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Trump e la crisi mondiale del capitalismo

di John Peterson (Socialist appeal – Stati Uniti)

L’elezione di Donald Trump segna una nuova fase nell’agonia mortale del liberalismo – e anche del cosiddetto neoliberalismo – che altro non è che un eufemismo per riferirsi all’imperialismo nell’epoca della globalizzazione. La politica estera è la continuazione della politica interna, e la guerra – compresa quella commerciale – è la continuazione della politica con altri mezzi.
Trump è ancora agli inizi della sua amministrazione e lui stesso non è perfettamente sicuro di quello che farà, ma i contorni della politica che vuole perseguire possono essere distinti dal suo iniziale tripudio di ordini esecutivi e dichiarazioni.
Dalla Cina a Cuba, dalla Russia all’Iran, dalla Gran Bretagna al Pakistan, l’intero pianeta è stato scosso e persino gli alleati di vecchia data non possono essere certi di quale sarà il loro posto nel mondo di Donald Trump. Lungi dall’essere una fonte di stabilità, gli Usa ora sono un fattore destabilizzante nelle relazioni mondiali a livello economico, politico e diplomatico.

Nazionalismo economico

Nell’epoca del secondo dopoguerra, il capitalismo superò temporaneamente e parzialmente i limiti “naturali” degli Stati nazionali e del mercato attraverso il processo della “globalizzazione”. Una maggiore integrazione economica, così come il credito, può far espandere il mercato al di là dei suoi limiti “naturali”. Tuttavia, su basi capitaliste, questo processo ha dei limiti intrinseci ed ora si è trasformato nel suo opposto. Se la causa di fondo di questa spirale negativa è la crisi oggettiva del sistema, l’azione soggettiva degli individui può a sua volta avere degli effetti sul processo generale. E questo ha poi un effetto amplificato sulla coscienza di tutte le classi e degli individui.
I capitalisti di tutto il pianeta sono in ansia circa ciò che Trump rappresenta e ciò che farà. La direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde è in prima linea tra quelli che hanno grandi preoccupazioni sul futuro. Alla vigilia della cerimonia di insediamento di Trump, al World economic forum – cassa di risonanza della “classe dei miliardari” che si riunisce tutti gli inverni a Davos in Svizzera – ha detto di temere l’instabilità economica globale dovuta alle politiche protezioniste di Trump. La fragilità dell’economia mondiale è palese se pensiamo che basta un singolo tweet o una conferenza stampa di Trump per provocare violente oscillazioni nei mercati azionari.
Nell’ultimo Rapporto sui rischi globali del World economic forum leggiamo quanto segue: “C’è chi si domanda se l’Occidente abbia raggiunto il suo apice e possa ora entrare in un periodo di deglobalizzazione”.
L’atteggiamento di Trump, sintetizzato dallo slogan “prima l’America” e configurato nel suo discorso di insediamento, vuol dire che tutti gli altri devono essere fanalino di coda. Infatti ha detto senza mezzi termini: “Da oggi in poi una nuova visione governerà il nostro paese, da oggi in poi sarà prima l’America! Prima l’America!’”. Ed ha continuato: “Seguiremo due semplici regole: comprare americano, assumere americano”.
Il suo obiettivo sembra abbastanza semplice: far rivivere la “grandezza” americana del passato esportando la crisi e la disoccupazione a chiunque non sia gli Stati Uniti. Tuttavia, così facendo, rischia di disfare l’ordine post-bellico ottenuto a fatica da generazioni di suoi predecessori.

Addio boom del dopoguerra

Dopo la Seconda guerra mondiale, e soprattutto dopo il crollo dello stalinismo, gli Usa erano la superpotenza mondiale indiscussa, un colosso economico, militare e imperialista come non si era mai visto. Nel 1945, con il grosso del mondo in macerie, gli Stati Uniti rappresentavano il 50% del Pil mondiale. Oggi questo dato si è più che dimezzato. Pur essendo comunque superiore al 4,4% della quota della popolazione mondiale, rappresenta una caduta significativa dalla schiacciante supremazia del passato.
Questo declino si esprime per forza di cose nelle relazioni mondiali. L’imperialismo statunitense è l’ombra di quello che era una volta. La sue umiliazioni in Afghanistan, Iraq e in Siria e l’interferenza di diverse potenze imperialiste a livello regionale in quelle che erano le sue sfere di influenza ne sono dei chiari esempi.
La differenza tra l’ala della classe dominante attorno a Trump da un lato e Obama, la Clinton e la maggioranza degli altri capitalisti dall’altro è che questi ultimi cercano di mantenere relazioni internazionali e una situazione interna che hanno perso la loro base economica. La visione di Trump riflette la presa d’atto che l’epoca dell’egemonia statunitense sul mondo è morta e sepolta. Questo non deriva da una sua maggiore capacità di analisi o acume, ma piuttosto dalla stessa brutale ragione per cui un orologio fermo segna l’ora giusta due volte al giorno.
Tuttavia, ciò rappresenta un enorme equivoco dell’economia capitalista. Sarebbe assurdo pensare che l’economia statunitense possa distaccarsi dal resto del mondo o ingaggiare guerre commerciali o valutarie senza provocare rappresaglie o comunque senza conseguenze. Nonostante la determinazione di Trump, alimentata dal suo ego, sia più forte che mai, gli Stati Uniti non potranno sfidare le leggi di gravità dell’economia capitalista per sempre. Anche lui si muove entro i limiti di un sistema in crisi terminale.
Cambiare l’economia non è una questione di volontà soggettiva, ma di relazioni sociali ed economiche fondamentali. La proprietà privata dei mezzi di produzione e lo Stato nazionale hanno limiti intrinseci che possono essere superati solo con il socialismo internazionale. Questa è la grande contraddizione che l’umanità deve risolvere nel periodo storico che ha di fronte.

Lavoro per tutti?

Gli spavaldi ordini esecutivi di Trump possono fare colpo su quei settori operai dell’elettorato che si sono bevuti la sua retorica populista, ma i ripensamenti arriveranno presto. Il suo piano per la creazione di 25 milioni di posti di lavoro sulla carta può sembrare straordinario ma nel capitalismo è pura fantasia. Tra il 1948 e il 2016 il tasso medio di disoccupazione è stato del 5,8%. Quello attuale è del 4,7%. I marxisti comprendono che, per quanto questo dato sottostimi fortemente la reale situazione della disoccupazione e sottoccupazione, c’è poco margine per una espansione massiccia dei posti di lavoro. Questo vale nella misura in cui si applica al sistema capitalista.
Il protezionismo di Trump, allentando la regolamentazione dei settori finanziario ed energetico, insieme a qualche sorta di programma di opere pubbliche, può portare alla creazione di qualche milione di posti di lavoro. Ma, anche nella migliore delle ipotesi, un “colpo alla Trump” (Trump bump, Ndt) non potrà durare in eterno e non potrà riportare i milioni di posti di lavoro qualificati decimati a partire dagli anni ’70. Alla fine ci sarà una “recessione alla Trump” (Trump slump, Ndt) – e lui ne verrà indicato come il diretto responsabile.
Nel capitalismo, ciò che sale deve scendere, e all’orizzonte c’è un’altra fase di declino economico per gli Stati Uniti. Dopo una lunga “ripresa senza gioia”, anche solo una crisi tecnicamente modesta potrebbe avere effetti devastanti sulle coscienze e portare milioni di persone a rompere col sistema. Ad Obama fu concesso il beneficio del dubbio dal momento che veniva visto come erede di un caos creato da George W. Bush. Al contrario, la luna di miele con Trump è già finita per la maggioranza e coloro che si sono affidati a lui per cambiare radicalmente le cose non gli daranno il beneficio del dubbio se la prossima crisi comincerà sotto la sua guida, soprattutto considerando le sue promesse esagerate.
Anche adesso che l’economia non è ancora entrata in un ulteriore declino, i più ardenti difensori del sistema temono che la disuguaglianza sociale in continua ascesa sotto il capitalismo possa provocare una reazione di massa. Il World economic forum ha così espresso le sue preoccupazioni: “Tutto ciò indica la necessità di ripristinare la crescita economica, ma il crescente sentimento di populismo anti-establishment fa supporre che abbiamo superato lo stadio in cui questo sarebbe sufficiente e rimarginare la frattura che attraversa la società: bisogna mettere all’ordine del giorno anche la riforma del capitalismo di mercato. (…) La combinazione della disuguaglianza economica con la polarizzazione politica minaccia di amplificare i rischi globali, sfaldando la solidarietà sociale sulla quale si basa la legittimità del nostro sistema economico e politico”.
In altre parole neanche una crescita economica sostanziale sarebbe sufficiente ad invertire la tendenza allo “sfaldamento della solidarietà sociale” – leggi “l’intensificazione del conflitto tra le classi”. È questo che non li fa dormire la notte.

Sviluppo tecnologico sotto il capitalismo

Gli economisti seri del capitale capiscono che la principale minaccia per la creazione di posti di lavoro qualificati nell’industria non è la Cina, ma la tecnologia. Sempre il World economic forum: “Non è un caso che le sfide per la coesione sociale e la legittimità della classe politica stiano coincidendo con una fase molto dirompente dello sviluppo tecnologico”.
Per essere più precisi, è la costrizione dell’innovazione tecnologica all’interno dei vincoli imposti dalla logica del profitto che ci impedisce di sfruttare queste meraviglie per ridurre al minimo la settimana lavorativa. Al momento gli Stati Uniti hanno raggiunto il massimo livello di produzione industriale della loro storia. Tuttavia, questo volume oggi può essere prodotto con molti meno lavoratori che in passato. Una ricerca condotta dalla Ball State University ha stimato che solo il 13% della perdita di posti di lavoro nell’industria degli ultimi decenni è dovuta al mercato, mentre la parte restante al miglioramento della produttività e all’automazione. Uno studio della American economic review ha concluso che tra il 1962 e il 2005, l’industria dell’acciaio ha perso 400mila posti di lavoro – il 75% del totale. E tuttavia in quello stesso periodo la produzione di acciaio non è diminuita.
Trump ha esplicitamente puntato il dito contro Washington e i politici per la globalizzazione, le delocalizzazioni e la decomposizione sociale. La capitale del paese è senza dubbio una fogna politica che brulica di creature al servizio dei grandi capitalisti. Ma i politici e i lobbisti sono solo delle comparse in una tragedia umana ben più grande. È Wall Street che tira le fila nella società. In ultima istanza sono i Fortune 500 (la lista delle 500 maggiori imprese statunitensi sulla base del loro fatturato pubblicata dalla rivista Fortune, Ndt) che decidono chi ha il lavoro, chi ha accesso all’edilizia pubblica, alla sanità e all’istruzione.
I capitalisti non sono “creatori di posti di lavoro” ma creatori di profitti. Nella loro lotta incessante per soddisfare gli appetiti dei loro azionisti rovistano in tutto il pianeta alla ricerca delle materie prime e della forza lavoro più a basso costo. Di fronte a degli ostacoli burocratici, troveranno sempre una scappatoia per aggirarli. La competizione capitalista li costringe, pena l’estinzione, ad aumentare continuamente la produttività.
Come spiega il New York Times: “Quando Greg Hayes, amministratore delegato di United Technologies, accorda di investire 16 milioni di dollari in una delle sue fabbriche del gruppo Carrier come parte di un accordo con Trump per mantenere posti di lavoro in Indiana invece di esternalizzarli in Messico, dice che questi soldi saranno destinati all’automazione. ‘Che in ultima istanza vuol dire che ci saranno meno posti di lavoro’, ha dichiarato lui stesso alla Cnbc”.
Questo è aggravato dal fatto che i capitalisti sono già seduti su una capacità produttiva maggiore di quanto possano vendere entro i mercati nazionali e nel mercato mondiale.
Dietro lo slogan “Make America great again” (rendere l’America di nuovo grande, Ndt) c’è il desiderio di tornare alle condizioni idealizzate e irripetibili di cui hanno goduto strati importanti della popolazione durante il boom post-bellico: occupazione relativamente piena, qualità della vita in costante miglioramento, pensioni dignitose, case, sanità e istruzione accessibili, e un mondo libero da terrorismo e incertezza. Per quanto possa provarci, Trump non sarà in grado di mantenere le promesse – perché non può far quadrare il cerchio del capitalismo.

Guerra al confine

Oltre alla promessa di rinegoziare il Nafta, una tassa del 20% sulle importazioni dal Messico è solo uno dei tanti “antipasti” che Trump e i repubblicani hanno messo a tavola per “far pagare al Messico” un muro lungo oltre tremila chilometri che costerà almeno dieci miliardi di dollari. Trump inoltre ha delineato un piano per allungare il braccio del governo assumendo altri 5mila agenti della polizia di frontiera.
Oltre ad alienarsi uno dei più importanti partner sia per quanto riguarda gli scambi commerciali che la difesa, Trump minaccia di soffocare completamente la tiepida ripresa economica del Messico, che è stata possibile solo sulla base di attacchi selvaggi ai lavoratori e ai giovani. Si dice che quando l’economia statunitense prende un raffreddore, il Messico prende una polmonite. Trump sembra determinato a procurare al Messico un tumore ai polmoni. Con vicini di casa come questi, c’è poco da stupirsi che l’eroe rivoluzionario Pancho Villa volesse scavare un fossato largo 500 metri per tenere alla larga i “gringos”!
Anche se gli attacchi di Trump possono temporaneamente spingere molti messicani a favore di Peña Nieto, oggi profondamente impopolare, le conseguenze a lungo termine per la lotta di classe a sud del confine saranno esplosive. Le tradizioni rivoluzionarie del Messico sono vive e vegete e, ad un certo punto, l’unità nazionale si trasformerà inevitabilmente in unità di classe. La ricerca di un lavoro negli Usa è stata per molto tempo una valvola di sfogo per la pentola a pressione della società messicana. Se ci fosse un crollo delle rimesse dagli Stati Uniti al Messico e il lavoro al nord del confine smettesse di essere un’opzione per molti, ciò accelererebbe lo sviluppo della rivoluzione messicana. E, se è pur vero che un muro enorme potrebbe tenere fuori un po’ di persone, di sicuro non potrebbe fermare una rivoluzione.

Il “Muslim ban”

Poi ci sono stati i decreti islamofobici sui rifugiati e gli immigrati. I cittadini da sette paesi a maggioranza musulmana ­– Siria, Iraq, Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen – sono stati bloccati una volta arrivati negli Stati Uniti. Lasciamo pure da parte il fatto che nessuno dei terroristi che hanno sferrato l’attacco alle Torri gemelle veniva da uno di questi paesi; se già questo provvedimento di per sé non fosse abbastanza draconiano, l’ordine specifica che l’ingresso deve essere negato a tutti i rifugiati e persino ad alcuni in possesso del permesso di soggiorno. La disposizione che possono essere fatte eccezioni per gli appartenenti alle minoranze religiose (ad esempio i cristiani) provenienti da questi paesi, rende chiara la discriminazione religiosa. Incoraggiati da Trump, gli attacchi contro i musulmani in Nord America sono aumentati, compresa la strage in una moschea a Quebec City in Canada.
Ma un autentico spirito di solidarietà internazionale si è mostrato in tutta la sua vitalità quando migliaia di persone si sono riversate spontaneamente all’aeroporto JFK di New York per protestare contro il provvedimento. Il sindacato dei tassisti di New York ha annunciato il blocco delle corse dal JFK come forma di protesta.
Le crescenti divisioni in seno allo Stato borghese si sono manifestate quando diversi giudici e persino la ministra incaricata della giustizia hanno sfidato la politica di Trump. Un giudice federale di New York ha disposto un’ingiunzione temporanea per impedire il rimpatrio di coloro che erano già sul suolo statunitense. Ma le proteste sono continuate in tutto il paese, dal momento che un’ordinanza temporanea da parte di un giudice non è sufficiente come base per un cambiamento reale. Di fronte ad una reazione di massa, l’amministrazione Trump è già dovuta scendere a compromessi su come implementerà la nuova politica. Questo potrà solo incoraggiare il movimento ad andare avanti dato che le proteste hanno già costretto Trump a fare un passo indietro.

Isolazionismo

Trump ha anche deliberato che gli Usa non approveranno il Tpp, l’accordo di libero scambio transpacifico. Questa misura è comprensibilmente popolare tra gli ex lavoratori industriali che danno alla globalizzazione capitalista la colpa per il peggioramento dei loro standard di vita. Tuttavia, a favore del libero scambio si schierano la maggior parte delle multinazionali che si avvantaggiano di questi accordi a spese dei lavoratori e dei piccoli imprenditori. Questo mette Trump direttamente in conflitto con ampi strati della classe dominante di cui in ultima istanza rappresenta gli interessi.
Il suo ottuso protezionismo costituisce in pratica un duro colpo che sposta il “baricentro” dell’imperialismo statunitense dall’Europa e dal Medio Oriente verso l’Asia. Il Ministro della difesa di Obama, Ash Carter, recentemente ha dichiarato che il Tpp sarebbe cruciale per la sicurezza geopolitica degli Stati Uniti e che varrebbe tanto quanto una portaerei in più nel Pacifico.
La visione del mondo di Trump all’insegna del “prima l’America” è una cruda espressione del declino dell’imperialismo statunitense. Mentre Obama ha tentato di organizzare una ritirata ordinata e aggraziata dalla scena mondiale, Trump si è comportato come uno che se ne va da un convivio insultando gli ospiti e sbattendo la porta. Questo va contro gli interessi di larghi settori di capitalisti americani, che sono profondamente legati al mercato mondiale. In ultima istanza, comunque, il ritorno a livello mondiale al nazionalismo economico, all’isolazionismo e al protezionismo rappresenta una condanna del capitalismo e un tacito riconoscimento che il sistema è in un vicolo cieco.
Il protezionismo un tempo giocò un ruolo progressista nello sviluppo del capitalismo. Nei primi decenni di sviluppo del sistema, ha permesso ai paesi più deboli di sviluppare l’industria nazionale senza essere schiacciati dai concorrenti più avanzati. L’essenza della globalizzazione e del libero scambio era l’apertura del mercato mondiale – quando necessario a forza – alle economie più potenti, gli Stati Uniti in particolare. Ma i limiti intrinseci del sistema ora sono stati smascherati e questo processo è stato rovesciato – persino prima dell’arrivo della prossima grande calamità economica.
La cartina di tornasole per il diritto all’esistenza di qualsiasi sistema socioeconomico è nel suo essere o meno in grado di sviluppare le forze produttive e migliorare la qualità della vita umana. Il capitalismo è un sistema mondiale e deve pertanto essere giudicato globalmente, non in singoli paesi. Nel suo disperato tentativo di avviare a spinta l’economia nazionale a spese dei suoi concorrenti, il paese capitalista più potente della storia ha ammesso che il sistema non è all’altezza del compito di sviluppare le forze produttive a livello mondiale.
Solo il socialismo può arrivare dove il capitalismo si è fermato e, di fatto, ha fallito. Ma l’unica soluzione che Trump riesce a vedere è il tentativo di trasformare gli Stati Uniti in una comunità asserragliata, questo rappresenta un orrore per i capitalisti più lungimiranti. Nel voler deviare il Titanic per evitare l’iceberg, Trump lo sta facendo affondare a picco.

Nessuna via d’uscita sotto il capitalismo

L’oceano del capitalismo mondiale è in fiamme. Come risultato, è come se ci trovassimo di fronte all’assurda scena di ratti che si arrampicano uno sull’altro per salire su una nave che affonda. I politici, i capitalisti e, vergognosamente, persino i dirigenti del movimento operaio, si stanno bruciando le dita per entrare nelle grazie del principale bullo del quartiere. Tutti, dalla britannica Theresa May a Elon Musk della Tesla, dal portavoce della Camera dei rappresentanti Paul Ryan ai dirigenti dei sindacati dell’edilizia, pensano così di trovare protezione nel campetto da gioco. Ma hanno dimenticato cosa succede alla fine ai bulli quando la maggioranza decide che ne ha abbastanza e reagisce.
Trump non ha un mandato. È stato eletto per la natura regressiva del sistema elettorale statunitense, non perché la maggioranza degli americani si sono “spostati a destra”. Né siamo di fronte al George W. Bush all’indomani dell’11 settembre con un tasso di appoggio temporaneo del 90%. Questa è l’amministrazione folle di una canaglia della classe dominante priva del supporto della maggioranza, persino tra la sua stessa classe.
Quasi all’improvviso, è come se la storia stesse accelerando. Si può sentire la tensione che cresce man mano che le contraddizioni che si sono accumulate in passato irrompono di colpo alla superficie. Sono finiti i giorni in cui le proteste e le manifestazioni erano poche e rare. La nuova normalità è un mondo in cui la frusta della reazione e il contrattacco da parte dei lavoratori e dei giovani sono storia di quasi tutti i giorni. Nel prossimo periodo storico, i tanti rivoli delle lotte che sono state fomentate dalla crisi convergeranno in un torrente in piena.
Tutte le prospettive politiche ed economiche sono condizionali; ancora di più con un presidente imprevedibile come questo alla guida di un sistema così instabile e decrepito. Ma una cosa è certa: indipendentemente da come veniamo sfruttati, indipendentemente da come veniamo oppressi, i nostri interessi di classe sono irreconciliabilmente opposti a quelli dei capitalisti. Il capitalismo sta vacillando, ma non si butterà giù dal burrone della storia fino a quando la classe lavoratrice non gli darà coscientemente una spinta. Nel centesimo anniversario della Rivoluzione russa, non c’è slogan migliore di quello lanciato da Marx: Lavoratori di tutto il mondo unitevi!

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