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Unione Europea – Chi paga il conto della crisi climatica?

Il grande battage pubblicitario attorno alla “Legge sul ripristino della natura” approvata la scorsa settimana dal Parlamento europeo (resa sostanzialmente innocua nei suoi effetti concreti) è teso a nascondere i veri obiettivi dell’Unione europea: il rilancio di un protezionismo “green” dove a pagare saranno i lavoratori e le loro famiglie.

 

La tendenza verso il protezionismo e lo scontro tra blocchi imperialisti si esprime non solo nei conflitti militari o nelle guerre commerciali, ma anche nelle politiche adottate nei vari paesi sulla questione del cambiamento climatico. Da un lato c’è la Cina, che detiene una grandissima fetta delle materie prime necessarie a produrre le cosiddette tecnologie “green”, dalle batterie per le auto elettriche ai pannelli solari. Dall’altro ci sono gli USA che hanno varato l’IRA (Inflation Reduction Act), un pacchetto di incentivi e sussidi pubblici per centinaia di miliardi di dollari, che viene spacciato come un piano per contrastare il riscaldamento globale, quando invece prevede sfacciate misure protezioniste a sostegno delle industrie americane contro la concorrenza cinese ed europea. In mezzo, schiacciata tra due colossi, si trova l’Unione Europea, che a sua volta cerca di ritagliarsi una fetta di mercato attraverso politiche protezioniste, ma non ha né le materie prime della Cina né i mezzi finanziari degli USA. Proprio a causa di questa debolezza, l’Europa capitalista è ben determinata a mantenere i margini di profitto delle proprie aziende facendo pagare la crisi climatica alla classe lavoratrice e ai ceti popolari. In questo avrà un ruolo centrale il mercato europeo delle quote di CO2, l’ETS (Emission Trading System), il meccanismo di compravendita dei permessi necessari ad emettere gas serra.

 

Protezionismo “green”

Istituito nel 2005, l’ETS era uno dei cardini delle politiche europee per ridurre le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. Lo scopo era quello di dare un prezzo alla CO2, ponendo le aziende inquinanti di fronte ad una scelta: o ridurre le emissioni inquinanti o sobbarcarsi costi crescenti per pagare le emissioni in più rispetto al tetto consentito per legge.

Che questo sistema sia miseramente fallito lo ho dimostrato la crisi energetica seguita alla guerra in Ucraina, quando le fonti rinnovabili disponibili si sono rivelate del tutto insufficienti a rimpiazzare il gas russo e tutti i governi europei sono corsi ad accaparrarsi gas e petrolio provenienti da altri paesi.

Recentemente il Consiglio Europeo ha approvato una riforma dell’ETS, con l’obiettivo di renderlo più efficiente. La riforma si concentra sostanzialmente su due capisaldi. Il primo è il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM), che verrà introdotto progressivamente a partire dal 2025: si tratta in buona sostanza di un dazio doganale imposto ai prodotti importati da paesi in cui le norme ambientali sono meno rigorose di quelle europee (come USA e Cina…). Più che di uno strumento per salvaguardare l’ambiente, il CBAM è uno strumento per favorire l’industria europea e a scoraggiare la delocalizzazione della produzione in altri paesi. Poiché però la UE dipende dalle importazioni nel settore minerario ed energetico, i dazi potrebbero avere un effetto boomerang, spingendo i prezzi verso l’alto e alimentando l’inflazione, soprattutto in quei paesi che continuano a puntare sulle fonti fossili come l’Italia, che aspira a diventare “l’hub del gas europeo”.

 

Pagano sempre i lavoratori

Il secondo elemento cruciale della riforma riguarda un nuovo sistema di scambio di quote di CO2 anche per il settore del trasporto privato su strada e per le emissioni degli edifici, a partire dal 2027 (il cosiddetto ETS II). Le modalità di pagamento devono ancora essere definite, ma per quanto riguarda i trasporti il rischio è che il costo aggiuntivo venga scaricato direttamente alle pompe di benzina: più sarà alto il prezzo del carbonio alla tonnellata, più alto sarà l’aumento ai distributori. Stesso discorso varrà sugli edifici, dove le aziende che forniscono energia elettrica dovranno compensare le emissioni di CO2 tramite certificati ETS e poi recupereranno le spese sostenute alzando le bollette.

Altra proposta in campo nel Consiglio Europeo prevede di mettere fuori legge le caldaie a gas (che sono la grande maggioranza) entro il 2035: indubbiamente riscaldare gli edifici con tecnologie meno inquinanti sarebbe fondamentale, peccato che dovranno essere le famiglie di lavoratori con i loro magri stipendi a sobbarcarsi tutte le spese per la sostituzione dei vecchi impianti. Anche la normativa europea “case green”, che impone di modificare entro i prossimi anni la classe energetica degli edifici, rischia di rappresentare un costo insostenibile per milioni di lavoratori.

Un’ultima nota a margine: la nuova riforma dell’ETS riguarda anche il settore di navi e aerei, che fino ad oggi ha beneficiato di quote di CO2 gratuite, ma a partire dal 2026 dovrà pagare per le proprie emissioni, con un conseguente aumento dei prezzi dei biglietti. Guarda caso esistono però delle deroghe per alcune tipologie di imbarcazioni e aeromobili dalle dimensioni ridotte. In questo modo gli yacht o i jet privati dei super ricchi non avranno nessun problema.

 

Una risposta di classe

La natura discriminatoria e classista di queste normative è evidente, ma c’è un’ulteriore conseguenza negativa: agli occhi di ampi strati di ceti popolari “la lotta al cambiamento climatico” diventerà sinonimo di prezzi più alti per fare il pieno, per le bollette, per ristrutturare il proprio condominio, per viaggiare… Verrà così portata acqua al mulino di quelle forze reazionarie che negano il problema del riscaldamento globale e propongono di andare avanti con le fonti fossili, per la gioia delle grandi multinazionali del petrolio.

E invece la questione ambientale è maledettamente seria. Il modo di produzione capitalista rischia di devastare il pianeta in maniera irreparabile. Proprio per questo la soluzione non può essere rappresentata dalle politiche capitaliste tinteggiate di verde dell’Unione Europea, che provocheranno un vero e proprio salasso per la classe lavoratrice, mentre le grandi imprese continueranno a macinare profitti da record. Dobbiamo fare esattamente il contrario: far pagare la crisi alle multinazionali dell’energia che hanno provocato la crisi climatica, espropriarle e metterne le risorse a disposizione della collettività per sostenere tutti i costi di una vera transizione ecologica.

Diventa ogni giorno più necessaria la lotta per una economia pianificata, razionale, gestita dai lavoratori, coordinata a livello internazionale, che metta la salvaguardia dell’ambiente al centro di tutto il processo produttivo.

1 luglio 2023

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