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9 Giugno 2021Il 78enne neopresidente degli Usa ha recentemente annunciato un faraonico piano di investimenti per rilanciare l’economia americana, generando un notevole entusiasmo non solo nelle file del movimento sindacale, ma anche a Wall Street dove gli indici del Dow Jones sono schizzati verso l’alto.
Al Congresso la retorica di Biden è stata iperbolica e ha definito la proposta “un’agenda da operai per costruire l’America” (Il Sole 24 ore, 28/04/2021).
Seimila miliardi in dieci anni
L’American Families Plan prevede 1.800 miliardi di dollari di spesa per le famiglie (istruzione, assistenza e crediti d’imposta anti povertà) a cui si aggiungono i 2.300 miliardi del progetto su infrastrutture, occupazione e ambiente e i 1.900 miliardi già varati in aiuti d’emergenza. In tutto seimila miliardi. Si tratta di un fiume di soldi per i prossimi 10 anni.
La proposta oltre ad essere accolta positivamente in patria (gli indici di gradimento della popolazione verso Biden sono saliti di 20 punti) sta avendo un notevole effetto sul piano internazionale.
Lula, lo storico dirigente del Pt brasiliano, probabile candidato alle presidenziali del 2022, ha parlato del piano Biden come di “una ventata di democrazia nel mondo”. Sull’altro versante i repubblicani di Trump lo hanno accusato di avviare una “svolta verso il socialismo”.
Non è dunque senza interesse ragionare su ciò che questo piano rappresenta per quella che resta la principale potenza imperialista nel mondo.
Hanno riscoperto la democrazia? Sono diventati anticapitalisti e socialisti? Non scherziamo. Lasciamo da parte le panzane propagandistiche e cerchiamo di capire il significato delle scelte che si appresta a fare la classe dominante americana.
Un piano keynesiano senza coperture
Secondo Biden le risorse verranno reperite con aumenti delle imposte sull’1-2% degli americani con redditi oltre i 400.000 dollari l’anno. L’aliquota individuale più alta tornerà al 39,6% dal 37% al quale l’avevano abbassata i repubblicani nel 2017. Una percentuale che sarebbe pagata, senza agevolazioni, anche su capital gain e dividendi da chi guadagna oltre un milione di dollari l’anno. C’è poi l’aumento al 28% della corporate tax, l’imposta sui redditi delle società, che sempre nel 2017 Trump aveva sforbiciato dal 35% al 21%. Un taglio consistente, che rimane comunque in vigore per metà.
Niente di drammatico per la classe dominante. Wall Street ha dimostrato infatti di non temere tali misure e di considerarle uno stimolo utile alla ripresa dell’economia. Si tratta di una semplice razionalizzazione delle politiche del grande capitale, che nel 2020 ha fatto profitti d’oro, e che può permettersi un modico aumento delle tasse in cambio di notevoli commesse (e conseguenti guadagni) con cui il governo inonderà l’economia americana con denaro sonante.
Non si tratta dell’unica contropartita: Biden si sta anche adoperando per proteggere le grandi aziende Usa che operano sui mercati internazionali da una tassazione che rischiava di essere sempre più severa da parte dei governi (soprattutto quelli dell’Ue).
La segretaria al Tesoro di Biden, Janet Yellen, ha infatti annunciato che “si sta lavorando con le nazioni del G20 per raggiungere un accordo su una tassa minima globale sulle multinazionali”.
L’accordo, già discusso nel 2019 in ambito Ocse, riguarderebbe tra gli altri i colossi del web, ma era stato fermato da Trump.
Le sei grandi aziende tech Usa quotate in Borsa – Apple, Amazon, Alphabet, Microsoft, Facebook con l’aggiunta di Tesla – hanno riportato profitti per oltre 75 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2021. Le vendite sono lievitate a 330 miliardi, dopo che già nel 2020 erano cresciute del 20%, superando i 1.100 miliardi. Non parliamo poi dei profitti che in questi mesi stanno incamerando con i vaccini le aziende del Big Pharma.
C’è infine l’aspetto politico, ossia attenuare le tensioni sociali che hanno trovato un’espressione nei Black Lives Matter e nelle numerose lotte che hanno attraversato il paese. L’economia tira in questo momento, i capitalisti non si possono permettere conflitti e sono disposti a concedere le briciole pur di aprire una stagione di pace sociale, che Trump con le sue “provocazioni inutili” aveva fortemente pregiudicato.
La stessa politica si va affermando nel vecchio continente, che come gli Usa ha obiettivamente la necessità di proteggersi dalla concorrenza cinese. Biden ha quindi teso la mano all’Ue per costituire un asse contro la Cina.
Spirale inflazionistica
Questo e nient’altro c’è alla base del piano e delle cosiddette politiche “sociali” e “green”.
Tuttavia non possiamo che constatare il carattere disperato di queste misure, perché una cosa erano le politiche keynesiane portate avanti dopo la Seconda guerra mondiale, con livelli di debito tutto sommato contenuti, altra cosa è mettere mano alla manovella del denaro facile in un contesto in cui il debito federale Usa è letteralmente esploso. Durante la presidenza Trump, in soli quattro anni, il debito pubblico statunitense ha subito un rialzo di 7mila miliardi di dollari raggiungendo
i 21.600 miliardi di dollari, sfondando la percentuale del 100% in rapporto al Pil e mettendo gli Stati Uniti al pari di economie come quelle di Grecia, Italia e Giappone.
Si aggiunga che la Fed (e con lei le altre banche centrali) ha letteralmente inondato il mercato di liquidità, tanto che la massa monetaria (aggregato M2) è cresciuta nel 2020 di 4 volte e mezza sulla media degli ultimi 10 anni.
La logica della situazione spinge prepotentemente verso una crescita dell’inflazione non appena l’economia ripartirà e questo farà anche risalire i tassi d’interesse, un fattore che può minare la ripresa soprattutto fuori dagli Usa.
Quello che oggi la presidenza Usa promette in forma di sussidi, infrastrutture e defiscalizzazione sarà fatto pagare molto presto con gli interessi alla classe operaia americana, così come l’aumento dei prezzi si scaricherà sui salari. Questo piano è un grande bluff e un servizio al capitale e se le burocrazie sindacali di tutto il mondo si inchinano al cospetto di Biden col cappello in mano, milioni di lavoratori toccheranno ben presto con mano che le loro condizioni di vita e di lavoro non fanno parte delle tante “priorità” per le quali la classe dominante è pronta a spendere miliardi, anche quelli che non ha.