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13 Luglio 2020Chiusa il 19 giugno la riunione del Consiglio europeo in cui si è avviato il negoziato sul Recovery Fund, la sintesi più fedele pare la seguente: i governi dell’Unione affronteranno la spinosa questione in base alla nota regola che se si deve essere impiccati, è meglio in compagnia. Corollario: oggi no, magari domani, dopodomani ancora meglio.
I termini generali della questione sono i seguenti: a fine 2019 l’eurozona aveva un debito pubblico totale di circa 10mila miliardi di euro, oltre l’80 per cento del suo Pil. Le differenze tra Paesi sono cospicue, passando dal 58 per cento della Germania, al 100 per cento della Francia, al 132 dell’Italia, fino al 181 per cento della Grecia.
Come effetto della crisi in corso si ipotizza (ogni stima è condizionale) che questo debito aumenti di circa 800 miliardi di euro nel 2020. Se i diversi Paesi dovessero limitarsi a trovare questi prestiti sul mercato dei capitali, sarebbe inevitabile l’esplosione di una nuova crisi dei debiti sovrani, con gli spread alle stelle e la possibile bancarotta dei Paesi più esposti.
La Bce farà la sua parte con il rilancio degli acquisti di titoli pubblici e privati, ma questa massiccia creazione di capitale fittizio (il bilancio della Bce vale già oltre il 43 per cento del Pil dell’eurozona) non può proseguire all’infinito e introduce forti distorsioni nell’economia, prima fra tutte la assoluta impunità del capitale finanziario, che può permettersi qualsiasi speculazione sapendo che la Banca centrale fornirà sempre la liquidità necessaria… fino a quando non potrà più farlo. Inoltre in prospettiva contiene anche un rischio di destabilizzazione della moneta e di inflazione. L’intervento degli Stati è quindi obbligatorio, e qui nasce lo scontro attuale.
Trattative in stallo
Ancora il 19 maggio scorso un noto quotidiano satirico di Casa Fiat sparava titoli su come il governo avrebbe speso i “100 miliardi a fondo perduto” resi disponibili dal Recovery Fund.
Finito l’effetto fake news, ovviamente dei 100 miliardi non c’è traccia e ci si dice invece che a luglio, con la presidenza tedesca dell’Unione, si arriverà a un accordo.
Sul piatto la proposta Merkel-Macron, rivista dalla presidente della Commissione europea von der Leyen, di creare un fondo per la ripresa, il Recovery Fund ora ribattezzato Next Generation Eu, con una dotazione di 750 miliardi ripartiti in 500 miliardi di aiuti e 250 di prestiti. Dalla ripartizione di questi ipotetici 500 miliardi nasce la leggenda dei “100 miliardi a fondo perduto” che spetterebbero all’Italia.
L’incontro dei capi di governo del 19 giugno ha registrato però un sostanziale stallo. Si capisce che il fondo verrà finanziato con prestiti emessi dalla Commissione europea e garantiti dal bilancio dell’Ue. In questo senso la proposta costituisce a prima vista un cambiamento importante, abbandonando il principio fin qui seguito che i debiti pubblici sono questione puramente nazionale. In realtà si tratta del tipico metodo dell’Unione europea di trascrivere le contraddizioni nazionali nel linguaggio contorto dei suoi provvedimenti.
Il bilancio europeo infatti si compone dei contributi dei diversi Stati, e tutta la novità starà nella creazione di una nuova e complicata partita di giro tra quanto ciascun Paese versa al bilancio e quanto ne riceve sotto le varie voci, incluso il nuovo fondo.
Ricordiamo che il prossimo bilancio dell’Ue si prevede assommerà a circa l’1,3 per cento del Pil dell’Unione stessa, cifra quindi assai modesta.
Non c’è dubbio che la Merkel abbia cambiato posizione, abbandonando il precedente compromesso con i settori più euroscettici della borghesia tedesca, schierandosi in favore del fondo e userà quindi la forza economica e politica della Germania per tentare un compromesso.
La crisi spinge all’accordo
Le linee guida saranno: contributi ridotti per alcuni dei paesi “virtuosi”, finanziamenti consistenti per Polonia e Ungheria (il “sovranismo” ultimamente si acquista a prezzi ragionevoli, come dimostra l’adesione di Orban alla proposta), e qualche clausola stringente per le “cicale”. Nel caso dell’Italia potrebbe essere un obbligo di fatto di aderire al Mes, ossia: se volete i soldi del Recovery Fund, dovete prima usare i finanziamenti esistenti, con le annesse condizioni. Non a caso la campagna per aderire al Mes si fa sempre più insistente (Italia Viva, Pd, Forza Italia…), nel tentativo di mettere alle strette Conte e i 5 Stelle.
Di certo non ci saranno gli anticipi nel 2020 che Conte da settimane prova a rivendersi come già acquisiti. Se va bene se ne parla nel 2021.
Il compromesso è pressoché obbligato per l’asprezza della crisi. Lo ha detto chiaramente il primo ministro svedese alla vigilia dell’incontro: mantenere il mercato comune è “la cosa più preziosa per le nostre economie”, e si capisce: fuori dall’Ue c’è un mercato mondiale in piena contrazione dove si riaccendono i fronti della guerra commerciale, di cui l’Ue non è solo vittima indiretta, ma anche bersaglio.
Anche l’idea di finanziare il fondo con imposte europee, come la sempre promessa web tax, non è di facile realizzazione. Imporre la web tax ai giganti Usa significa uno scontro frontale con un Trump in campagna elettorale, e non a caso anche i più ottimisti la vedono realizzarsi nel 2023, sempre che le divisioni interne all’Ue sul tema
vengano ricomposte.
La creazione di un vero e proprio debito pubblico europeo sarebbe gravida di conseguenze, che si possono riassumere così: o le finanze pubbliche europee si “italianizzano”, ossia perdono una parte consistente della loro credibilità, oppure (ed è la cosa più probabile), si creerà un doppio mercato di titoli, diviso tra un debito europeo virtuoso e a basso rendimento, e il debito dei paesi “spendaccioni”, Italia in testa, esposto a tutti i venti della speculazione, alle impennate dei tassi d’interesse e a nuovi rischi di bancarotta.
La prima ipotesi farebbe saltare la linea europeista fin qui seguita dalla borghesia tedesca, creando un terremoto politico di dimensioni paragonabili alla Brexit, ma questa volta nel cuore pulsante dell’Unione europea. La seconda creerebbe un nuovo caso Grecia in Spagna e/o in Italia, ossia su scala da cinque a dieci volte maggiore. In ogni caso, una condanna definitiva per l’illusione di una integrazione europea su basi capitalistiche e per le forze politiche che su di essa si fondano.
1 luglio 2020