è necessaria la mobilitazione, mettendo in campo la forza della classe lavoratrice. Questo il Si.Cobas lo ha capito e su questo punto ha basato la sua crescita. Oggi per i padroni sciopero vero, blocco, danno alla produzione sono sinonimi di Si.Cobas (lo si vede anche dagli editoriali del Corriere della sera) e i sindacati confederali avvertono la pressione di questo sindacato, non tanto perché toglie loro iscritti, quanto perché i padroni mettono in discussione la loro titolarità a trattare e chiudere i contratti.
In realtà il Si.Cobas è lontano dal diventare una minaccia a livello nazionale, e la loro inerzia nella battaglia per il Contratto nazionale, dopo lo sciopero del 29-30 ottobre, lo dimostra ma in tante realtà dei trasporti sono il sindacato di riferimento, perché hanno mostrato con atti di forza di essere realmente rappresentativi (vedi gli accordi Bartolini, Tnt, ecc.).
Come l’hanno costruita questa forza? In molti casi è bastato loro avere un punto di riferimento determinato a lottare, che ha costruito un primo gruppo, per quanto minoritario assolutamente deciso e compatto. Iniziato il lavoro di proselitismo, l’unico modo per verificare l’esito del proselitismo è agire, e attraverso la prova di forza accumulare nuove forze.
Il Si.Cobas ha riportato alcune vittorie, ma ha avuto anche molti licenziati, denunciati, picchiati, ecc., questo solo in parte si deve alla durezza dello scontro che in una certa misura rende inevitabile che si prendano dei rischi, c’è anche un altro elemento che ha pesato molto è che si richiama ai metodi utilizzati dagli Iww americano.
In tanti casi il Si.Cobas ha condotto una politica avventurista, insistendo nella linea del blocco laddove la minoranza dei suoi attivisti non riusciva ad esercitare una egemonia reale. Il caso della lotta alla Yoox di Bologna è da questo punto di vista esemplare e sul quale persino una parte del gruppo dirigente del Si.Cobas ha dovuto fare autocritica.
Ma questi errori di avventurismo non inficiano la correttezza della ineluttabilità dello scontro attraverso il blocco, sempre che corrisponda ai rapporti di forza e sia preparato con discussioni assembleari e un lavoro quotidiano a stretto contatto con i lavoratori che devono partecipare ad ogni decisione che li riguarda direttamente, e che ovviamente li espone alla inevitabile controffensiva padronale.
Il nostro intervento nei trasporti
Una forza come la nostra che interviene in una realtà di lavoro dove è fortemente percepito lo sfruttamento, deve in primo luogo porsi l’obiettivo di raccogliere informazioni, di identificare la natura dello sfruttamento, cercare gli elementi più combattivi, verificare la loro disponibilità ad esporsi sindacalmente e, una volta accumulata una piccola forza di appoggio, agire per dimostrare di essere in grado di promuovere il conflitto. Deve evitare l’avventurismo ma allo stesso tempo l’immobilismo, e una volta verificata la determinazione allo scontro del gruppo di riferimento, mettersi in prima linea e promuoverlo.
Questo non ha niente a che vedere con la necessità di arrivare a dei compromessi laddove si verifica che i rapporti di forza non ci permettono di avanzare ulteriormente, se abbiamo fatto tutto il necessario per mobilitare l’insieme dei lavoratori.
Il nostro modello è quello della strutturazione del dibattito per consentire l’assunzione delle decisioni in modo collettivo; è il salto di qualità che consente ad una forza politica e/o sindacale di formare un collettivo di quadri capaci autonomamente di fare proprie valutazioni e di proporre linee di intervento alternative. In assenza di questo si possono organizzare dei blocchi, delle mobilitazioni, ma non si può dare battaglia per il contratto nazionale, né contendere realmente l’egemonia ai vertici confederali, che per quanto distanti dalla classe una struttura ce l’hanno, eccome.
Il nostro orientamento di fronte unico con il Si.Cobas deve essere mantenuto e approfondito. L’adesione del Si.Cobas allo sciopero della Fiom il 14 novembre e allo sciopero generale della Cgil del 12 dicembre 2014 (che è stato sabotato dagli altri sindacati di base) ne è una prova ed è il frutto di una esigenza e di una pressione reale. Nella misura in cui oltre il Si.Cobas non c’è nulla che si muove, è chiaro che queste spinte, per forza di cose, sono più contenute, ma non ne viene meno la necessità obiettiva.
Il punto della formazione dei quadri tuttavia non si esaurisce nel confronto con il Si.Cobas perché il problema riguarda tutti. Per anni ci siamo formati nella polemica con burocrati di tutte le specie. Ci siamo già detti molte volte del clima soporifero che si respira negli ambienti della sinistra, sia politica che sindacale. Non c’è proprio più nulla da imparare, almeno per ora, anzi corriamo il rischio di venire condizionati da quell’ambiente e non vedere quello che si muove fuori. Non si tratta di uscire dal sindacato, ovviamente, ma di mettere nelle giuste proporzioni le possibilità di formazione e di crescita dei compagni, derivanti da quel dibattito.
Abbiamo nuove sfide davanti a noi. Questa esperienza nella vertenza della logistica ci dice che ci sono ampi settori di movimento operaio disponibili ad un conflitto reale, con tutto quello che ne consegue. È un settore nel quale mancano totalmente tradizioni ed esperienza, anche se le lotte hanno in parte modificato questo dato iniziale, tuttavia le esigenze reali per far rispettare un minimo di regole e di dignità sul lavoro impongono a questi lavoratori scelte di campo audaci e grande determinazione.
Il conflitto è decisivo, ma non lo consideriamo risolutore di ogni cosa, ci poniamo anche il compito di aiutare questo movimento a crescere in consapevolezza, introducendo con pazienza e determinazione il senso dell’organizzazione collettiva, delle priorità, della discussione ordinata e dettagliata dei piani di intervento e della loro verifica. Qualsiasi battaglia può essere vinta se abbiamo a nostra disposizione un esercito consapevole e non una massa di manovra più o meno “incattivita”. Dare battaglia significa esporre il proprio esercito alla possibilità di vittoria, ma anche di sconfitta, e l’unico modo per mantenere le forze e possibilmente avanzare è quello di fare crescere la consapevolezza attraverso l’organizzazione collettiva e la responsabilizzazione degli attivisti che ne fanno parte.
La formazione dei quadri è in primo luogo conoscenza della teoria e delle tradizioni rivoluzionarie del movimento operaio, saperle difendere in contrapposizione alle altre correnti del movimento, ma anche e soprattutto sforzarsi di applicarle nel vivo della lotta di classe.
I marxisti e il lavoro sindacale
In questo lavoro di formazione troviamo utile affrontare la questione del pericolo dell’adattamento nel lavoro sindacale. Il lavoro sindacale, la linea sindacale così come gli accordi sulla gestione delle vertenze e il contenuto degli accordi sono questioni che non possono riguardare il singolo compagno delegato, ma devono riguardare l’insieme dei compagni, per evitare il più possibile che elementi di adattamento agli apparati burocratici si insinuino tra le nostre fila.
Il nostro movimento rigetta l’assemblearismo così come rigetta le caricature di centralismo democratico (sarebbe meglio dire centralismo burocratico) che esistono in certe sette, dove le direzioni pretendono di imporre delle decisioni “a distanza” senza aver conquistato un’autorevolezza sul campo.
Allo stesso tempo rigettiamo atteggiamenti che concepiscono l’organizzazione politica come una “vacca da mungere”, che deve solo dare alla lotta sindacale (mettere a disposizione attivisti per i picchetti, garantire la formazione degli attivisti sindacali, raccogliere fondi, mettere a disposizione la struttura) ma non ricevere mai, né mettere becco sulle decisioni che si assumono nel corso della vertenza.
L’intervento sindacale è parte dell’intervento più generale che svolgiamo ed è giusto che le decisioni fondamentali nel corso delle vertenze siano prese dall’insieme dei compagni e non solo dai compagni sindacalisti che ne sono direttamente implicati.
Sempre nel rispetto del mandato dei lavoratori che sono direttamente impegnati in quella vertenza evitando, nel frattempo, di esporre i compagni interessati nella vertenza a inutili ritorsioni padronali e/o degli apparati sindacali.
I nostri delegati e le responsabilità sindacali
L’omogeneità politica è un obiettivo che va costantemente costruito con strumenti politici e non certo meccanici o amministrativi. Dobbiamo fare uno sforzo consapevole affinché i nostri delegati non siano relegati nell’attività sindacale ma possano partecipare alla vita politica in tutti i suoi aspetti. In questo senso va garantita, anche laddove le condizioni obiettive sono difficili (orari di lavoro, sovraesposizione in vertenze importanti, ecc.), che gli attivisti sindacali abbiano accesso al dibattito politico in tutti i suoi aspetti. Questo sforzo va fatto in entrambe le direzioni, ossia è anche un compito dei nostri attivisti sindacali lottare consapevolmente contro l’assorbimento esclusivo nelle vicende sindacali per garantire uno spazio per il dibattito e la propria formazione politica.
Una posizione da delegato, in linea generale, può essere accettata da un compagno anche se non ha costruito una base d’appoggio nel suo luogo di lavoro. Il compagno è in produzione, immerso nella discussione con gli altri lavoratori e può utilizzare la posizione di delegato per costruire un’influenza alle nostre idee. È tuttavia fondamentale che il giornale venga utilizzato e sia conosciuto dai lavoratori. Si tratta comunque di una decisione che deve essere presa assieme alla cellula di appartenenza.
Un po’ più complessa è la questione degli incarichi da funzionario. Un posto da funzionario non può essere considerato un lavoro qualsiasi, neanche se si parla di incarichi operativi e non politici (impiegatizi per intenderci).
A parte il criterio del salario operaio i compagni devono poter discutere ogni aspetto fondamentale del lavoro che i compagni funzionari svolgono ma soprattutto questo tipo di responsabilità possono essere prese solo nella misura in cui abbiamo una base d’appoggio solida tra i lavoratori e nel sindacato in questione.
Una delle responsabilità fondamentali del nostro movimento è anche quello di formare i giovani e gli studenti alla scuola della lotta di classe. Non solo promuovendo l’unità studenti-lavoratori attraverso Sempre in lotta, ma incoraggiando i compagni studenti a fare vendite regolari davanti alle fabbriche, ai depositi, agli uffici.
Portare un compagno delegato nelle scuole è un ottimo modo per mettere radici nelle scuole e in generale è fondamentale educare i giovani a sostenere l’attività dei compagni operai e viceversa. Il nostro movimento non è una struttura parasindacale ed è per noi fondamentale che compagni di estrazione e condizione sociale differente militino insieme e imparino a vicenda.
Solo così il nostro movimento potrà crescere e prepararsi a quelli che sono i compiti futuri, a partire dal fondamentale: guidare la classe lavoratrice alla conquista del potere.
Risoluzione di solidarietà
ai lavoratori Goodyear e Air France
Il 12 gennaio, otto ex dipendenti della Goodyear, tra cui cinque delegati del Confédération Générale du Travail (CGT, una delle più grandi confederazioni sindacali di Francia), sono stati condannati a due anni di prigione,
di cui almeno 9 mesi da scontare in carcere.
Ufficialmente, questa sentenza è diretta a punire la loro partecipazione alla 30 ore di “sequestro” di due dirigenti (amministratori delegati) della Goodyear nel gennaio del 2014. Dopo sette anni di lotta contro la chiusura della loro fabbrica ad Amiens, gli operai hanno alla fine sfidato il silenzio di una direzione aziendale che si era rifiutata di rispondere alle loro richieste. Costringendo i due amministratori delegati a rimanere in fabbrica, i lavoratori hanno cercato di far sentire le loro ragioni. I due dirigenti non sono stati maltrattati; potevano fare telefonate,
e gli sono stati dati cibo e bevande.
La fabbrica ha chiuso. Più di 1.100 lavoratori hanno perso il posto di lavoro. La maggior parte sono ancora disoccupati ad oggi. Dal giorno della chiusura, non ci sono stati solo 12 suicidi tra coloro che sono stati licenziati, ma anche divorzi, famiglie spezzate e case vendute. Sullo sfondo di questa catastrofe sociale, gli operai Goodyear hanno combattuto coraggiosamente. Ed è ovviamente per il fatto di aver avuto il coraggio di combattere e resistere che sono stati condannati
il 12 gennaio per volere del pubblico ministero
(vale a dire, un rappresentante dello Stato).
Questa è stata una decisione politica, realizzata e difesa dalle più alte sfere del governo, con un obiettivo molto chiaro: intimidire tutta la classe operaia francese e farle capire che deve subire passivamente gli attacchi dei padroni – o affrontare sanzioni molto severe. Mai prima d’ora, sotto la Quinta Repubblica, degli attivisti sindacali erano stati condannati al carcere per forme di resistenza.
Lo scorso ottobre, il governo Hollande aveva etichettato come “teppisti” i lavoratori di Air France in lotta contro la proposta di licenziamento di 2.900 dipendenti. Cinque dipendenti Air France sono stati licenziati e saranno processati in tribunale il 27 maggio, accusati di essere gli organizzatori dalla nota protesta della camicia strappata. Anche in questo caso il governo e i padroni vogliono dare una lezione alla classe operaia francese. Vogliono infliggere un duro colpo contro coloro che osano ribellarsi alla regressione sociale, ben sapendo che questa non potrà che continuare e intensificarsi. La crisi del capitalismo non lascia alternativa alla classe dominante e ai suoi lacchè “socialisti” nel governo. Si stanno preparando nuove offensive contro le condizioni di vita e di lavoro delle masse lavoratrici. Questo è il progetto fondamentale dietro la condanna del 12 gennaio.
Lo stato di emergenza e la propaganda reazionaria che i mass media stanno gonfiando dopo gli eventi del 13 novembre hanno creato un clima che il governo ritiene favorevole per criminalizzare l’attività sindacale. La risposta del movimento operaio deve essere massiccia e determinata. Il successo della petizione CGT-Goodyear ha dimostrato il potenziale che esiste.
I compagni della Goodyear hanno annunciato di essere liberi fino al nuovo processo di appello. Dobbiamo continuare la mobilitazione, superando il silenzio dei media per spiegare l’accaduto e il suo significato politico in tutti i luoghi di lavoro e nei quartieri. I giovani delle scuole superiori devono essere mobilitati. Non ci deve essere assolutamente alcuna punizione per i cinque di Air France e gli otto di Goodyear! L’attività sindacale non è un’attività criminale!
Deve essere organizzata la solidarietà internazionale. La Tendenza Marxista Internazionale (TMI) – che in Francia è conosciuta come Revolution – sta organizzando una petizione per fare appello alla solidarietà in oltre 30 paesi. Chiediamo a tutti i lavoratori, attivisti sindacali e di sinistra di firmare questa petizione. Dove siamo presenti, la TMI farà far conoscere la situazione dei compagni di Air France e Goodyear nel modo più ampio possibile. Invitiamo i giovani e lavoratori di tutto il mondo a firmare questa petizione, chiedendo che il governo francese ritiri la condanna con cui ha colpito i nostri compagni.
Approvata all’unanimità alla Conferenza nazionale dei lavoratori di Sinistra classe rivoluzione
Reggio Emilia 14 febbraio 2016
Materiali consigliati:
I due documenti presentati al seminario di Bellaria e all’assemblea del 13 novembre 2015 sull’area Il sindacato è un’altra cosa a firma Grassi, Iavazzi e Brini, rintracciabili ai seguenti link:
• old.marxismo.net/sindacato/movimento-operaio/sindacato/e-tempo-di-cambiare-corso-contributo-per-il-seminario-de-il-sindacato-e-un-altra-cosa
• www.rivoluzione.red/sullassemblea-nazionale-dellarea-il-sindacato-e-unaltra-cosa/
• L’articolo di Trotskij “I sindacati nell’epoca di declino dell’imperialismo”
www.marxismo.net/fm158/06_sui_sindacati_trotskij.htm
• L’Internazionale comunista sui sindacati 1920-22 (A.C. Editoriale 10/1994).
• L’estremismo malattia infantile del comunismo (A.C. Editoriale 5/2003).