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2 Ottobre 2020Il crollo dell’economia italiana è senza precedenti. Già prima dello scoppio della crisi e della pandemia, l’Italia era uno dei paesi che non aveva neppure recuperato i livelli precedenti la crisi del 2009. Su questa struttura già debole si è abbattuta la crisi che ha portato il Pil a un crollo del 12,8 per cento nel secondo trimestre dell’anno in corso. La Commissione europea stima un calo dell’11,2 per cento sull’intero anno: il peggiore nell’Unione europea.
Nonostante il blocco dei licenziamenti, si è già perso circa mezzo milione di posti di lavoro ma l’ecatombe che incombe potrebbe avere dimensioni doppie se non peggio.
L’ottimismo diffuso nei mesi scorsi sul “rimbalzo” post Covid sbiadisce ogni giorno di più, e se l’industria ha leggermente aumentato la produzione dopo il lockdown (del resto era impossibile che calasse ulteriormente) altri settori come il turismo, il commercio al dettaglio, l’intrattenimento, la ristorazione, ecc. hanno subìto perdite che semplicemente non si recuperano.
L’andamento della pandemia è tutt’altro che positivo sia in Italia che nel mondo, e a poco serviranno gli esorcismi e le ripetute promesse di “milioni di dosi di vaccino” in arrivo entro pochi mesi.
Lo scontro commerciale e la debolezza dell’Italia
Il crollo del commercio mondiale, anch’esso senza precedenti, colpisce pesantemente l’Unione europea e l’Italia. La Germania, economia guida, subisce l’attacco feroce al suo settore autombilistico da parte degli Usa, che si spingono inoltre a minacciarla di sanzioni se non interrompe il progetto di corridoio energetico con la Russia. I mercati aperti che hanno fatto le fortune dell’industria tedesca sono sempre più un ricordo, e questo spiega lo stretto accordo che oggi c’è tra Berlino e Parigi per difendere con tutti i mezzi l’area euro, unico mercato sicuro, accordo che si è riflesso anche nella proposta del Recovery Fund e degli altri stanziamenti per ammortizzare gli effetti del Covid.
Anche se questo ha garantito uno spazio di respiro sul piano finanziario per i Paesi ad alto debito come l’Italia, le conseguenze economiche (e politiche) si tradurranno in una ulteriore subordinazione del capitalismo italiano. Gli spazi per muoversi autonomamente sui mercati internazionali si riducono al lumicino. All’interno dell’Ue la linea la daranno Parigi e Berlino, ben disposti ad usare l’industria italiana come fornitore di beni intermedi, molto meno a cedere quote di mercato. Non a caso i tentativi di Fincantieri e delle Ferrovie di espandersi in Francia sono bloccati. Lo stesso accade nell’area mediorientale e del Maghreb, dove storicamente il capitalismo italiano in passato aveva svolto una politica relativamente indipendente mentre oggi, con la parziale eccezione dell’Egitto, si ritrova completamente estromesso dai suoi concorrenti.
Ulteriori problemi verranno dal calo del dollaro, che rende più difficile esportare negli Usa (per l’economia italiana terzo mercato di sbocco), oltre che dalle restrizioni agli spostamenti internazionali che colpiscono pesantemente il turismo, un settore che vale il 5 per cento del Pil (il 13 per cento se si considera tutto l’indotto).
L’impatto del lockdown
L’Istat riassume così la situazione: “L’impatto della crisi sulle imprese è stato di intensità e rapidità straordinarie, determinando seri rischi per la sopravvivenza: il 38,8% delle imprese italiane ha denunciato l’esistenza di fattori economici e organizzativi che ne mettono a rischio la sopravvivenza nel corso dell’anno”. Una stima dell’impatto del lockdown sulla liquidità di circa 800mila società di capitale italiane (che rappresentano quasi la metà dell’occupazione e il 70% del valore aggiunto del sistema produttivo) indica che “il crollo del fatturato a partire dal mese di marzo 2020 ha accentuato le difficoltà finanziarie delle imprese, ponendo sfide severe anche per quelle con una solida situazione economico-finanziaria”. Si stima che il 16,5% (quasi 131mila unità) fosse già illiquido alla fine del 2019; un ulteriore 13,3% (circa 105mila) lo sarebbe diventato tra gennaio e aprile 2020; per il restante 5,9% (oltre 46mila imprese) il deterioramento delle condizioni di liquidità è tale da mettere a rischio l’operatività nel corso del 2020. Questo avrà conseguenze anche sulle banche, con nuove ondate di insolvenze e crediti inesigibili.
Questi dati spiegano la forte pressione di Confindustria perché cessi il blocco dei licenziamenti, già indebolito dall’ultimo decreto del 14 agosto. Questo non riguarda solo quelle imprese che semplicemente falliranno, ma anche e soprattutto quelle che preparano tagli feroci nel personale, nei salari e nelle condizioni di lavoro per tentare di competere nelle condizioni sopra accennate. Già in queste settimane si moltiplicano le notizie di aziende che chiudono stabilimenti, disdicono accordi sindacali in vigore, tagliano brutalmente settori in appalto, ecc.
Come rispondere?
La ministra Catalfo chiacchiera di riduzione dell’orario di lavoro (pare che ci sia a sinistra persino chi ci crede…) ma ai padroni queste barzellette fanno il solletico e se mai arrivasse in parlamento un qualche disegno di legge in questo senso hanno tutti i mezzi per affossarlo.
La classe lavoratrice può trovare i mezzi per difendersi da questa catastrofe incombente solo prendendo in mano in prima persona la difesa dell’occupazione e delle condizioni di lavoro. Se in marzo sono stati gli scioperi spontanei a costringere i padroni e il governo alla chiusura, almeno parziale, per salvaguardare la vita e la salute di milioni di persone, nei prossimi mesi sarà indispensabile mobilitarsi con ancora maggior forza e determinazione.
Il blocco dei licenziamenti e la riduzione dell’orario per redistribuire il lavoro sono misure necessarie, ma diventano utopiche se il controllo dell’economia rimane in mano ai capitalisti.
Ogni impresa che chiude o licenzia deve essere posta sotto il controllo dei lavoratori e se necessario espropriata e posta sotto la gestione dei lavoratori. Invece di regalare miliardi a fondo perduto ai padroni, le risorse pubbliche devono essere usate per sostenere queste aziende nel continuare o riconvertire la produzione. Il debito pubblico verso le banche e la finanza va cancellato e le risorse così liberate vanno impiegate per sostenere una economia pubblica, sotto il controllo democratico dei lavoratori e dei cittadini, vale a dire un’economia socialista.