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4 Marzo 2019Il drammatico “stallo” tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e i democratici riguardo alla politica da seguire riguardo al confine è una cinica farsa tra due partiti che rappresentano la stessa classe. Poco dopo le elezioni di metà mandato, quando i democratici hanno ripreso il controllo della Camera, Nancy Pelosi con tono di sfida ha promesso di non dare “nemmeno un dollaro” a Trump per il suo muro.
Pelosi ha affermato:
“Non stiamo facendo un muro. Qualcuno ha dei dubbi al riguardo? Non stiamo facendo un muro. Ecco. . . Non ha nulla a che fare con la politica. Il muro è un’immoralità tra paesi. È un modo vecchio di pensare e non è economicamente vantaggioso.”
Passato un mese, dopo i 35 giorni di shutdown governativo, i Democratici hanno riesaminato la questione e sono tornati con una proposta di spesa di 1.375 miliardi di dollari per 55 miglia di “recinzione”. Aggiungendo l’incremento degli stanziamenti per il Dipartimento della Sicurezza Nazionale, che comprende 1,7 miliardi di dollari di aumento di spesa per 1.200 nuovi poliziotti di frontiera e per nuove tecnologie nei di punti di accesso, il bilancio della Customs and Border Protection (Dogana e Polizia di frontiera) arriva così alla cifra record di 14,9 miliardi di dollari, una cifra superiore ai 7,6 miliardi di dollari per l’ICE (l’agenzia federale responsabile della sicurezza alle frontiere e dell’immigrazione).
Anche se i quasi 1,4 miliardi di dollari sono inferiori ai 5,7 chiesti da Trump per il muro, il presidente ha firmato l’accordo, 48 ore prima che un secondo shutdown potesse essere attivato. Il New York Times ha immediatamente espresso la soddisfazione dei liberali per aver imposto un compromesso, prendendosi gioco del fatto che la campagna per la firma promessa dal presidente si fosse “schiantata contro un muro”.
Tuttavia, Trump ha immediatamente fatto un’altra svolta dichiarando una “emergenza nazionale” al fine di costruire il muro. Ciò consentirebbe di riallocare 3,6 miliardi di dollari dai progetti per le installazioni militari, 2,5 miliardi dai “programmi di lotta al narcotraffico” e 600 milioni dal Dipartimento del Tesoro, per un totale di circa 8 miliardi di dollari, che comprendono quelli già autorizzati dal Congresso.
Una crisi costituzionale?
La decisione di adottare provvedimenti esecutivi ha diviso i repubblicani e ha avviato frenetici preparativi tra i democratici per manovre legali e legislative. Dopo pochi giorni dalla dichiarazione di Trump, una coalizione di 16 stati guidati dal Procuratore Generale della California ha presentato ricorso e un’ondata di altre cause legali sono in corso. Sebbene il National Emergency Act del 1976 lasci al Presidente la facoltà di determinare ciò che costituisce una “emergenza nazionale”, gran parte del contenzioso contro la mossa di Trump si concentra sul fatto che quest’ultimo abbia usato la legge del 1976 per aggirare il Congresso, dopo che gli era stato inizialmente negata la richiesta di finanziamento, una cosa che nessun Presidente aveva mai fatto in precedenza.
In realtà, non è tanto la “costituzionalità” della dichiarazione di emergenza che preoccupa il resto dell’establishment politico, quanto piuttosto il fatto che essa minaccia di far crollare il siparietto della cosiddetta “separazione dei poteri” e i sacri “pesi e contrappesi” che vengono usati per dare allo stato una patina di imparzialità e democrazia. Se l’azione per decreto è sufficiente ad approvare misure di emergenza senza passare attraverso il voto del Congresso, ciò mette in discussione la classica scusa usata per giustificare l’inerzia su altre riforme come l’assistenza sanitaria universale – che, in ogni caso, è un’emergenza nazionale molto più plausibile.
David Waller, consulente legale dei repubblicani per le questioni giuridiche, ha scritto, prima della dichiarazione di Trump:
Non c’è emergenza e la rinnovata minaccia del Presidente di dichiararne una dovrebbe indurci tutti, indipendentemente dall’inclinazione politica, a pensare a lungo e a fondo sul precedente che una simile dichiarazione potrebbe comportare, se dovesse in qualche modo sopravvivere ai ricorsi legali. Si potrebbero indirizzare le forze armate a costruire alloggi a prezzi popolari perché un presidente nel prossimo futuro dichiara che la disuguaglianza economica è “un’emergenza?” Il Corpo degli ingegneri dell’Esercito potrebbe essere indirizzato a costruire impianti a energia solare perché il cambiamento climatico viene dichiarato una “emergenza? I “cosa succederebbe se” sono innumerevoli e preoccupanti.
La deputata repubblicana di Washington Cathy McMorris Rodgers ha fatto eco a questa preoccupazione: “Se fossero eletti presidente, Elizabeth Warren o Bernie Sanders userebbero questo precedente, dichiarando un disastro nazionale per forzare il popolo americano al Green New Deal?“
Chris Stewart, un membro del Congresso eletto nello Utah, che ha recentemente lanciato un “caucus anti-socialista” al Congresso per mettere in guardia “i legislatori e il pubblico sui pericoli del socialismo”, non è d’accordo con la dichiarazione dell’emergenza: “Che il Presidente ne abbia l’autorità o no, questo stabilisce comunque un pericoloso precedente e pone l’America su un sentiero di cui ci pentiremo“.
Gli Stati Uniti sono più polarizzati oggi di qualsiasi altro periodo degli ultimi decenni, forse più di ogni altro periodo dopo la Guerra civile. Alla base di questa polarizzazione c’è la crisi del sistema capitalista e il vicolo cieco che rappresenta per milioni di persone che hanno visto crollare il loro tenore di vita e sfumare i progetti per il futuro. Il sentimento comune che la società sia in declino è molto diffuso. Ciò si riflette in comportamenti contraddittori e distorti, in gran parte come risultato di un sistema con due partiti capitalisti che negano alla classe lavoratrice uno sbocco politico.
Dato questo vuoto, c’è una chiara logica dietro alle azioni di Trump. Alimentando il sentimento reazionario antiimmigrati che c’è nella sua base, insieme all’incremento dei suoi appelli per una crociata contro la crescente influenza del socialismo, l’ala trumpiana della classe dominante cerca di consolidare nel’opinione pubblica una visione del mondo reazionaria nella speranza di impedire che milioni di lavoratori e poveri si uniscano contro il capitalismo.
Piuttosto che contrastare questa visione, i Democratici la rafforzano convintamente, contrapponendo una variante “più umana” dello stesso messaggio: i controlli sull’immigrazione devono essere applicati, ma i confini dovrebbero essere controllati con meno brutalità. Persino alcuni eletti tra i democratici e che si definiscono socialisti, hanno giocato con questo pregiudizio limitando la richiesta di “Abolire l’ICE” e deviandola verso il canale molto meno pericoloso della discussione sui metodi di controllo delle frontiere o sulle responsabilità specifiche delle singole forze di polizia, continuando a insistere sul fatto che la “sicurezza delle frontiere” rimane intatta.
Un dramma in pieno svolgimento
Dallo shutdown federale sul bilancio all’emergenza nazionale di Trump e all’ondata di ricorsi legali in atto per fermare la “presa del potere” del presidente – ogni cambiamento del copione viene coperto dai media mainstream come una nuova svolta in una lotta di potere in corso tra Trump e ” la resistenza”. Quale sarà la prossima mossa di Trump? Come reagiranno Democratici e Congresso?
Dal punto di vista dei lavoratori, questo sceneggiata è una farsa ipocrita e cinica. Entrambe le parti coinvolte nello “stallo” sono a favore della stessa politica di militarizzazione del confine e della repressione dei lavoratori senza documenti. Che si tratti di un muro o di un “recinto”, o semplicemente del potenziamento degli agenti di frontiera, la politica di confine è uno sforzo bipartisan, perfezionato e rafforzato alternativamente dai repubblicani e, in modo particolare, dai democratici.
Lungi dall’offrire una parvenza di “resistenza” al programma di Trump, sono i Democratici a detenere il primato nell’espansione della “forza per la deportazione” in quello che è oggi. Nel 2018, Trump ha deportato 256.000 immigranti privi di documenti – un aumento del 13% rispetto al 2017, ma poco più della metà dei 409.849 che furono deportati sotto Obama nel 2012.
Negli otto anni dell’amministrazione Obama, 5,4 milioni di immigranti privi di documenti sono stati fermati fisicamente e 5,3 milioni sono stati espulsi, tra cui 3,1 milioni con la forza e 2,2 milioni allontanati per “ritiro della domanda di permesso o ordine di partenza volontaria”. Questo equivale a una media di 1.815 espulsioni per ogni giorno di quella amministrazione. La media giornaliera di Trump è finora di 660. Sebbene la deportation force di Obama non abbia mai goduto dei riflettori che hanno ricevuto gli attacchi di Trump, i milioni di lavoratori che si sono trovati nel mirino del “Capo dei deportatori” sanno che i Democratici rappresentano una minaccia non inferiore a quella dei Repubblicani.
Un programma socialista per combattere il muro
Fin dalla nascita del movimento, la lotta per il socialismo è stata internazionalista. Come Marx ed Engels spiegavano nel Manifesto del Partito Comunista:
“I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell’intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari; e dall’altra per il fatto che sostengono costantemente l’interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia.”
Mentre un movimento socialista in ascesa comincia a prendere forma negli Stati Uniti, pochissime voci propongono una prospettiva di classe in relazione alla questione dell’immigrazione, preferendo trattarla come una questione morale astratta, riducendola alla brutale repressione al confine, senza offrire una qualsiasi alternativa con la quale sostituire il “controllo di frontiera” dello stato capitalista. Affinché il socialismo statunitense faccia i suoi primi passi, il movimento dovrà abbandonare i pregiudizi liberali che fino ad ora l’hanno tenuto in uno stadio infantile.
In questa lotta, il primo compito dei socialisti è quello di spiegare che la classe operaia è una classe globale impegnata in una lotta mondiale per i suoi interessi contro gli interessi ristretti e irrazionali del sistema capitalista. Oggi i due principali ostacoli al progresso umano sono la proprietà privata dei mezzi di produzione e lo stato nazionale. Le esigenze del mercato hanno spinto verso il basso i livelli di vita dei lavoratori di tutto il mondo, lavoratori che erano vincolati all’interno dei confini artificiali creati dal capitalismo nella sua epoca di ascesa, ma che non hanno più alcuno scopo progressista.
Oggi, lo stato nazionale è uno strumento per proteggere i profitti di pochi e creare un settore super-sfruttato della classe operaia, consentendo ai padroni di ridurre gli stipendi e minacciare i lavoratori rendendoli licenziabili in qualsiasi momento. Ma mentre i capitalisti usano i muri e la polizia per isolare e intimidire miliardi di persone in tutto il mondo, loro sono i primi a non rispettarli. Come ha detto durante una trasmissione radiofonica un manager che ha lavorato per anni per dei miliardari: “È inimmaginabile, nel vero senso della parola. Le frontiere nazionali non sono niente per loro. Potrebbero anche non esistere”.
Non c’è motivo che per qualcuno questi confini debbano esistere. Ma per avere una soluzione autentica e duratura, dobbiamo andare oltre il “possibile” all’interno del capitalismo. L’unica via d’uscita dall’impasse è che il movimento operaio entri in scena e organizzi l’intera classe lavoratrice, senza distinzioni tra chi abbia o meno la cittadinanza americana. Combattendo per la legalizzazione immediata e incondizionata di tutti i lavoratori, per i diritti sindacali e per un aumento dei salari, i lavoratori possono trasformare la questione dell’immigrazione da un’arma dei capitalisti per dividerci in un’arma della classe operaia contro gli stessi capitalisti.
25 febbraio 2019