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25 Marzo 2020Con la definitiva chiusura dell’area a caldo entro il mese di aprile, l’imprenditore cremasco Arvedi ha messo una parola fine alla lunga storia della Ferriera di Trieste. Da simbolo del progresso e dell’industrializzazione a sinonimo di inquinamento e malattie respiratorie, la Ferriera oggi è diventata l’emblema della crisi mondiale che sta colpendo un territorio già fortemente deindustrializzato come quello di Trieste. Ciò che stupisce di questa chiusura è che essa sia stata rivendicata come una vittoria da parte di quasi tutti i soggetti coinvolti nello spegnimento dell’altoforno. Un coro di unanime soddisfazione in cui istituzioni, politica e sindacati hanno intonato ognuno una parte nella partitura scritta dal cavalier Arvedi, unico vero vincitore di questa partita.
Ma a sancire definitivamente la volontà di dismissione della Ferriera da parte del gruppo Arvedi sono state le organizzazioni sindacali, in un’inedita unità che ha visto Cisl, Uil e Usb contrapposte alla sola Fiom, critica nei confronti dell’accordo sindacale posto al voto. Sotto le pressioni dell’azienda e spaventati dall’esito negativo del referendum 277 lavoratori (il 58%) hanno votato Sì all’accordo, costringendo la Fiom (che pure da sola ha raccolto il No di 192 lavoratori) a capitolare e sottoscrivere l’accordo pur mantenendo una posizione critica.
Ciò che ha messo sul piede di guerra i metalmeccanici della Cgil è la mancanza di una vera strategia a lungo termine per il riassorbimento della manodopera. L’accordo prevede infatti la chiusura dell’area a caldo e il suo smantellamento per poi procedere alla cessione dei terreni al sistema portuale. Con questa operazione Arvedi prende due piccioni con una fava: si sbarazza di una vecchia fabbrica in un momento di contrazione del mercato europeo dell’acciaio e riesce a vendere ad alto prezzo i terreni bonificati (con soldi pubblici). Le garanzie date dal padrone sono veramente scarse e molte di esse (riassorbimento della manodopera in aziende nel pordenonese, accordo con Fincantieri) si sono rivelate essere pura propaganda per incassare l’assenso dei lavoratori. La sola area a freddo (sulla quale non sono ancora partiti gli investimenti promessi) e la rotazione per 2 anni dei lavoratori in Cassa integrazione su lavori di logistica e bonifica non possono garantire una sicurezza occupazionale per tutti.