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Giovanni Gentile, un filosofo reazionario al servizio del fascismo

Mussolini e Gentile nel 1932.

di Gabriele D’Angeli

Il 16 aprile di quest’anno è stata inaugurata a Roma una mostra per celebrare gli 80 anni dalla morte di Giovanni Gentile, ideologo del fascismo e autore della riforma scolastica che porta il suo nome. Qualche giorno prima, Poste Italiane ne ha ricordato la scomparsa con un francobollo. Ad entrambi gli eventi hanno presenziato ministri dell’attuale governo, da Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, a Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura, fino al presidente del Senato, Ignazio La Russa, e al sottosegretario alla Difesa, Isabella Rauti.

Il ministro Urso ha voluto ricordarlo per “ricomporre” quella “memoria collettiva” che, nei desideri di questo governo, dovrebbe riconciliare gli italiani col regime mussoliniano, “affinché l’ideologia non uccida più l’intelligenza”, ha dichiarato. Come se i partigiani che giustiziarono Gentile a Firenze, il 15 marzo 1944, fossero dei pazzi in preda a furor ideologico, mentre l’ex ministro fascista fosse un innocuo illuminato accademico.

Il ministro Sangiuliano non è da meno nel rimuovere o camuffare il sostegno ideologico di Gentile al fascismo quando, nella stessa occasione, ha ricordato che Gentile “si pose come il filosofo continuatore del Risorgimento, affidandosi il compito di scrivere una storia civile dell’Italia come rinascimento nazionale”.

Non ci sorprendono la pompa e l’entusiasmo con cui questi personaggi hanno partecipato alle celebrazioni per l’anniversario della morte di Gentile. Da una parte, gli esponenti di governo erano lì per rivendicare la continuità politica e ideologica col filosofo del fascismo; dall’altra, continua il tentativo storico della destra italiana di crearsi un proprio universo intellettuale, recuperando figure che siano in grado di dare copertura ideologica ai loro progetti reazionari.

Si pensi ai maldestri tentativi di rilettura di alcuni intellettuali del passato come padri dei valori tradizionali della destra quando, ad esempio, negli anni ’70 l’allora Movimento Sociale Italiano creava i “Campi Hobbit”, ispirandosi ai personaggi di J. R. R. Tolkien; oppure, quando Silvio Berlusconi diede alle stampe Il Principe di Machiavelli e l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, nelle cui prefazioni l’ex presidente del consiglio tentava di legittimare se stesso e i suoi propositi reazionari; infine, per parlare di casi più recenti, quando Azione Universitaria (l’organizzazione giovanile universitaria di Fratelli d’Italia) ha tentato di fare di Dante un nazionalista ante litteram.
Oppure si pensi al recupero e alla rivalutazione di alcuni intellettuali reazionari, come Louise-Ferdinand Céline (noto per i suoi scritti antisemiti e vicino al nazi-fascismo), l’immancabile Gabriele D’Annunzio (nazionalista, antidemocratico e guerrafondaio) e, naturalmente, Giovanni Gentile.

Giovanni Gentile: antidemocratico, guerrafondaio e fascista

“Duce nostro, così crediamo di servirvi come piace a voi, servendo l’Italia”
Giovanni Gentile, Fascismo e cultura, 1928

Giovanni Gentile è non solo tra i più noti esponenti della filosofia idealista in Italia, insieme a Benedetto Croce [1], ma fu tra i più noti intellettuali che sostennero il fascismo in tutti i momenti decisivi.

Ancor prima dell’avvento del fascismo, Gentile aveva sostenuto posizioni reazionarie e antidemocratiche, spaventato (come del resto tutti i cosiddetti “liberali” italiani) dall’ingresso delle masse nella scena politica italiana. Nonostante le sue esaltazioni del popolo italiano, tentò di giustificare le più elementari restrizioni democratiche, affermando ad esempio che “il potere centrale dello Stato” si è “indebolito, piegato al vario atteggiarsi della volontà popolare attraverso il suffragio popolare” [2].

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Gentile si schierò con gli interventisti.

La guerra […] è il nostro atto assoluto, il nostro dovere, il nostro supremo, e, in questo senso, il nostro unico interesse […]. Questa è l’ora in cui i sacrifizi non si contano, e non contano […]. Sospirare oggi la pace per orrore degli eccidi e delle ruine che il flagello della guerra va seminando spietatamente” è “viltà d’animo”. La guerra si giustifica come “esperimento di tutta la vitalità di un popolo.” [3]

Con questi procliami dai toni eroici, Gentile giustifica nei fatti il massacro della Grande guerra, schierandosi dalla parte della borghesia italiana, desiderosa di far parte del banchetto imperialista. Le nazioni europee si preparavano a questa guerra predatoria suonando le fanfare nazionaliste, cui cedettero perfino gli esponenti della II Internazionale socialista, ad eccezione di Lenin e pochi altri, preparando grandi campagne ideologiche a favore della guerra: Gentile è nel coro. Naturalmente questa guerra, preparata e voluta dalle borghesie nazionali, doveva essere combattuta dal “popolo”, in un massacro fratricida. Così, mentre operai e contadini venivano massacrati al fronte in difesa dei gretti interessi nazionali delle proprie borghesie, nella guerra più devastante che l’umanità avesse mai visto, l’8 gennaio 1916 Gentile scriveva ad Alberto Albertini, allora direttore del Corriere della sera, il giornale della borghesia italiana che organizzò una martellante propaganda interventista: “potrà forse essere opportuno che io Le dichiari d’avere, fin dallo scoppio della guerra, consentito pienamente, prima e dopo l’intervento, nell’indirizzo politico del ‘Corriere della sera”“. “In guerra bisognava entrare per cementare una volta nel sangue questa Nazione” e d’altra parte dalla guerra si potevano ottenere anche “acquisti coloniali che ci si poteva ripromettere dalla vittoria.” [4]

Terminata la guerra a causa dello scoppio della Rivoluzione d’Ottobre e del suo dilagare in Germania, anche in Italia gli operai vogliono “fare come in Russia”. Gli industriali italiani sono terrorizzati e vogliono ricorrere alle maniere forti: c’è bisogno di ordine e disciplina. Il bolscevismo va spazzato via e al movimento operaio organizzato bisogna spezzare le reni e i fascisti fanno al caso loro. Anche Gentile sostiene la formazione delle squadre d’azione fasciste, “pronte a opporre violenza a violenza per reprimere ogni attentato all’ordine pubblico e ai poteri che possono garantirlo”, per bloccare la minaccia comunista e “infondere negli animi una fiducia nello Stato, quale non c’era stata più in Italia dai tempi più felici del Cavour” [5]. Gentile è in buona compagnia. Tutto lo schieramento liberale sostiene l’azione delle squadre fasciste, nella convinzione che si possano usare contro il dilagare del bolscevismo in Italia e, una volta usati, i fascisti si sarebbero potuti tranquillamente mettere da parte. Benedetto Croce è tra coloro che pensano di ridurre i fascisti a più miti consigli, una volta scatenati contro gli operai, in funzione anticomunista: “Il fascismo non poteva e non doveva essere che un ponte di passaggio per la restaurazione di un più sicuro regime liberale, nel quadro di uno Stato più forte” [6].

Con la Marcia su Roma, nell’ottobre del 1922, Mussolini otterrà dalla monarchia, con la benedizione degli industriali e della Santa Sede, il mandato per formare un nuovo governo, col sostegno del Partito Popolare di Don Luigi Sturzo [7] e i liberali di Giolitti [8] e di Croce. Giovanni Gentile sarà il suo ministro dell’Istruzione dal 1922 al 1924. In quella veste proporrà la sua nota riforma della scuola.

Ci si è affannati nell’affermare che l’antagonista di Gentile fosse Benedetto Croce: il primo perché avrebbe tradito il liberalismo, il secondo perché avrebbe incarnato l’anima più nobile e fiera di questo. Tuttavia, non solo i liberali sostennero il fascismo in funzione anticomunista, ma gli esponenti di spicco, compresi Giolitti e Croce, sostennero più volte il regime di Mussolini, anche dopo il delitto Matteotti e più tardi molti di essi aderirono formalmente al fascismo, come lo stesso Gentile. Scriverà Croce a Timpanaro [9] nel giugno del 1923: “Quando il liberalismo degenera com’è degenerato in Italia negli anni tra il 1919 e il 1922 e resta poco più di una repugnante maschera, può essere benefico un periodo di sospensione della libertà” [10]. Vittorio Emanuele Orlando, vecchio esponente liberale, già presidente del Consiglio tra il 1919 e il 1920 e futuro “padre” costituente, chiudendo la virulenta campagna elettorale del 1924 dirà:

La vittoria del fascismo rappresenta una giusta vendetta, non solo, ma inevitabile era anche il modo violento ond’essa fu compiuta, poiché non poteva oltre perdurare uno stato d’anarchia, e il Parlamento era incapace organicamente di provvedere il rimedio. Questo non poteva conseguirsi se non malgrado, anzi contro, quel Parlamento. “[11]

Giovanni Giolitti, nel 1922, si era già espresso con toni simili, approvando i pieni poteri del governo, quando già lo squadrismo fascista aveva dato prova di cosa fosse capace, incendiando e occupando le sedi dei partiti del movimento operaio, del sindacato, percuotendo duramente e uccidendo esponenti socialisti e comunisti.

Ancora dopo il delitto Matteotti, sebbene il Duce col discorso del 3 gennaio 1925 ancora non si fosse assunto la responsabilità diretta dell’omicidio, i liberali, Croce e Gentile in testa, esprimeranno la fiducia in Parlamento al governo Mussolini. Solo dopo il famoso discorso del Duce alla camera, una parte dei liberali romperà col fascismo (Croce), altri non faranno un passo indietro, ma “di lato” per aderirvi più convintamente poco dopo, tesserandosi al Partito Nazionale Fascista (PNF), come già aveva fatto Giovanni Gentile (31 Maggio 1923). Nel luglio dello stesso anno, egli dichiarerà la propria “fede antica” nel fascismo [12]. Il filosofo in camicia nera, come giustamente lo ha definito Mimmo Franzinelli [13], non compie un tradimento del liberalismo, ma percorrerà una coerente traiettoria politica, come molti altri sodali di partito, portando alle estreme conseguenze il “reazionarismo della concezione liberale”, come scriverà Gramsci [14].

Il giorno dopo il discorso alla camera di Mussolini, che apre formalmente alla svolta dittatoriale, Gentile scriverà al Duce che “il paese tutto si sveglia e torna a lei” e in febbraio, in un discorso pronunciato in Senato, quando le violenze squadriste riprendono con più vigore, anche nei “santi istituti” della cultura che tanto premevano al filosofo, dichiarerà di essere “pienamente e cordialmente fedele alla politica di Mussolini, convinto che sia quella che più assicura il benessere nazionale” e che anzi le opposizioni, in particolare quelle social-comuniste, vadano sanate, come una piaga, “col ferro e col fuoco”. All’indomani del delitto Matteotti, Gentile aveva fatto male i suoi calcoli, pensando che il fascismo sarebbe crollato di lì a poco e invece si rafforzò. Così, criticando i liberali che ancora restavano fedeli all'”indegno equivoco dei grandi principii”, non solo giustificherà l’uccisione di Matteotti [15], ma resterà fedele al fascismo fino alla fine.

Nelle sedute del Gran Consiglio del Fascismo del 1925-1926 sosterrà con forza la svolta dittatoriale; nel 1925 scriverà il Manifesto degli intellettuali fascisti, firmato, tra gli altri, da Gabriele D’Annunzio, Salvatore Di Giacomo, Curzio Malaparte, F. T. Marinetti, Luigi Pirandello e Giuseppe Ungaretti; come presidente dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, sosterrà attivamente il fascismo in campo culturale. Nel 1935, nel pieno del fervore imperialistico, si unirà al coro delle voci violente per l’aggressione dell’Etiopia, offrendo personalmente al Duce i suoi figli per l’arruolamento. La conquista dell’Abissinia, che sarà vergognosamente condotta da Badoglio con l’impiego massiccio di gas asfissianti, verrà celebrata dal filosofo col suo solito tono magniloquente:

Dopo quindici secoli […] il mondo assiste sorpreso, ammirando, alla riapparizione dell’Impero sui Colli fatali di Roma […]. L’Uomo che ha compiuto il prodigio di questa vittoria che parve follia sperare, sconfiggendo non solo le avverse forze barbariche, difese da ostacoli naturali diversamente ritenuti insormontabili, ma una delle più formidabili coalizioni europee che ricordi la storia […]. Mussolini oggi non ha fondato soltanto l’impero etiopico. Egli ha fatto qualcosa di più: ha creato una nuova Italia.” [16]

Nel febbraio del 1938 benedice l’alleanza delle “tre grandi aristocrazie politiche che mirano a ricostruire l’ordine del mondo: la fascista, la nipponica, la nazista [17]”. Le leggi razziali, varate nel 1938, lo lasciano sostanzialmente indifferente, ma non pronuncerà mai dichiarazioni contrarie. È entusiasta sostenitore della guerra, quando l’Italia vi entrerà nel 1940, giustificando filosoficamente il legame tra Stato, cittadini e guerra, attraverso la volontà del suo Duce.

Nel luglio 1943, all’indomani della caduta del regime, resterà fedele al fascismo e a Mussolini, quando tutti gli altri topi erano in fuga dalla nave che stava affondando. Sarà un sostenitore della Repubblica Sociale Italiana (RSI), da cui trarrà anche personali vantaggi materiali (come del resto aveva fatto per un ventennio, accumulando una quantità impressionante di cariche), come presidente dell’Accademia d’Italia (1° dicembre 1943) e per questo verrà incluso, di diritto, nell’Assemblea Costituente della RSI. In un editoriale apparso sul Corriere della Sera, datato 28 dicembre 1943, chiamerà tutti gli italiani alla concordia… sotto l’egida dei fascisti, che “hanno preso, come ne avevano il dovere, l’iniziativa della riscossa”. Anzi “inneggia al Condottiero della grande Germania ‘[che quest’Italia aspettava al suo fianco, dove era il suo posto per il suo onore e per il suo destino] accomunata nella battaglia formidabile per la salvezza dell’Europa e della civiltà occidentale al suo popolo animoso, tenace, invincibile’ [18]”.

Ancora nel 1944, sull’editoriale del primo numero (8 gennaio) del settimanale Italia e Civiltà, (tra i cui redattori compare anche Giovanni Spadolini, futuro autorevole esponente del Partito Repubblicano e Presidente del Consiglio tra il 1981-1982) calcherà la mano: “Una bandiera s’è levata: una sola. L’ha in pugno un uomo che ebbe già la fiducia di tutti gl’italiani e parve la voce antica e sempre viva della Patria. E vuol essere la bandiera dell’onore e della salvezza dell’Italia”, per questo bisognerà “colpire inesorabilmente la pervicacia dei riottosi irriducibili”, cioè i partigiani.

Giovanni Gentile fu noto per tutto questo e venne naturalmente associato agli orrori dell’odiato regime fascista e per questo venne giustiziato a sangue freddo, nonostante l’opposizione di alcuni dirigenti del CLN. I funerali si svolsero con rito fascista, il feretro contornato da braccia tese e saluti romani. Al corteo funebre furono presenti il comandante germanico della piazza di Firenze, esponenti delle alte gerarchie militari, il segretario del rinato Partito Fascista Repubblicano, Pavolini, mentre 720 militi della Guardia Nazionale Repubblicana fascista presidiavano l’adunata. Al filosofo venne intitolata la Brigata Nera di Soncino (Cremona), guidata da Guglielmo Ferri, responsabile di eccidi nel Reggiano, incarcerato, poi amnistiato e scarcerato nel 1954. La morte di Gentile verrà pagata col sangue, con l’uccisone di quattro gappisti e un bambino in piazza Tasso e altri dieci partigiani fucilati sei giorni più tardi. I loro corpi verranno ritrovati solo nel 1957.

Una filosofia reazionaria come giustificazione di un regime reazionario

La filosofia di Giovanni Gentile è nota come attualismo. Essa, lungi dall’essere una novità nel panorama filosofico, fu in realtà una rivisitazione, in chiave particolarmente reazionaria, delle idee del filosofo idealista Hegel. Le teorie di Gentile sono state esposte dal filosofo in numerosi scritti, di cui i più importanti sono la Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) e il Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1922).

La tesi centrale di Gentile è che il mondo, cioè la realtà esterna, non esiste se non come pensiero in atto: la realtà oggettiva esiste solo in quanto pensata. La realtà, dunque, è il prodotto del pensiero.

Si tratta di una posizione particolare all’interno del sistema idealistico, in quanto se per Hegel esiste una realtà oggettiva, concreta, materiale al di fuori del soggetto (sebbene sia una oggettivazione dell’Idea), in Gentile la realtà esterna non possiede una sua autonomia, non esiste indipendentemente dal soggetto. Anzi, la sua esistenza è una pura illusione, in quanto la realtà esterna è una creazione dell’Idea assoluta o Spirito, ed essa esiste solo in quanto esiste una unità fondamentale tra soggetto e oggetto, tale da rendere impossibile l’esistenza di una oggettività senza che il soggetto la pensi. Nelle parole di Gentile, “la nostra dottrina […] è la teoria dello spirito come atto che pone il suo oggetto in una molteplicità di oggetti, e insieme risolve la loro molteplicità e oggettività nell’unità dello stesso soggetto (enfasi nostra).” [19]

Questa linea di pensiero rappresenta una riedizione dell’idealismo soggettivo di Berkeley (1685-1753) e Fichte (1762-1814), passando per Avenarius (1843-1896) e Mach (1838-1916)… fino a certe aule universitarie dei giorni nostri.

In sostanza per l’idealismo soggettivo, la realtà esterna materiale non esiste indipendentemente dal soggetto e primordiale è il pensiero, la coscienza del soggetto rispetto alla materia. Al centro della filosofia idealista soggettiva c’è il soggetto pensante e la sua attività creatrice.

Questo soggetto pensante è per Gentile un Io assoluto che, pensando, crea il mondo e lo trascende (cioè esiste al di fuori e al di sopra della realtà sensibile). Poiché il pensiero crea ininterrottamente, esso è sempre in atto: è un atto puro (da qui “attualismo”).

L’idea crea la materia. Nihil novi sub sole, nel cielo dell’idealismo. Ma se Hegel aveva pur ammesso l’esistenza di una realtà oggettiva con un suo sviluppo dialettico autonomo, Gentile la nega. Tutto il mare dell’oggettività si risolve nel soggetto pensante. La realtà, che non esiste davvero, ma è solo apparenza, è infatti il prodotto di un Io pensante, la cui attività creatrice è libera e senza limiti. L’Io pensante o Io assoluto, pensando, crea se stesso e la realtà (in quanto coincidono e in quanto un oggetto non è pensabile fuori del soggetto). Questa attività è autocreatrice (autoctisi), in quanto pensiero e oggetto del pensiero sono la stessa cosa, ed è sempre in atto.

Come dimostra Gentile tutto ciò? Col classico ragionamento dell’idealismo soggettivo: io non posso conoscere le cose, ma solo il pensiero delle cose. Come diceva Berkeley, esse est percipi: essere è essere percepiti. L’esistenza dell’oggetto dipende dalla mia percezione. Le cose esistono solo in quanto oggetti pensati. Il mondo, la natura, la società, lo Stato non sono oggetti realmente esistenti: essi sono in me, non fuori di me, in quanto è la coscienza che pone la natura, il mondo, la società, ecc. poiché è essa che li crea.

Chi è o cosa è questo Io pensante che trascende la realtà? Gentile lo chiama Spirito, “come atto puro”, utilizzando una terminologia che la filosofia Scolastica medievale aveva a sua volta mutuato da Aristotele per indicare, nei fatti, Dio. Per la Scolastica, infatti, Dio è “atto puro”. Dunque, al netto della nebulosa fraseologia idealistica e del fatto che secondo questa filosofia anche Dio è frutto dell’Io assoluto pensante (di qui gli attriti filosofici con i cattolici), questo Io assoluto gentiliano, che pensando crea il mondo dal nulla, ricorda molto l’attività creatrice del Dio biblico, il quale creò il mondo dal nulla.

Un secondo aspetto interessante della filosofia gentiliana risiede nel ruolo assegnato all’uomo da Gentile in questo mondo creato dallo Spirito. Contrapposto all’Io assoluto (lo Spirito), la cui attività pensante è libera creazione senza limiti, esiste un Io empirico (l’uomo), limitato nel tempo e nello spazio, ma pensante anch’egli. Anche l’uomo, dunque, pensando crea, ma non lo fa arbitrariamente, bensì dando concretezza a ciò che l’Io assoluto pensa. Non esiste nulla, infatti, al di fuori dell’Io assoluto e non si può pensare niente se questo non lo ha già pensato. L’Io empirico (l’uomo) pensa e, pensando, crea, ma per conto dell’Io assoluto e così facendo fa la storia. Questa teoria “fa quindi della storia, non il presupposto, ma la realtà e concretezza dell’attualità spirituale, fondando così la sua assoluta libertà (enfasi nostra)” [20].

Lo spirito (cioè le idee) non sono il prodotto del concreto sviluppo umano, della produzione e riproduzione della vita materiale (come ritiene il materialismo storico), ma il contrario: la storia umana non è altro che la realizzazione dello Spirito, il prodotto dell’attività spirituale. Secondo questa prospettiva, ogni evento storico, anche il più atroce, il più reazionario, il più spietato è giustificato dall’attività dello Spirito che tende alla sua piena realizzazione. Non solo ma, come vedremo, nello Spirito non c’è errore, ma solo verità.

La filosofia di Gentile, dunque, come quella idealistica in generale, si caratterizza non solo per il suo oscurantismo reazionario, poiché nega l’esistenza della materia al di fuori del soggetto, ma anche per il suo giustificazionismo.

Un terzo aspetto, utile a comprendere la filosofia reazionaria di Gentile, è l’idea che nell’Io assoluto non esistono gli opposti (bene-male, positivo-negativo, ecc.) e dunque non esiste una contrapposizione tra errore e verità. L’Io assoluto può pensare solo la verità: l’errore non esiste, è solo apparente. Infatti, secondo Gentile, l’errore mentre è in atto, è pensato come verità e quando viene ripensato e corretto viene corretto e ripensato come verità.

Una filosofia come questa poteva benissimo giustificare l’ascesa al potere di Mussolini, la violenza fascista, la dittatura, la guerra. Mussolini, in fondo, non realizzava altro che la volontà dello Spirito ed egli stesso, pensando, non realizzava altro se non ciò che che lo Spirito aveva già pensato. E se errore poteva esserci, era pur sempre una verità necessaria dello Spirito.

Gentile si oppose con particolare violenza alla filosofia materialista, che giustamente legava alle idee socialiste e, quando giurerà da ministro, la masnada reazionaria nazionalista esulterà nel vedere il campione dell’idealismo italiano sedere tra i banchi del governo. Per Antonio Pagano, nazionalista e interventista della prima ora, autore di un Idealismo e nazionalismo (Treves, 1928), sarà motivo di orgoglio “il fatto che il filosofo critico del materialismo filosofico [cioè la filosofia di Marx ed Engels] segga ministro accanto al duce debellatore del materialismo politico [cioè del socialismo]” [21]. Un anno dopo la Marcia su Roma, Gentile, sullo stesso giornale in cui scriveva Pagano (e i cui redattori erano personaggi del calibro di Enrico Corradini [22], Luigi Federzoni [23] e Alfredo Rocco [24]), scriverà che l’evento che portò le camice nere al potere non fu che il trionfo della

filosofia idealista, che svelò e annientò il materialismo annidato in tutte le ideologie che in Italia erano prevalse negli ultimi cinque lustri del secolo precedente e che costituivano la concezione democratica, socialista, positivista, illuminista e pseudorazionalista della società, della vita, del mondo.” [25]

Ora, questa teoria filosofica si adattava bene agli scopi del fascismo ed ebbe particolari conseguenze anche nel campo della riforma scolastica e in ambito didattico.

In primo luogo, Mussolini è l’incarnazione di uno “spirito privilegiato e provvidenziale”, un “eroe” [26]; la stessa filosofia del Duce non è una filosofia “che si pensa, ma che si fa” [27]: il suo pensiero, in quanto realizzazione del pensiero dell’Io assoluto, è atto pratico necessario. La sintesi più felice di questa ideologia reazionaria, oscurantista e giustificazionista è la frase pronunciata da papa Pio XI ai professori e agli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nel 1929, all’indomani della firma dei Patti Lateranensi: Mussolini era l’uomo della Provvidenza divina o, per essere più precisi, “un uomo […] che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare”. Mussolini, infatti, per dirla con Gentile, non fu altro che la realizzazione del pensiero dell’Io assoluto, che per Pio XI altri non era che Dio.

La stessa “resurrezione” di Mussolini dopo il crollo del regime nel luglio del 1943 (come, per altro, tutta l’esperienza storica del fascismo), è un evento necessario, che sta nella logica della Storia, in quanto frutto del pensiero dell’Io assoluto. Al discorso inaugurale dell’Accademia d’Italia, a Firenze, nel 1944, Gentile dirà in proposito:

Miracolo? No. La risurrezione di Mussolini era necessaria come ogni evento che rientri nella logica della storia. Logico l’intervento della Germania, che i traditori avevano disconosciuta, poiché quos Deus perdere vult, dementat prius [Dio prima rende pazzi coloro che vuole rovinare], ma la sua fede e forza e audacia furono sempre riconosciute dall’Italia di Mussolini. Così questa fu subito ritrovata attraverso Mussolini e aiutata a rialzarsi dal Condottiero della grande Germania che quest’Italia aspettava al suo fianco dove era il suo posto per il suo onore e per il suo destino, accomunata nella battaglia formidabile per la salvezza dell’Europa e della civiltà occidentale al suo popolo animoso, tenace, invincibile.

Anche dal punto di vista della riforma scolastica (di cui parleremo più avanti) vi furono delle conseguenze importanti, derivate dall’impostazione idealistica di Gentile.

Nella sua filosofia, infatti, il pensiero stesso ha uno sviluppo dialettico che si articola come segue: 1) coscienza di sé, 2) coscienza di qualcosa, 3) coscienza di sé che è coscienza di qualcosa.

È una riedizione dell’articolazione dialettica di Hegel (tesi-antitesi-sintesi), in cui il centro è di nuovo il pensiero dell’Io. Al primo momento corrisponde l’arte, che per Gentile è pura soggettività, tentativo del soggetto di esprimere soggettivamente un proprio sentimento; al secondo momento corrisponde la religione, che è oggettivazione (apparente) dell’Io, in cui l’Io pensante crea Dio; infine, al terzo momento, corrisponde la filosofia, trionfo dello Spirito.

Come si noterà, manca la scienza, che pure dovrebbe essere un momento essenziale dello sviluppo del pensiero umano. Ma per Gentile il pensiero scientifico è un pensiero “minore” rispetto ai tre momenti sopracitati, innanzitutto perché è un pensiero troppo spostato sull’oggetto. In fondo, se l’oggetto di studio della scienza è la realtà naturale oggettiva e questa è solo apparenza, le scienze stesse sono un pensiero fallace e inferiore.

La conseguenza di ciò, in campo didattico, è la preminenza dell’arte (come disegno e come soggettività istintiva) e della religione (come preparazione alla filosofia idealistica) alle elementari e la preminenza della filosofia nella scuola vera, che prepara l’élite della classe dirigente: il liceo classico. La scienza verrà confinata al liceo scientifico, dove pure, comunque, saranno le discipline umanistiche a farla da padrone.
Il fatto è che la scienza, col suo metodo d’indagine, costringe a fare i conti con la realtà oggettiva, perché esige una verificabilità delle idee e questo era potenzialmente distruttivo sia per Gentile che per il fascismo.

Lo Stato etico, ovvero lo Stato fascista

Un altro aspetto della filosofia di Gentile riguarda il concetto di Stato etico, anch’essa una rielaborazione, in chiave ancor più reazionaria, della teoria di Hegel. Per quest’ultimo lo Stato etico è l’istituzione in cui le libertà individuali trovano una sintesi nella volontà generale; lo Stato garantisce alcune libertà (tra cui quella della proprietà privata), mentre il cittadino deve riconoscersi nella volontà generale. In questo modo, l’identificazione del cittadino con lo Stato (che ha un fine e una volontà sue proprie) deve essere totale e il patriottismo del cittadino è coscienza dell’assolutezza dello Stato. Per Hegel “il sentimento dell’obbedienza verso i comandi del governo, dell’attaccamento alla persona del principe e all’ordinamento politico, e il senso dell’onore nazionale sono le virtù del cittadino di ogni Stato ordinato” [28].

Seguendo questa linea, per il filosofo italiano lo Stato etico non poteva che identificarsi con lo stato fascista. Anche per lui “lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo”. E continua: “per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello Stato” [29]. Le finalità dei singoli cittadini devono coincidere con quelle dello Stato: anzi, il cittadino deve identificarsi con esso. Lo Stato “totalitario” teorizzato da Gentile è quello fascista, perché è in grado di assorbire tutti i contrasti (che pure, tuttavia, continuano ad esistere) in un’unica volontà generale del “popolo” che si esprime per bocca del Duce del fascismo. Il fascismo, infatti, combatte “la sua bella battaglia in Italia e nel mondo per dare una sua forma allo Stato, e attraverso lo Stato a tutto lo spirito” [30].

Perciò io sono fermamente convinto della necessità suprema di uno Stato forte, come dovere e come diritto del cittadino, e di una disciplina ferrea, che sia scuola rigida di volontà e di carattere politici. Perciò io sono ferinamente convinto della necessità di svegliare e di sviluppare, in politica, un senso energico di religiosità e di moralità, e di portare, d’altra parte, un senso di misura e di determinatezza politica, cioè di concretezza sociale e storica nello sviluppo etico-religioso dell’individuo.” [31]

Duce, fascismo, Stato e popolo italiano tendono a identificarsi, grazie all’opera dello Spirito. Tutte le iniziative più antidemocratiche e reazionarie vengono giustificate: perfino il parlamento, vessillo dei democratici liberali borghesi, è superato, esautorato nelle sue funzioni dal Gran Consiglio del Fascismo, guidato dal suo Capo.

Attraverso quest’organo la volontà di un uomo straordinariamente dotato diventa un istituto giuridico permanente. Quella che poteva parere la creazione quotidiana ma contingente di un individuo diviene struttura costituzionale della stessa Nazione. L’eroe si spersonalizza e si converte nello spirito del suo popolo, che organizza e disciplina tutte le proprie energie per perpetuare il nuovo impulso vitale onde s’è riscosso e ha acquisito coscienza di sé e del proprio destino.” [32]

Lo Stato etico si realizza, secondo Gentile, grazie alle corporazioni. Questi organismi nacquero prima per irregimentare i lavoratori, sopprimendo le organizzazioni sindacali indipendenti del proletariato (colpendo in particolare la CGL socialista) e poi per costringerli alla collaborazione di classe (dunque alla sottomissione) col padronato. Il primo obiettivo del fascismo, in fondo, fin dalla sua nascita, fu quello di stroncare ogni tentativo da parte della classe operaia di sviluppare una propria posizione autonoma e indipendente rispetto alla borghesia.

I Fasci di combattimento, pagati da agrari e industriali, prima ancora della presa del potere, procedettero alla distruzione di sedi operaie politiche e sindacali e all’eliminazione fisica di militanti e dirigenti socialisti e comunisti. Giunti al potere, l’opera doveva essere completata: ogni organizzazione indipendente della classe lavoratrice, politica e sindacale, venne sciolta e i lavoratori vennero pian piano irregimentati nelle Corporazioni, strumenti della collaborazione di classe, diretti da uomini legati al fascismo.

Mussolini, nel suo primo discorso alla Camera, il 16 novembre 1922, così interpretava e dava corpo allo Stato etico di Gentile: “Chi dice lavoro dice borghesia produttiva e classi lavoratrici della città e dei campi. Non privilegi alla prima, non privilegi alle ultime, ma tutela di tutti gli interessi che si armonizzano con quelli della produzione e della nazione”.

Sebbene il padronato avesse poca voglia di sottostare al regime mussoliniano, accettò di buon grado l’azzeramento del conflitto di classe in fabbrica e degli scioperi, la compressione dei salari e la militarizzazione della produzione, senza alcuna possibilità, da parte dei lavoratori, di esprimere il proprio punto di vista indipendente. Nelle parole di Gentile:

Il sindacato […] deve superare il particolarismo che è il suo astratto universalismo sociale [cioè l’unità della classe lavoratrice contro il padronato]. Ogni sindacato è una fetta d’uomo e l’uomo non può essere che uomo intero; e il suo Stato perciò non è sindacato, ma superamento e risoluzione dei sindacati nell’unità fondamentale dell’uomo […]. Così il sindacato è lo stesso Stato quando si eleva dagli angusti suoi limiti di categoria sociale [cioè, dalla sua indipendenza di classe] alla piena unità del volere universale che anima e promuove tutte le categorie [cioè, alla collaborazione di classe voluta dal Fascismo].” [33]

Naturalmente, la piena realizzazione dello Stato totalitario non poteva non incontrare resistenze. A dispetto della falsa rappresentazione gentiliana, secondo cui tutti gli italiani ormai erano fascisti, il regime dovette ricorrere alla violenza in ogni ambito, dalla censura alla repressione fisica. E Gentile non indietreggia di fronte alla violenza squadrista, anzi la giustifica: ordine, disciplina e manganello vengono continuamente esaltati dal filosofo. Essi, infatti, sono gli strumenti con cui opera il fascismo il quale, come dottrina religiosa, “è intollerante nel senso stesso d’ogni fede religiosa” [34]. Questa impostazione antidemocratica e repressiva non tarderà a manifestarsi nella sua riforma della scuola: anzi, sarà uno dei suoi cardini.

“La più fascista delle riforme”: la riforma della scuola tra autoritarismo e classismo

Il 31 ottobre 1922, Gentile giura da ministro della Pubblica Istruzione, in un governo di coalizione tra cattolici, liberali e fascisti guidati da Mussolini, capo del governo. L’anno seguente viene varata la sua riforma. C’è un coro quasi unanime di elogio alla legge che porta il suo nome, dai fascisti ai liberali ai cattolici, dalla stampa borghese all’Osservatore romano, organo della Santa Sede, pur con qualche distinguo o aperta critica. Secondo Giuseppe Prezzolini [35], la riforma di Gentile è il “prodotto più maturo dell’idealismo” [36]. Benedetto Croce è entusiasta.

I cardini della politica scolastica e sociale di Gentile erano stati già esposti dal filosofo in un saggio del 1902, L’unità della scuola media e la libertà degli studi. Qui Gentile già sostiene una concezione classista e antidemocratica dell’istruzione superiore, il cui accesso doveva restare riservato solo ai talentuosi i quali, va da sé, nella quasi totalità dei casi non potevano che provenire da famiglie facoltose:

Gli studi secondari sono di lor natura aristocratici, nell’ottimo senso della parola: studi di pochi, dei migliori […]; perché preparano agli studi disinteressati scientifici; i quali non possono spettare se non a quei pochi, cui l’ingegno destina di fatto, o il censo e l’affetto delle famiglie pretendono destinare al culto de’ più alti ideali umani.” [37]

Vanno insomma esclusi dalla scuola coloro che sono “fruges consumere nati [nati per consumare pasti frugali]”, come amava affermare, citando l’aristocratico poeta Orazio, che “odiava il volgo profano e lo teneva a distanza”. Fra gli obiettivi della riforma, dunque, c’è la riduzione del numero degli alunni nelle scuole medie e superiori. “Alla domanda, un po’ irosa: – Come si fa a trovar posto per tutti gli alunni? – io rispondo: – Non si deve trovar posto per tutti. – E mi spiego. La riforma tende proprio a questo: a ridurre la popolazione scolastica” [38].

I liberali plaudono, Croce in testa, seguito da Gobetti [39] (che tuttavia, poco dopo, criticherà lo stesso Gentile, chiamando la sua scuola “scuola del padrone, scuola dei servi, scuola dei cortigiani” [40]), secondo il quale si doveva eliminare almeno l’80% degli studenti del liceo; gli fa eco Omodeo (futuro ministro dell’Istruzione nel secondo governo Badoglio nel 1944), per cui la plebe stava dilagando nei licei; e infine Augusto Monti [41], che giudica molti degli alunni “una falange di barbari traditori della zappa e della cazzuola” [42].

Il giudizio dei liberali non sorprende. La riforma Gentile, nonostante sia stata propagandata dal regime come “rivoluzionaria”, restava nel solco classista della vecchia legge Casati, in vigore dal 1859 nel Regno di Piemonte e Sardegna e poi estesa a tutto il Regno d’Italia. Anche lì i cardini della riforma erano un forte centralismo burocratico e autoritario e un rigidissimo doppio binario, che tracciava una netta separazione tra istruzione tecnica per i figli dei lavoratori, destinata a formare una classe operaia specializzata, e istruzione classica, di stampo umanistico, per la formazione delle classi dirigenti, mentre l’obbligatorietà era estesa al solo primo biennio della scuola elementare. Lo stesso Croce, ex ministro dell’Istruzione nell’ultimo governo Giolitti (1920-1921), restò convinto della validità della legge Casati e non si adoperò per una riforma in senso democratico della scuola.

Gentile è convinto che la scuola serva a formare le sole classi dirigenti e che una nazione può anche pullulare di masse plebee analfabete o semianalfabete, purché una élite di governanti, di capi, sia in grado di guidarle. Le masse non hanno bisogno di esprimere un giudizio: saranno i capi formati alla sua scuola a formularli per loro. L’attuazione di questa rigida visione classista consiste nella netta separazione tra i percorsi per i figli dei lavoratori e dei contadini, da una parte, e quello per i figli della borghesia e dell’aristocrazia, dall’altra [43]. Il liceo classico, chiaramente, è riservato alle élites, come nella legge Casati. Sarà d’accordo anche il socialista di destra Salvemini [44], secondo cui la scuola deve necessariamente rispecchiare le differenze sociali e che plaude all’esame di Stato come strumento di selezione di classe [45].

Il tipo di cultura che si insegna è rigidamente schematico, mnemonico, enciclopedico e acritico; le lingue classiche vengono usate come clava per una rigida selezione, insieme agli esami di Stato, il cui intento è contribuire all’eliminazione dei meno adatti; la cultura tecnica e scientifica è vista con sospetto, perché materialista e basata su un metodo critico; la religione diviene “fondamento e coronamento” [46] dell’istruzione primaria.

I cattolici del Partito Popolare di Sturzo sostengono la riforma, soprattutto per il sostegno statale dato alle scuole private gestite dal Vaticano. Il vecchio liberale Gentile si domanderà, retoricamente, se sia proprio vero che si debba ancora aver paura di frati e di preti, con tanti saluti alla tradizione laica cavouriana dei cosiddetti “liberali”. L’Osservatore romano, organo della Santa sede, si congratula col governo Mussolini per la coraggiosa riforma “che va contro la pratica di una politica volta a scristianizzare la scuola di un popolo cristiano, sofisticando sul laicismo statale di una nazione religiosa”; al congresso del PPI, nel giugno del 1923, l’onorevole Antonio Anile (già ministro dell’Istruzione nell’ultimo governo Facta), si dichiara favorevole alla riforma e chiede l’estensione dell’insegnamento obbligatorio della religione cattolica anche alla scuola secondaria e maggiore libertà per la scuola privata; l’Azione Cattolica, nel luglio dello stesso anno, organizzerà un convegno su “Come approfittare nel migliore dei modi dei recenti ordinamenti scolastici emanati dal ministro Gentile”; infine, padre Agostino Gemelli riconoscerà che il fascismo e la riforma di Gentile hanno compiuto “un passo fondamentale e decisivo” [47] verso i cattolici. A coronamento di ciò, nel 1929, alla firma dei Patti Lateranensi, che daranno ampio spazio alla Chiesa cattolica soprattutto in ambito scolastico, Gentile, ormai non più ministro ma comunque figura di riferimento della cultura fascista, si dirà convinto che dall’accordo tra Stato fascista e Chiesa non potrà venire alcuna minaccia.

Insieme al classismo, il secondo pilastro della riforma doveva essere un forte autoritarismo, da esercitarsi attraverso una rigida impostazione gerarchica che interessasse maestri e alunni. Obiettivo della riforma fu quello di rivalutare nelle scuole e nelle università “rispetto della legge, ordine, disciplina, obbedienza all’autorità dello Stato” [48].

In primo luogo la stessa pedagogia gentiliana, che non prevede alcuna forma di materialismo e utilitarismo, ma una cultura fine a se stessa, è imperniata sul maestro, unico soggetto veramente libero a cui è subordinato l’allievo, che non può esprimere criticamente il proprio pensiero, anche perché, secondo Gentile, ne è privo. Il rapporto maestro-allievo riproduce, in un certo senso, quello tra Io assoluto e Io empirico, in cui il secondo è subordinato rigidamente al primo e si esprime per volontà sua. Il maestro, che nell’insegnamento si avvale di un forte dogmatismo, ha il compito di plasmare le anime e ha il diritto ed il dovere di valersi di tutti i mezzi utili a tale scopo, compresa la ferrea disciplina. Questa implica anche il castigo, non escluso quello corporale. Ecco dunque che come il cittadino è tale perché la sua volontà si identifica con quella dello Stato e del suo Duce (il maestro di Predappio…) e va punito anche col manganello se devia da tale volontà, così deve essere l’allievo nei confronti del maestro. D’altra parte Gentile stesso ha più volte elogiato il manganello fascista come strumento educativo. Per lui la violenza fascista è “l’ira di Dio che si abbatte sugli uomini per rinsavirli, per distorglierli dagli idoli della pseudo democrazia e educarli alla libertà, la vera libertà, che è forza, carattere, volontà” [49]. Tale concetto va applicato anche all’educazione del fanciullo:

Ogni forza è forza morale in quanto si rivolge sempre alla volontà, e, qualunque sia l’argomento adoperato, dalla predica al manganello, la sua efficacia non può essere che quella che sollecita interiormente l’uomo e lo persuade a consentire. Ogni educatore sa quale mezzo concreto (predica o manganello) usare, secondo le circostanze.” [50]

Le stesse misure antidemocratiche colpiscono anche la struttura della scuola:

Il nuovo ordinamento abolisce l’elettività del Consiglio Superiore della PI [pubblica istruzione], riducendone anche le funzioni, elimina le commissioni consultive, rafforza l’autorità dei provveditori e dei presidi a danno degli organismi collegiali ed infine stronca qualunque forma di sindacalismo libero. […] Nessuno sforzo viene tralasciato perché l’autoritarismo più spinto penetri anche nella scuola: la dipendenza degli alunni dagli insegnanti e di questi dal capo d’istituto viene accentuata; ai professori è chiesto tassativamente di essere soprattutto soldati del regime, pronti ad una totale obbedienza che esclude non solo l’uso di vecchie armi indecorose quali lo sciopero, ma anche la più lieve possibilità di critica; il loro merito è valutato non in ragione del sapere della capacità didattica, ma della fedele indiscussa adesione agli ordini impartiti dall’alto.” [51]

Nel 1930, Gentile, non più ministro ma ancora figura centrale della cultura fascista, si dichiarerà favorevole alla completa fascistizzazione della scuola, perché “il problema della fascistizzazione della scuola è il problema stesso della fascistizzazione della vita nazionale” [52]. L’anno successivo, quando il ministro sarà Balbino Giuliano, fedele gentiliano, il regime imporrà il giuramento di fedeltà al regime: alla regia ci sarà comunque il filosofo in camicia nera, il quale esige che chi mancherà al giuramento dovrà essere espulso.

La terza gamba su cui doveva reggersi la riforma fu un accentuato maschilismo. L’aumento della popolazione femminile nelle scuole già a fine Ottocento, secondo Charnitzky, costituiva per Gentile “una minaccia per il modello sociale da lui difeso, nel quale una rigorosa divisione dei ruoli e del lavoro fra i ceti sociali e fra i due sessi era uno degli elementi indispensabili” [53]. La scuola, per il filosofo, era “invasa dalle donne, che ora si accalcano alle nostre università, e che, bisogna dirlo, non hanno e non avranno mai né quell’originalità animosa del pensiero, né quella ferrea vigoria spirituale, che sono le forze superiori, intellettuali e morali, dell’umanità” [54].

Il frutto di questo sarà il liceo femminile, in cui all’assenza di qualsiasi istruzione di tipo scientifico e matematico corrispondeva lo studio di “Lavori femminili ed economia domestica”. Tale liceo ebbe breve vita e venne chiuso nel 1928, per mancanza di iscrizioni.

Un ultimo cenno va fatto ai programmi. La scuola elementare, come abbiamo detto, vedeva al centro l’insegnamento della religione come coronamento e fondamento dell’istruzione. Nel Regio Decreto del 1° ottobre 1923, che riguarda l’istruzione elementare, il programma di religione, infatti, è al primo posto. Ma sebbene fosse prevista solo un’ora a settimana nel corso preparatorio, un’ora e mezza nel corso inferiore e due in quello superiore, in realtà la religione cattolica doveva pervadere l’insegnamento in tutte le discipline: “essa sconfinava nell’insegnamento del canto sotto forma di cantici, in quello dell’italiano attraverso l’esaltazione degli eroi della fede cattolica [secondo il decreto, il Manzoni dei Promessi sposi occupa un posto privilegiato insieme a Dante e a passi dal Vangelo e dalla Bibbia], nelle ‘occupazioni intellettuali ricreative’ e nella storia” [55].

Anche nei programmi di filosofia dei licei (in cui il materialismo è bandito, se non per la timida comparsa di Lucrezio, autore latino de De rerum natura), il pensiero religioso trovava il suo posto: nell’elenco degli autori del 1925, venivano inseriti Sant’Agostino, San Tommaso (padre della filosofia scolastica medievale), San Bonaventura, mentre nelle magistrali tra i pedagogisti compaiono uomini di fede come Silvio Antoniano, Don Bosco e Ausonio Franchi, quest’ultimo inserito tra i classici di filosofia col suo libro Ultima critica, col quale avrebbe “migliorato” i programmi di scienze naturali “per il modo compendioso onde è indicata la funzione riproduttiva negli animali [e] per il posto assegnato all’uomo nel regno animale” [56]. Concludeva il corso i Discorsi di religione dello stesso Gentile (R.D. 31 dicembre 1925, n.2473).

L’insegnamento della religione serviva da un lato a rinsaldare la tradizione cattolica della “razza” italiana, dall’altro era propedeutico all’insegnamento della filosofia idealistica, nella misura in cui questa doveva fornire allo studente cittadino “la coscienza della presenza di Dio nella vita concreta dello spirito” [57].

Per il resto l’insegnamento primario è pervaso da un forte spirito nazionalista, come si vede ad esempio dal corso di storia. Lo sviluppo storico è anzitutto italiano, mentre poco o nulla si sa riguardo al resto d’Europa, giacché la preoccupazione principale è di insegnare “l’italianità”; persino la geografia è improntata al nazionalismo: così le Alpi sono la difesa comune a tutti gli italiani (distorcendo un passo di Catone nelle Origines), la Corsica si insegna insieme alla Sardegna e alla Sicilia, perché rivendicata come italiana; la grande storia è fatta di personaggi eroici e di momenti salienti di storia patria, in cui anche la Chiesa trova il suo momento di gloria, ad esempio, nell’aver difeso Roma dalle “invasioni barbariche”. Giacché per l’idealismo la storia ha un fine, essa tende alla realizzazione dell’unità d’Italia, dalla lotta dei Comuni contro Federico Barbarossa al Rinascimento, dalle guerre d’indipendenza del Risorgimento fino alla Guerra del 1915-1918, vista come ultimo atto dell’unificazione, culminando nella nascita dell’idea fascista e nella sua affermazione contro ogni idelogia che tendesse alla distruzione dell’idea di Patria.

“L’insegnamento della storia tende […] a infondere nei giovani la coscienza di appartenere a una comunità gloriosa in cui i momenti solenni sono stati sempre caratterizzati da sacrifici eroici nella lotta contro lo straniero. Lo studio di questa prestigiosa galleria di antenati inculca nel fanciullo la convinzione che i grandi periodi della storia della sua patria sono quelli in cui il popolo ha saputo dar prova di abnegazione, a immagine di un eroe nazionale” [58].

A coronamento di ciò, all’inizio del 1923, verrà fatto obbligo nelle scuole elementari di chiudere la settimana col saluto al tricolore col braccio teso (la norma verrà poi estesa nel 1926 a tutti gli ordini e gradi di scuola, sia agli studenti che agli insegnanti).

Così patria e religione occupano nell’insegnamento primario (ma anche nei corsi superiori) un posto d’onore, penetrando in tutti gli insegnamenti. Ovviamente a detrimento delle discipline scientifiche. L’importanza assegnata alle discipline umanistiche, nell’istruzione primaria come in quella media inferiore e superiore, mettono in un angolo quelle scientifiche, considerate minori (e pericolose). L’insegnamento della matematica, ad esempio, progrediva in modo straordinariamente lento e “prudente”, mentre le scienze vere e proprie venivano asservite alla formazione pratica, come l’igiene personale, oppure del tutto trascurate a vantaggio di altre discipline come l’economia o il lavoro femminile. Negli stessi licei, le discipline scientifiche vengono mortificate in un quadro orario del tutto insufficiente: nel ginnasio, ad esempio, sono abolite (ad eccezione della matematica) e perfino nel liceo scientifico vengono sacrificate a tutto vantaggio delle discipline umanistiche.

Nei licei dominano le lingue classiche (escluse invece dai tecnici e dai professionali), strumento di “ginnastica mentale, di potenziamento del sentimento nazionale, di selezione degli ingegni, di efficace preparazione agli alti uffici della vita politica e civile” [59], mentre le lingue straniere (inglese, francese e tedesco), insegnate con lo stesso metodo grammaticale delle lingue morte, restano in posizione di inferiorità rispetto all’italiano, al latino e al greco. Come si può notare, nel corso dei decenni il quadro non è sostanzialmente cambiato.

Nel solco di Gentile

L’attuazione della riforma Gentile non fu priva di polemiche, anche tra le fila dei fascisti e ci fu chi propose questa o quella riforma, questo o quel ritocco. Dopo Gentile vi saranno altri nove ministri dell’Istruzione sotto il regime di Mussolini, e alcuni attueranno delle modifiche, ma in sostanza le successive riforme, in particolare la Carta della scuola del ministro Bottai, non ne contraddiranno lo spirito, anzi ne manterranno in vita l’impianto classista e reazionario. Bottai, per esempio, vuole riuscire ancora di più dove, secondo lui, il suo predecessore aveva fallito. È convinto, infatti, di riuscire a sbarrare l’accesso all’università “a coloro che l’umile nascita destina al lavoro manuale” [60]. Afferma con decisione:

Una scuola che si rivolgesse a chiunque sarebbe demagogica, non selezionatrice; sarebbe fomentatrice di ambizioni, creatrice di masse disoccupate e scontente, elemento continuo di disordine e di perturbazione nella vita produttiva, non meno che morale, del paese.” [61]

Gentile approva la riforma di Bottai, dicendosi sollevato constatando che non si tratta di una controriforma, ma di una sostanziale continuazione della sua opera.

Morto Gentile, caduto il fascismo, la neonata democrazia repubblicana si limiterà a pochi e superficiali cambiamenti, eliminando le più vistose incrostazioni fasciste ma mantenendone l’impianto classista. Fino al ’68 resterà inalterata l’idea della trasmissione del sapere enciclopedico a carattere umanistico, mnemonico e acritico, nonché l’impianto classista e il vituperato autoritarismo di insegnanti, capi d’istituto, provveditori e ministri.

Allo scoppiare del movimento studentesco, tutto il mondo dell’istruzione fu sottoposto a rivolgimenti importanti che minarono alle basi la scuola gentiliana. Il movimento studentesco e operaio ottenero un’istruzione di massa accessibile a tutti, a cominciare dai figli dei lavoratori, il riconoscimento di diritti democratici nella scuola sia per gli studenti (assemblee studentesche, elezione di propri rappresentanti, ecc.), sia per i lavoratori (diritto di assemblea, libertà di insegnamento, libertà sindacali, ecc. ottenuti con i Decreti delegati del ’74), e poi studentati e borse di studio per i più poveri, quando già nel 1962 il primo governo di centrosinistra aveva varato con Gui la scuola media unica, gratuita e obbligatoria. Ma sarà lo stesso ministro Gui, poi, ad essere travolto dalle proteste studentesche del ’68, poiché il suo dicastero l’anno precedente aveva previsto con la L. 2314 di rendere ancora più stringenti i criteri per l’ammissione all’università, restando così fedele alle idee di Gentile e Bottai.

Ancora nel 1978 Salvatore Valitutti, allievo di Gentile, esponente liberale, ministro dell’Istruzione nel primo governo del democristiano Cossiga, si scagliava contro i comunisti che “si batterono a un tempo per l’egalitarismo livellatore e per il permissivismo pedagogico e didattico, che normalmente sono mezzi utili per distruggere ma non per costruire”, criticando la scuola media unica e anche i sindacati, che in preda al “mito dell’egalitarismo” “hanno dimostrato e dismostrano che anch’essi condividono il sogno dei ‘progressisti dell’educazione’ che identificavano e tuttora identificano […] la sola via dell’elevazione sociale nella scuola che non porta ma allontana dal lavoro” [62].

Non è questa la sede per ripercorre tutte le (contro)riforme della scuola, ma se si passano in rassegna si può notare come ognuna di queste abbia lentamente tentato di demolire ogni conquista del proletariato italiano in materia di istruzione, attraverso il rafforzamento del ruolo dei presidi (oggi “dirigenti” scolastici con prerogative da manager d’azienda), i continui tentativi di privatizzazione (in moltissime scuole i legami con le aziende private sono acclarati), la restrizione di spazi democratici e una rinnovata (e mai veramente cancellata) selezione di classe in tutto il percorso di studi. Lo dimostrano, ad esempio, i dati di AlmaDiploma [63]. Secondo l’ultima indagine (2023), ad esempio, la quota dei diplomati stranieri (che generalmente sono figli di lavoratori dipendenti) è più alta nei professionali e nei tecnici (rispettivamente 14,8% e 9,4%) che non nei licei (4,7%); nei licei i figli dei laureati sono la netta maggioranza (44,5%), mentre i figli di coloro che non hanno nessun titolo è nettamente inferiore (13%), ma la situazione nelle scuole professionali è esattamente ribaltata; infine, nei licei i ragazzi che provengono dalla classe lavoratrice sono il 16%, ma salgono al 34% nei professionali, viceversa gli studenti della classe sociale alta nei licei rappresenta il 33%, mentre nei professionali è al 14% e nei tecnici al 18%. La situazione relativa alla selezione di classe è ancora più evidente se si considera il dato dei laureati in Italia: solo il 26,6% di quelli che escono dalla scuola secondaria si laurea (e il dato scende al 20% al Sud). A ciò si aggiungano i dati relativi all’abbandono scolastico (un tragico 12,7% nel 2021, alla fine della terza media).

Secondo il ministro Urso, “la Riforma Gentile del sistema scolastico è un impianto che, nonostante le successive modifiche, è ancora in vigore per la sua attualità”. In effetti, per molti aspetti, l’impianto fondamentale della Riforma Gentile è quella che nei fatti ancora struttura il sistema dell’istruzione nell’Italia di oggi. Lo stesso Valditara sembra essere un nostalgico di Gentile, quando invoca più rigore e più disciplina, prima affermando che “l’umiliazione è un fattore di crescita”, poi pensando a una riforma del sistema di valutazione della condotta in senso ancora più repressivo; quando vuole rivedere le Indicazionai nazionali (i vecchi “programmi”), nel segno della “identità italiana”; oppure, quando spinge il piede sull’acceleratore della scuola del merito e dei doveri, senza preoccuparsi delle profonde disparità di classe che attraversano la scuola italiana; oppure ancora, quando ha tentato di aumentare il numero dei componenti del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione di nomina ministeriale, mettendo così in minoranza la componente eletta democraticamente (provvedimento poi stralciato dal Decreto scuola); o, infine, quando regala 700 milioni di soldi pubblici alle scuole paritarie per l’anno scolastico 2023-2024.

Ha ragione il ministro Urso: la scuola italiana, per molti aspetti, è ancora la scuola del fascista Giovanni Gentile, in materia di autoritarismo, selezione di classe, rigurgiti nazionalisitici, ecc… Non dovrà tardare un altro ’68 per portare a termine le conquiste di quegli anni e spazzare via ciò che resta di questa scuola classista e autoritaria.

Note

[1] Benedetto Croce (1866-1952), tra i più noti filosofi e critici letterari del Novecento italiano. Esponente del Partito Liberale (PL), senatore del Regno d’Italia e ministro della Pubblica Istruzione (1920-1921), come molti altri liberali sostenne il fascismo e l’azione squadrista di Mussolini fino all’omicidio Matteotti; unico intellettuale antifascista a godere del privilegio della libertà, fu autore del cosiddetto Manifesto degli intellettuali “non” fascisti; caduto il regime, venne eletto nell’Assemblea Costituente per i Liberali
[2] G. Gentile, Le due anime del popolo italiano prima della guerra
[3] G. Gentile, La filosofia della guerra
[4] G. Gentile, Le due anime del popolo italiano prima della guerra
[5] G. Gentile, Scritti per il Corriere
[6] B. Croce, La situazione politica (luglio 1924), intervista al “Giornale d’Italia”, 10 luglio 1924
[7] Luigi Sturzo (1871-1959), sacerdote, fondatore del Partito Popolare Italiano (1919), di ispirazione cattolica e antesignano della Democrazia Cristiana
[8] Giovanni Giolitti (1842-1928), esponente liberale, più volte primo ministro fino alle soglie dell’avvento del fascismo
[9] Sebastiano Timpanaro (1888-1949), autore di saggi scientifici, vicino alla filosofia idealista
[10] B. Croce a S. Timpanaro, 3 giugno 1923 (Croce, Epistolario, vol. I, Istituto di Studi Storici, Napoli, 1967)
[11] L’on. Orlando spiega in un discorso a Palermo perché ha aderito alla lista nazionale, “Corriere della Sera”, 2 aprile 1924
[12] La fede antica, discorso tenuto il 2 luglio 1923 a Siena , in Giovanni Gentile, Il fascismo al governo della scuola, Palermo, Sandron, 1924, p. 181
[13] Mimmo Franzelli, Il filosofo in camicia nera. Giovanni Gentile e gli intellettuali di Mussolini, Milano, Mondadori, 2021
[14] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, pp. 867 e 2349
[15] “Sì, c’è una questione morale, su cui deve farsi tutta luce. Ma, c’è una gravissima questione politica, su cui ogni buon italiano non può chiudere gli occhi. Io temo il caos se certa gente oggi prevale, mentre dal fascismo, a certi segni, vengono affiorando molti germi di bene, che prima si tentava di soffocare”. Giovanni Gentile a Fortunato Pintor, Rosburgo, 9 settembre 1924, in Giovanni Gentile e il Senato. Carteggio (1895-1944), a cura di E. Campochiaro, L. Pasquini, A. Milozzi, Roma, Senato della Repubblica, 2004, p. 387
[16] “Dopo la fondazione dell’Impero”. La conferenza di S. E. Gentile all’Università, “La Nazione”, 30 Maggio 1936
[17] La società “Amici del Giappone” solennemente inaugurata, “Corriere della Sera”, 13 febbraio 1938
[18] G. Gentile, L’accademia d’Italia e l’Italia di Mussolini, citato in M. Franzinelli, Il filosofo in camicia nera, cit. p. 258
[19] G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cap. XVI, 1
[20] G. Gentile, ibid.
[21] A. Pagano, Giovanni Gentile ministro, “Idea nazionale”, 11 novembre 1922
[22] Enrico Corradini (1865-1931), segretario dell’Associazione Nazionalista Italiana (1914), poi confluito nel Partito Nazionale Fascista
[23] Luigi Federzoni (1878-1967), più volte ministro sotto il fascismo (agli Interni e alle Colonie), Presidente del Senato; dopo la caduta del regime venne condannato all’ergastolo e poi amnistiato (1947)
[24] Alfredo Rocco (1875-1935), nazionalista, poi esponente del PNF, fu autore come Ministro della Giustizia (1930) del famigerato Codice penale
[25] G. Gentile, La Marcia su Roma, Idea nazionale, 28 ottobre 1923
[26] Il discorso del senatore Gentile, Il Popolo d’Italia, 20 dicembre 1925
[27] G. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, p. 58
[28] G. W. F. Hegel, Propedeutica filosofica, “Doveri verso gli altri”, in Il dominio della politica, a cura di N. Merker, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 326, par. 57
[29] G. Gentile, La dottrina del fascismo, 1932, par. 7
[30] G. Gentile, Che cosa è il fascismo, p. 12
[31] G. Gentile, Il mio liberalismo, “La Nuova politica liberale”, Anno I, n.1, gennaio 1923
[32] G. Gentile, La legge del Gran Consiglio, “Educazione Fascista”, anno VI, n.9, settembre 1928, pp. 513-517
[33] G. Gentile, Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, 1946, p.65
[34] G. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, p. 70
[35] Giuseppe Prezzolini (1882-1982), scrittore, vicino all’idealismo crociano, fondatore della rivista La voce, interventista e corrispondente, per quache tempo, per il Popolo d’Italia, giornale fondato da Benito Mussolini
[36] Citato in T. Tomasi, Idealismo e fascismo nella scuola italiana, op. cit. p. 58
[37] G. Gentile, L’unità della scuola media e la libertà degli studi, citato in Jürgen Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 102
[38] Intervista a G. Gentile, “Giornale d’Italia”, 29 agosto 1923, citata in J. Charnitzky, 1996, pp. 197-8
[39] Piero Gobetti (1901-1926), giovane intellettuale liberale, vicino all’idealismo crociano; fondò e diresse diverse riviste, tra cui la più nota fu Rivoluzione liberale; allievo di Gentile, se ne distaccò presto e, vittima di persecuzioni e attacchi squadristi, perse la vita a soli 25 anni per mano fascista
[40] Cfr. P. Gobetti, “Rivoluzione liberale”, 8 Maggio 1923
[41] Augusto Monti (1881-1966), docente e scrittore italiano, interventista nella Prima guerra Mondiale, liberale e vicino all’idealismo, ruppe col fascismo nel 1925 e per questo arrestato e incarcerato
[42] Vedi i giudizi sulla scuola “di massa” di inizio Novecento in Tina Tomasi, Idealismo e fascismo nella scuola italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1969, pp. 6-7
[43] La riforma prevede, infatti, dopo il l’istruzione elementare (in cui si insegneranno oltre a leggere, scrivere e far di conto, anche il disegno artistico – perché tipico, secondo il filosfo, delle menti irrazionali dei bambini – e la religione, in quanto la mente inabile dei bambini è capace di imparare solo il dogma) ben sei tipi di scuola media inferiore: il corso integrativo delle elementari (poi soppresso nel 1929), la scuola complementare (poi scuola professionale, nel 1927), l’istituto tecnico inferiore, la scuola magistrale (per i futuri maestri), la scuola d’arte e il ginnasio che porterà al liceo classico. Dopo il percorso della scuola media inferiore, altri cinque indirizzi: il liceo classico, che immette in tutte le facoltà universitarie; il liceo scientifico, con sbocchi universitari più limitati, l’istituto magistrale, che immette solo negli istituti superiori di magistero; infine, il liceo femminile (poi soppresso) e gli istituti tecnici, senza sbocchi universitari.
[44] Gaetano Salvemini (1873-1957), socialista e interventista; avverso al fascismo, aderì al Partito Socialista Unitario di Turati e Matteotti, dopo l’omicidio di quest’ultimo
[45] Cfr. G. Salvemini, in “Il popolo di Roma”, 4, 5, 8, 9 maggio 1923
[46] Art. 3 del R.D. 1° ottobre 1923, n. 2185
[47] A. Gemelli, prefazione a La libertà della scuola di G. Monti, Milano, “Vita e pensiero”, 1928
[48] G. Gentile, Circolare ministeriale n.64, 25 novembre 1922
[49] Cfr. V. Pirro, “Regnum hominis”. L’umanesimo di Giovanni Gentile, Roma, Nuova cultura, 2012, p.210
[50] G. Gentile, Il fascismo e la Sicilia, in “Levana”, 1924, n.2
[51] T. Tomasi, Idealismo e fascismo nella scuola italiana, cit., p. 60 e 129
[52] G. Gentile, I problemi attuali della politica scolastica. Discorso al Senato del 12 aprile 1930, in “Civiltà moderna”, 15 aprile 1930, p. 375
[53] J. Charnitzky, Fascismo e scuola, op. cit., p. 121
[54] G. Gentile, Esiste una scuola in Italia? (1918), citato in J. Charnitzky 1996, p. 121
[55] M. Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari, 1980, p. 92
[56] Citato in T. Tomasi, op. cit. p. 88
[57] G. Gentile, Discorsi di religione, in La riforma dell’educazione, 1920, p. 232
[58] M. Ostenc, op. cit., p. 86
[59] T. Tomasi, op. cit., p. 52
[60] T. Tomasi, op. cit., p. 161 e 166
[61] G. Bottai, La carta della scuola, Milano, Mondadori, 1939, p. 33
[62] S. Valitutti, G. Gozzer, La riforma assurda. La scuola secondaria superiore da G. Gentile a M. Di Giesi, Armando Armando Editore, Roma, 1978, p. 18 e pp. 27-28
[63] https://www.almadiploma.it/indagini/profilo/profilo2023/

 

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