L’impero del caos di Trump e l’illusione della “Fortezza America”
20 Gennaio 2025di Francesco Giliani
“Fanno il deserto e lo chiamano pace” (Tacito)
In una precipitazione degli eventi piuttosto repentina, il governo israeliano guidato da Netanyahu e i vertici di Hamas hanno sottoscritto un piano in tre fasi per il cessate-il-fuoco, lo scambio di prigionieri e una (molto remota) ricostruzione della Striscia di Gaza. Il piano è stato mediato da Stati Uniti, Egitto e Qatar. Un ruolo decisivo lo ha svolto la subentrante amministrazione Trump, decisa a “raffreddare” la situazione in Medio Oriente, rilanciare gli “Accordi di Abramo” per normalizzare le relazioni tra Israele e le petro-monarchie del Golfo e poter così concentrare le forze dell’imperialismo USA su altre aree ritenute più vitali per i propri interessi.
Netanyahu ha dovuto firmare un accordo che, a grandi linee, aveva rigettato nell’estate 2024. L’accordo prevede, nella prima fase, il ritiro dell’esercito israeliano dalle aree abitate della Striscia di Gaza e un alleggerimento della sua presenza nel corridoio Filadelfia che corre lungo il confine tra la Striscia ed il Sinai egiziano, oltre allo scambio tra 33 ostaggi israeliani e 737 prigionieri politici palestinesi. Nella seconda fase, Hamas dovrebbe consegnare gli ostaggi rimanenti in cambio del ritiro completo di Israele dalla Striscia; infine, dovrebbero tenersi negoziati sul futuro di Gaza sotto il poco raccomandabile patrocinio delle potenze “mediatrici” e della “comunità internazionale”.
Il governo Netanyahu ha perso “pezzi” con l’uscita dal governo del ministro Ben Gvir, leader del partito di estrema destra Potere Ebraico, che ha gridato alla capitolazione e ha ribadito la sua battaglia per una “Grande Israele” dal Mediterraneo al Giordano, ma ha precisato che in alcun modo avrebbe fatto fronte “con la sinistra” per rovesciare Netanyahu. Invece, il ministro delle Finanze Smotrich, leader di Sionismo Religioso, ha strepitato ma è rimasto al governo, anche per alcune concessioni sulla legalizzazione più rapida delle nuove colonie in Cisgiordania.
Intanto più di 15 mesi di fuoco dell’esercito di Israele su Gaza lasciano sul campo non meno di 46mila vittime palestinesi (ma la rivista The Lancet ne ha stimate 70mila) e le infrastrutture della Striscia necessarie per una vita civile quasi interamente distrutte, compresi gli ospedali più importanti, tutte le università e più del 90% delle scuole. Nell’offensiva contro Gaza, Israele perde più di 400 soldati, cifra modesta in relazione alle perdite palestinesi ma sufficiente per logorare l’esercito di Tel Aviv.
Questi accordi, malgrado la pressione che continuerà a esercitare l’imperialismo USA, non sono una garanzia per una pace stabile, poiché non risolvono nessuna delle contraddizioni fondamentali che, anzi, sono esacerbate da 15 mesi di conflitto. Lo dimostra il fatto che il 21 gennaio Israele ha lanciato un attacco su vasta scala in Cisgiordania.
La classe dominante sionista ha inferto colpi pesanti ai suoi nemici e dimostrato la sua superiorità militare, ma non ha raggiunto l’obiettivo dichiarato di distruggere Hamas, tanto da essere costretta a scenderci a patti.
In campo palestinese, la situazione non è meno instabile e convulsa. Hamas, decapitata della sua dirigenza, è stata indebolita militarmente e, dopo la caduta di Assad in Siria, soffre un maggiore isolamento. Malgrado ciò, Hamas è prevedibilmente riuscita a rimpinguare le sue fila e, nella settimana prima della tregua, ha mostrato la sua forza uccidendo 16 soldati israeliani nel nord della Striscia.
D’altra parte, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di Abu Mazen, egemonizzata da Fatah, ha ulteriormente dispiegato il suo carattere di principale forza collaborazionista detestata dalla popolazione. Da dicembre, le forze speciali dell’ANP, addestrate dagli statunitensi, hanno assediato il campo profughi di Jenin (causando almeno 16 morti) per terrorizzarne la popolazione e indebolire le milizie di Hamas, della Jihad Palestinese ed anche di Fatah. Per il generale Rajab bisogna evitare che “scoppi una nuova Intifada”. Tutto questo non ha fatto altro che spianare la strada agli attacchi diretti dell’esercito israeliano.
In questi accordi, che reggano o meno, la soluzione della questione palestinese non si avvicina di un millimetro. Assisteremo a una ripresa momentanea della propaganda reazionaria e velleitaria sui “due popoli, due Stati”, ma la via per la liberazione della Palestina continua a trovarsi nella prospettiva di una nuova Intifada, cioè un sollevamento rivoluzionario, degli oppressi che superi una concezione puramente militare della lotta di liberazione e infiammi tutto il Medio Oriente nella prospettiva di una federazione socialista dei popoli della regione.