Senzachiederepermesso, di Pietro Perotti
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Economia e politica internazionali convergono rapidamente verso una nuova fase della crisi. Le ricette economiche del “Quantitative Easing”, con le banche centrali che pompano miliardi nel sistema finanziario sperando di riattivare l’economia reale, sono arrivate al limite. Nel migliore dei casi hanno rinviato l’esplosione di alcune crisi finanziarie, ma oggi siamo di nuovo sull’orlo del precipizio.
Le banche europee hanno in pancia oltre mille miliardi di euro di crediti deteriorati, la situazione della Deutsche Bank o delle banche italiane rischia di scatenare un nuovo crollo paragonabile a quelli del 2007-2008. La crisi bancaria è anche un’altra mina per l’Unione europea, che farà esplodere le cosiddette “regole” volute dalla Merkel, che teoricamente vietano gli aiuti di Stato alle banche.
Prosegue intanto il rallentamento del commercio mondiale e della crescita. Il lungo boom cinese ha raggiunto e superato i propri limiti; l’economia cinese è sommersa da una enorme sovrapproduzione a cui i mercati mondiali non offrono sbocchi sufficienti, il capitale si orienta sempre più su impieghi speculativi e improduttivi mentre il rallentamento dell’economia si ripercuote sui paesi fornitori della Cina. Aumentano ovunque le misure protezionistiche e le rappresaglie reciproche: se l’Unione europea minaccia Apple di una maxi multa per elusione fiscale, gli Usa rispondono con le multe a Volkswagen per lo scandalo emissioni e a Deutsche Bank per avere smerciato derivati “tossici” (che sorpresa!). In un contesto di calo degli scambi e degli investimenti esteri, di mercati sempre più asfittici, la possibilità di una gestione comune della crisi si allontana sempre di più. Della Grecia non si parla quasi più, ma la crisi non è affatto risolta. Nonostante la svendita del paese operata dal governo Tsipras dopo il tradimento del 2015, il debito rimane impagabile, tanto che il Fondo monetario internazionale – non esattamente una istituzione di carità – ha detto che è indispensabile annullare unilateralmente almeno parte del debito greco. Di fronte al rifiuto del governo tedesco, il Fmi ha deciso di ritirarsi dalla “troika” (Fmi, Ue e Bce), consapevole che la crisi greca esploderà di nuovo in futuro.
La crisi economica si intreccia alla crisi politica. Persino Mario Draghi, che è ha sempre ostentato il suo ottimismo, ha dichiarato: “Vedo rischi di turbolenze – e un fattore importante è la percezione che l’Ue possa divenire ingovernabile”.
Draghi è persuaso che la Brexit abbia cambiato il vento. “La situazione non era male” prima del referendum, risulta aver detto il numero uno della Bce: “C’era una crescita stabile alimentata dagli investimenti e l’inflazione era bassa, mentre il flusso dei prestiti stava migliorando col mercato del lavoro. Poi è venuto il 23 giugno e tutto è cambiato”.
Ma la Brexit, così come le recenti sconfitte elettorali della Merkel, o la vittoria di Trump nelle primarie repubblicane, ecc. non è caduta dal cielo: sono solo alcuni dei sintomi della crisi politica che inevitabilmente ha seguito la crisi economica. Le politiche di gestione della crisi (tagli, austerità, aiuti pubblici alle banche mentre si tagliava ovunque la spesa sociale, precarietà dilagante, privatizzazioni e saccheggio delle risorse pubbliche, disoccupazione di massa) hanno creato un odio di massa verso tutti i governi e i partiti, di qualsiasi colore politico, che le hanno applicate.
I partiti socialisti si sono immolati sull’altare delle compatibilità capitalistiche, applicando con zelo le politiche di austerità. Come risultato entrano in un declino irreversibile (come il Pasok in Grecia), oppure attraversano crisi profonde e maturano scissioni future. È il caso del Labour Party britannico, dove la leadership di sinistra di Corbyn è stata riconfermata a furor di popolo nelle primarie di settembre mentre il gruppo parlamentare, dominato dalla destra borghese, conduce una lotta sporca e senza esclusione di colpi per rovesciarlo. È il caso del Partito socialista francese di Hollande, che era arrivato alla presidenza promettendo la svolta sociale e la fine dell’austerità, si avvia all’ultimo anno di mandato con all’attivo solo leggi repressive, antioperaie (la “Loi Travail”), scioperi e proteste di massa e una popolarità a picco. È il caso dei socialisti spagnoli, precipitati in una feroce guerra intestina dopo che il segretario Sanchez ha rifiutato di appoggiare un governo guidato dalla destra del Partito popolare, attirandosi una campagna d’odio di tutti i media borghesi che hanno spinto la destra burocratica del partito a defenestrarlo. Oggi il Psoe, che in passato è stato usato come forza di governo per imbrigliare la lotta di classe, è un partito spaccato in due come una mela e inservibile per la classe dominante.
L’Ue ormai è poco più di una facciata di cartapesta mentre gli interessi nazionali delle diverse borghesie si affermano sempre di più e cresce l’opposizione popolare verso la stessa Ue. Ogni idea di “riforma” dell’Unione si è dimostrata ridicola, ci credono solo i burocrati sindacali e della sinistra. Ma nel lottare contro questa l’Ue il movimento operaio non ha alcun interesse a seguire le varie sirene nazionaliste, neppure quando tentano di darsi una tinta “di sinistra” e di classe. Nella crisi del capitalismo non c’è miglioramento possibile per i lavoratori, né sotto la bandiera europea, né sotto quelle nazionali.
La crisi del capitalismo ha scavato una voragine sotto le sovrastrutture politiche del sistema. In questo contesto le idee del cambiamento rivoluzionario della società, di un’economia e una politica realmente controllata dai lavoratori, dai giovani e da tutti gli oppressi da questo sistema diventano più necessarie e attuali che mai.
17 ottobre 2016