Modena – Assemblea nazionale dell’appello “I lavoratori non sono carne da macello”
30 Giugno 2020Nazionalizzare per difendere il lavoro!
1 Luglio 2020I cambiamenti climatici rappresentano una colossale minaccia per l’umanità e nell’ultimo periodo hanno determinato enormi proteste (in particolare dei giovani). Solo una trasformazione socialista della società, con una produzione pianificata democraticamente da parte dalla classe operaia in sintonia con il pianeta, può porre fine alla minaccia dei cambiamenti climatici. Questo documento è stato redatto dalla Tendenza marxista internazionale e illustra il nostro programma rivoluzionario per affrontare la crisi climatica. Era stato scritto prima della pandemia per essere discusso al Congresso della Tendenza marxista internazionale 2020, ed è stato aggiornato in alcuni passaggi alla luce degli avvenimenti recenti. Dopo la cancellazione del Congresso a causa dell’emergenza Coronavirus, puoi partecipare alla nostra Università marxista internazionale, dove parleremo anche della crisi climatica.
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Al momento, l’attenzione di tutto il mondo è concentrata sulla lotta contro la pandemia di COVID-19. Ma quando (se) questo pericolo iniziale si attenuerà, si profila un’altra minaccia ancora più grande all’esistenza: quella del cambiamento climatico.
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Le foreste pluviali stanno bruciando. Gli incendi infuriano in tutta l’Australia e la California. Le inondazioni stanno devastando l’Indonesia e il Bangladesh. Intere isole e aree costiere vengono rapidamente sommerse. Siccità e carestie stanno portando all’esodo dei rifugiati. Le ondate di calore in Europa uccidono migliaia di persone ogni estate. Ogni giorno, intere specie scompaiono dal pianeta. La crisi climatica non è un problema ipotetico per le generazioni future, ma sta succedendo qui e ora.
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In risposta, sono scesi in piazza in tutto il mondo movimenti di massa di studenti e giovani. “Gli oceani si stanno sollevando e così anche noi”, si leggeva su un cartello a Londra. Milioni di persone hanno partecipato a queste proteste internazionali. A settembre del 2019, circa sei milioni di persone hanno preso parte agli scioperi globali del clima, i “Friday for future”. Le città degli Stati Uniti, Canada, Germania, Italia e Gran Bretagna hanno visto manifestazioni di centinaia di migliaia di persone.
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Il capitalismo sta uccidendo il pianeta. Questa è la conclusione che hanno tratto correttamente molti attivisti. Da qui partono le richieste viste ampiamente viste negli scioperi per il clima: per “cambiare il sistema, non il clima”; per “il pianeta prima del profitto”. È il sistema capitalista – con la sua insaziabile ricerca del profitto – che è responsabile della distruzione dell’ambiente: cancella gli ecosistemi e inquina l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo.
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Sotto il capitalismo, sono le grandi imprese a decidere cosa viene prodotto e come viene prodotto. Ma questo non è fatto in base a nessun piano. Invece, la nostra economia è lasciata alla cosiddetta “mano invisibile”, cioè all’anarchia del mercato. Le aziende prenderanno delle scorciatoie e calpesteranno le normative laddove necessario per ridurre i costi, superare la concorrenza, conquistare nuovi mercati e massimizzare i profitti. Questa corsa verso il basso, tuttavia, non è semplicemente il prodotto di padroni “avidi”. È il risultato logico delle leggi economiche del capitalismo: un sistema basato sulla proprietà privata, sulla concorrenza e sulla produzione per il profitto.
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La portata del problema è enorme. L’IPCC delle Nazioni Unite (Intergovernmental Panel on Climate Change) suggerisce che il riscaldamento globale deve essere limitato a 1,5° C per evitare catastrofi ambientali. Per raggiungere questo obiettivo, le emissioni totali di gas a effetto serra dovrebbero essere ridotte del 45 percento entro il 2030 e raggiungere il livello netto a zero entro il 2050. Inoltre, devono essere prese misure di adeguamento e mitigazione su larga scala – come la costruzione di difese contro le alluvioni e il rimboschimento. Si stima che tutto ciò richiederebbe annualmente oltre 2 migliaia di miliardi di dollari di investimenti extra a livello mondiale; circa il 2,5 percento del PIL globale.
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La scienza e la tecnologia per raggiungere questo obiettivo esistono. Le reti elettriche potrebbero essere decarbonizzate per mezzo dell’energia eolica, solare e dalle maree. Le auto e i sistemi di trasporto potrebbero spostarsi verso l’elettrico, le batterie e l’idrogeno. Le misure per l’efficienza energetica potrebbero ridurre drasticamente la domanda di energia da parte delle famiglie e dell’industria. I livelli di inquinamento potrebbero essere ridotti. Il cibo potrebbe essere coltivato in modo sostenibile. I rifiuti potrebbero essere riciclati. Settori di foreste potrebbero essere ripiantate.
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Ma tutti questi passaggi vitali richiedono due cose: pianificazione e risorse, nessuna delle quali il capitalismo è in grado di fornire. La base della produzione capitalista è la proprietà privata e la concorrenza, nella ricerca del profitto di un pugno di parassiti non eletti e che non rispondono a nessuno; non viene pianificato nulla per rispondere alle esigenze sociali e ambientali.
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Inoltre, sotto al capitalismo da dove verrà il denaro per pagare i notevoli cambiamenti che sono richiesti? L’economia mondiale sta affogando nei debiti dopo la crisi del 2008, un decennio di austerità e una nuova profonda depressione innescata dalla pandemia. All’ordine del giorno ci sono ulteriori tagli – non investimenti. In questo momento affrontare la crisi climatica è l’ultima cosa nella mente della classe dominante.
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I capitalisti non investiranno nelle misure richieste, per la semplice ragione che non è redditizio farlo. In effetti, tecnologie come le energie rinnovabili, che potrebbero fornire potenzialmente un’abbondanza di elettricità verde, pulita, a costo quasi zero, si scontrano fondamentalmente con le ragioni del profitto e il sistema di mercato.
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Ad esempio, gli investimenti sovvenzionati dagli stati nella fornitura in energie rinnovabili hanno realmente paralizzato i mercati internazionali dell’elettricità. Inondati di forniture di elettricità verde, a poco costose e molto abbondanti, i prezzi si sono abbassati, rendendo inutilizzabili le centrali elettriche a carbone e gas. Ciò ha portato a un brusco calo in termini di investimenti privati in nuovi centrali elettriche. Ma le famiglie non vedono nemmeno il vantaggio di bollette più basse, poiché vengono forniti ulteriori sussidi governativi per sostenere i grandi monopoli energetici. In altre parole, il mercato non può risolvere il problema: il problema è il mercato.
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Tutto si riduce a una semplice domanda: chi paga? La ricchezza c’è, ma è ferma nei conti bancari delle grandi imprese e viene sprecata in mezzi di distruzione dai poteri imperialisti. Ad esempio, solo 10 gigantesche società statunitensi stanno accumulando oltre 1,1 migliaia di miliardi di dollari in contanti. E la spesa militare totale a livello mondiale è di 1,8 migliaia di miliardi di dollari l’anno. Sotto il capitalismo, quindi, non sono solo gli impatti del cambiamento climatico a ricadere in modo predominante sulle spalle della classe operaia, dei poveri e dei più vulnerabili – ma anche i costi per evitare il disastro ambientale, sotto forma di prezzi più elevati, tasse sul carbone e austerità.
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Greta Thunberg, la diciassettenne svedese fondatrice di Fridays for future, è diventata il volto e la voce del movimento internazionale degli scioperi del clima. Parlando alla folla di “leader” mondiali ai forum di Davos e ai vertici delle Nazioni Unite, ha avvertito che “la nostra casa è in fiamme”. “Voglio lanciare l’allarme”, ha detto la Thunberg al suo pubblico d’élite, “perché si agisca”. Ma le sue richieste ai politici per un’azione urgente sono cadute nel vuoto.
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Tuttavia, questa inerzia nei vertici non è semplicemente dovuta a un’assenza di volontà politica. I politici dell’establishment non sono passivi sulla questione per mancanza di determinazione, ma perché il loro scopo principale è difendere il sistema capitalista, non il futuro dell’umanità o del pianeta.
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La Thunberg ha sottolineato che gli scienziati vengono ignorati e chiede ai governi di ascoltare le prove e i consigli scientifici. Ma i capitalisti e i loro rappresentanti politici non verranno convinti da argomenti morali, né da fatti e cifre, a cui hanno ampio accesso. Alla fine questa élite così distante non farà nulla per proteggere la Terra, poiché il loro unico criterio è massimizzare il profitto a nostre spese.
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Alcuni governi hanno dichiarato simbolicamente una “emergenza climatica” nel tentativo di placare gli elettori. Ma questa è una frase vuota quando viene pronunciata da questi politici del grande capitale. Dopotutto, sotto il capitalismo, non sono realmente loro a decidere. Invece, il nostro destino è lasciato ai capricci del mercato.
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È necessaria un’azione globale per risolvere un problema globale, ma i governi capitalisti sono impotenti. Vengono convocati infiniti vertici climatici e firmati trattati internazionali. Ma questa è solo un mucchio di aria fritta. Perfino quando vengono raggiunti degli accordi, questi protocolli e trattati sono impotenti, gli obiettivi non vincolanti. Sotto Trump, gli Stati Uniti – la più grande economia mondiale ed con le maggiori emissioni di carbonio – si sono già ritirati dall’accordo di Parigi del 2015, rendendolo inattuabile.
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Alla base di questo problema c’è la barriera degli stati nazionali, nonché quella della proprietà privata dei mezzi di produzione. Sotto il capitalismo, i governi nazionali devono, in ultima analisi, servire gli interessi della propria classe capitalista. Come una una banda di pirati, potrebbero riuscire a cooperare per un po ‘, purché ci sia bottino a sufficienza per tutti. Ma non appena si esaurisce, i banditi e i gangster saltano rapidamente alla gola l’un dell’altro. E in questo periodo di protezionismo e crisi capitalista, ogni governo sta tentando di esportare i suoi problemi altrove, portando a politiche per “esportare la povertà”, instabilità geopolitica e rottura della cooperazione su questioni internazionali.
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Di fronte a tale impotenza, gli attivisti degli scioperi per il clima sono scesi in piazza in massa – occupando strade e bloccando le città nel tentativo di costringere i politici ad aprire bene le orecchie. In tutto il mondo, milioni di studenti e giovani sono entrati per la prima volta nell’attività politica, chiedendo azioni immediate e cambiamenti del sistema.
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Queste mobilitazioni hanno riempito una nuova generazione di una sensazione di fiducia, di forza e di avere degli obiettivi. Per quelli che protestano, l’idea di un’azione di massa e militante è ormai la norma, non l’eccezione. La parola “sciopero” è ora saldamente in primo piano nella mente dei giovani.
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Molti attivisti hanno giustamente concluso che la mobilitazione di massa è vitale. Ma dobbiamo anche imparare le lezioni che ci vengono dal movimento ad oggi e riconoscere i suoi limiti. Le proteste in piazza e gli scioperi degli studenti non sono sufficienti. Gli attivisti per il clima devono collegarsi con la classe lavoratrice organizzata e lottare per un cambiamento politico radicale.
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Questa idea di mobilitazione di massa, azione militante e cambiamento di sistema è un enorme passo avanti rispetto all’attivismo ambientalista tipicamente individualista del passato. Ma, in assenza di una direzione rivoluzionaria chiara e coerente, lo spettro di questo vecchio ambientalismo liberale e piccolo borghese continua a perseguitare il movimento per il clima. Ciò è particolarmente evidente nell’abbondanza di idee strane e meravigliose – come “decrescita” e “anti-consumismo” – che infetta il movimento, dominando spesso il dibattito e soffocando la radicalità degli studenti che scioperano.
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Tutte queste idee, in essenza, sono un rigurgito degli argomenti reazionari presentati da Thomas Malthus, l’economista dei primi del XIX secolo, che affermava che carestia, povertà, malattie e mortalità diffusa erano tutti il risultato di una “sovrappopolazione”. Oggi, lo stesso argomento appare non solo sotto forma del “ci sono troppe persone”, “troppe bocche da sfamare” – ma anche che “stiamo vivendo oltre le nostre possibilità”; che “stiamo consumando troppo”. In altre parole, è la gente comune, non il sistema, a essere responsabile della crisi ambientale.
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Tuttavia, molto tempo fa Frederick Engels rispose direttamente a Malthus. “Si produce troppo poco, di qui dipende tutta la questione. Ma perchè si produce troppo poco?”- domandava Engels – in maniera retorica – “Non perchè i limiti della produzione – persino attualmente e con i mezzi attuali – siano stati attinti. No, bensì perchè il limite della produzione non viene determinato dal numero degli stomaci affamati, ma piuttosto dal numero dei borsellini dei compratori in grado di pagare. La società borghese non vuole, non può volere, produrre di più. Gli stomaci senza denaro, il lavoro che non può essere adoprato con profitto, che dunque non è in grado di comprare, cadono tutti in preda del tasso di mortalità.” (Engels a Friedrich Albert Lange, 1865).
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Anche le previsioni apocalittiche di Malthus sono state smentite empiricamente, poiché i progressi della tecnica agricola hanno permesso di sostenere popolazioni più grandi e con livelli nutrizionali più elevati. Allo stesso modo, oggi, le tecnologie esistono già per produrre molto di più, ma senza il degrado ambientale e la distruzione associati al sistema capitalista. Il problema – osservava Engels – è che il capitalismo non può utilizzare per il profitto queste forze produttive.
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Non sorprende che gli apologeti del capitalismo siano d’accordo con questa farsa neo-malthusiana, suggerendo che dobbiamo dividerci i costi e fare scelte individuali “etiche” – riciclare di più, volare di meno, diventare vegani, ecc. – come soluzione per risolvere la crisi ambientale. Dopotutto, l’attenzione alle azioni individuali e alle scelte di vita personali gioca un ruolo utile per la classe dominante, distraendo la gente comune dal vero compito da svolgere: trasformare la società da cima a fondo su linee socialiste.
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Le “soluzioni” che scaturiscono da questo mantra individualistico sono completamente reazionarie. In sostanza, sono solo un “ambientalismo d’accatto” di austerità – si dice ai lavoratori e ai poveri che devono stringere la cinghia per risolvere un problema creato dai capitalisti e dal loro sistema marcio.
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Agli “anti-consumisti”, dobbiamo porre una domanda molto semplice: chi consuma troppo? I milioni di famiglie della classe operaia nel cosiddetto mondo “sviluppato” che devono scegliere tra riscaldamento e alimentazione? Le masse nel cosiddetto mondo “in via di sviluppo” che lottano per nutrire le loro famiglie? I lavoratori e i poveri di tutto il pianeta che vivono in uno stato di povertà in mezzo alla ricchezza?
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Infatti, come mostrano le statistiche, a livello globale, chi fa parte dell’1% più ricco della popolazione è causa di 175 volte le emissioni di carbonio di quelli nel 10% inferiore. E rispetto agli stili di vita, i consumi della metà più povera della popolazione mondiale contribuiscono solo al 10% delle emissioni totali rispetto al 50 percento del 10 percento più ricco. Questa “disuguaglianza delle emissioni” è solo un riflesso generale dell’enorme disuguaglianza economica che è intrinseca al capitalismo.
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I lavoratori non sono stupidi. Possono vedere l’ ipocrisia marcia della classe dominante e dei loro portavoce politici che dicono alla gente comune di “fare sacrifici” per il bene del pianeta. Nel frattempo, l’élite capitalista super-ricca vive completamente su un altro pianeta, accumulando livelli osceni di ricchezza e andando in giro su jet privati. Da qui, la protesta di massa dei gilet gialli in Francia, contro il tentativo di Macron di imporre un aumento delle tasse sui carburanti per i lavoratori; o i movimenti di massa visti di recente in molti paesi ex-coloniali contro l’eliminazione dei sussidi per il carburante imposta dal FMI.
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I socialisti devono opporsi a tutte queste misure, compresa la cosiddetta “carbon tax”. Queste tasse ricadono tipicamente sui consumi delle famiglie – sul combustibile o sull’energia – e non sulle imprese, spostando l’onere sulle spalle della classe lavoratrice e dei poveri. Tali tasse sono reazionarie e regressive. E, in ogni caso, non risolvono la crisi climatica, ma sono solo un’altra misura di austerità. Siamo al fianco dei manifestanti dei gilet gialli, e chiediamo che siano i capitalisti – non la classe operaia – a pagare per questa crisi.
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Incolpare “consumismo” e “crescita” è una falsa pista. Il danno ambientale non è causato dall’industrializzazione o dalla crescita, ma dal modo in cui la produzione è organizzata e controllata sotto il capitalismo. Piuttosto che accrescere l’efficienza, la concorrenza e la ragione del profitto portano a una corsa al ribasso, creando enormi livelli di rifiuti e inquinamento. Le grandi aziende usano l’obsolescenza incorporata nei prodotti per vendere di più. Un enorme settore pubblicitario tenta di convincerci ad acquistare cose di cui non abbiamo bisogno. E aziende come Volkswagen imbrogliano e infrangono le normative ambientali per ridurre i costi e aumentare i profitti.
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La causa è il profitto, non la crescita economica in sé. Viviamo in un sistema economico che si basa sul consumo costante di materie prime e sull’accumulazione di profitti. I capitalisti producono non per soddisfare i bisogni, ma per realizzare profitti. Quindi, se le merci non vengono vendute, le aziende chiudono e milioni di lavoratori perdono il lavoro.
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Questo è il motivo per cui gli appelli di alcune parti del movimento green per la “crescita zero” e la “decrescita” sono reazionari. La “crescita zero” sotto al capitalismo è chiamata recessione – e sono la classe operaia e i poveri a doverla pagare. In sostanza, la richiesta di “decrescita” è un argomento per la recessione e l’austerità permanente.
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Tutta l’enfasi della teoria della “decrescita” è sbagliata e quindi è dannosa. La domanda deve essere di cosa produrre e di come produciamo; non di consumo e “scelte del consumatore”. A cosa servono i boicottaggi individuali di fronte all’anarchia e al caos del mercato? Abbiamo bisogno di un piano di produzione razionale, con il controllo democratico sull’economia; non singoli boicottaggi e “consumismo etico”.
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Anche se noi, come società, volessimo ridurre I nostri consumi collettivi, come sarebbe possibile fintantoché la produzione è interamente posseduta, controllata e decisa dalla classe capitalista? Come potremmo ridurre l’industria della carne? Come potremmo cercare di limitare la popolazione? Chi potrebbe decidere cosa e quanto viene prodotto? Il semplice fatto di porre tali domande dimostra l’assurdità di questo ambientalismo individualistico e la natura reazionaria del malthusianesimo in tutte le sue varietà.
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La crisi del coronavirus ha messo in grande evidenza i limiti di questo approccio individualistico, neo-malthusiano, regressivo. L’intera economia mondiale si è fermata. Gli aerei non volano. Le strade sono vuote. La domanda di petrolio è crollata, come I consumi delle famiglie. Il risultato è che si stima che le emissioni globali di carbonio diminuiranno dell’8% quest’anno. Tuttavia, questo stesso livello di riduzione delle emissioni è necessario ogni anno per il prossimo decennio per limitare il riscaldamento globale a 1,5° C.
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Possiamo quindi vedere i limiti reazionari dell’ideologia della “decrescita”. Come mostra la paralisi pandemica, sotto il capitalismo, tali drammatici cambiamenti possono essere raggiunti solo in modo completamente caotico, a costo di far precipitare l’economia in una grave depressione, con disoccupazione di massa, povertà e fame. E anche questi cambiamenti a malapena intaccano la superficie di ciò che è necessario fare. Chiaramente, una riduzione sistematica della produzione – e dell’intera organizzazione della società – è necessaria per ridurre le emissioni sulla scala che viene richiesta.
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Ciò che è necessario non sono i cambiamenti degli stili di vita personali, i tagli al consumo individuale o la regressione a una forma di produzione più primitiva (la cosiddetta deindustrializzazione). Ci sono già abbastanza risorse prodotte per ogni persona sul pianeta per vivere una vita confortevole e dignitosa. Se questi fossero distribuiti in modo razionale ed equo, ci sarebbe abbastanza per tutti, senza ulteriori sprechi o necessità di produrre altre merci. Ciò che serve è un cambiamento economico sistematico, dalle fondamenta e internazionale.
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Sotto il capitalismo, le tecnologie e le tecniche introdotte per aumentare la produttività possono trasformarsi nel loro contrario e distruggere del tutto il potenziale di crescita. Questo si può vedere dai recenti sviluppi in agricoltura, dove l’uso indiscriminato di insetticidi e fertilizzanti artificiali ha decimato le popolazioni di insetti, impoverito il suolo e inquinato l’approvvigionamento idrico. Su una scala più ampia, si vede dal modo in cui l’industria e i trasporti aumentano l’inquinamento e le emissioni di carbonio, distruggendo il mondo naturale da cui dipende, in ultima analisi, l’intera società umana.
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Questa è una conferma di ciò che Marx ha spiegato nel Capitale, discutendo della natura della produzione agricola sotto al capitalismo: “Ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso nella rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. (…) La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio.” (Karl Marx, Il Capitale, libro primo, Macchine e grande industria).
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Tuttavia niente di tutto ciò è un argomento contro la tecnologia e l’industria, o a favore della “deindustrializzazione”. È piuttosto un argomento contro la proprietà privata, l’anarchia del mercato e il motore del profitto. È un argomento a favore della pianificazione socialista; dell’utilizzo della scienza e della tecnologia nell’interesse delle persone e del pianeta, non per i profitti di pochi.
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In breve, è una questione di classe. Di chi è la proprietà? Di chi sono le decisioni? L’anarchia del capitalismo sta distruggendo l’ambiente. Dobbiamo pianificare – razionalmente e democraticamente – come utilizzare le risorse del pianeta; quali tecnologie abbiamo bisogno di sviluppare e impiegare. Ma, come dice il vecchio proverbio, non puoi pianificare ciò che non controlli; e non controlli ciò che non possiedi.
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In molti paesi, partiti politici e organizzazioni liberali e hanno tentato di prendere il controllo, di appropriarsi e di dirottare il movimento per il clima, indebolendo le manifestazioni e le loro richieste radicali. Le ONG come Greenpeace si sono spesso poste burocraticamente alla testa del movimento, predicando una strategia “aperta a tante idee diverse”. Gruppi di attivisti come Extinction Rebellion, nel frattempo sono caduti nella stessa trappola, depoliticizzando le proteste e facendo appello ai politici di tutto lo spettro politico di “sedersi a un tavolo”.
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Il fatto è che il cambiamento climatico è un problema politico. Sono i capitalisti e il loro sistema ad essere responsabili del disastro del pianeta. Mettersi assieme ai partiti borghesi e fare appello ai politici legati alle grandi imprese è peggio che inutile: è dannoso dal momento che annacqua attivamente il programma del movimento e conduce gli attivisti in un vicolo cieco. Questi politici della classe dominante difendono gli interessi della classe capitalista, non i bisogni della società e dell’ambiente. Il movimento non deve riporre alcuna speranza o fiducia in loro, né nelle ONG e nei liberali che tentano di ingannare i giovani radicalizzati che scioperano per il clima.
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In alcuni paesi è aumentato il sostegno ai Partiti verdi a causa delle crescenti preoccupazioni ambientali e di una sfiducia generale nei confronti dei tradizionali partiti della classe dominante. Ma fondamentalmente, i dirigenti dei verdi sono solo dei liberali, che non mettono in discussione il sistema o vedono la divisione della società in classi reciprocamente antagoniste. L’esempio del nuovo governo di coalizione tra conservatori e verdi in Austria è molto significativo. Il suo programma contro la classe lavoratrice può sostanzialmente essere concentrato a due esigenze: ridurre l’immigrazione e ridurre le emissioni. Ciò ha fatto cadere la maschera “progressista” dei Verdi, rivelando la loro vera, brutta faccia.
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Dall’altra parte, sono stati compiuti passi positivi per collegare la questione ambientale alle rivendicazioni politiche di sinistra. In particolare, la proposta di un Green New Deal è diventata il grido di battaglia della sinistra statunitense e britannica. Ad esempio, all’inizio del 2019 Alexandria Ocasio-Cortez ha presentato a Washington una risoluzione che invita il governo federale a ridurre le emissioni di carbonio investendo in forniture di energia rinnovabile e creando posti di lavoro verdi. Si è andato oltre, con la proposta per un “Green New Deal socialista” – basato sulla proprietà pubblica e sul controllo democratico dell’economia – che è stata approvata in Gran Bretagna nel 2019 alla conferenza del Partito laburista.
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Ma, in realtà, lo slogan del Green New Deal è un po’ un contenitore vuoto, che può essere riempito con qualsiasi contenuto si desideri. Lo dimostra la varietà di sostenitori che hanno aderito al Green New Deal della Ocasio-Cortez, inclusi candidati presidenziali democratici di destra come Biden, Buttigieg e Klobuchar.
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Queste proposte vaghe del Green New Deal equivalgono generalmente a una strategia keynesiana che tenta di regolare e gestire il sistema capitalista. Ma il capitalismo non può essere gestito. Non può essere domato e reso “verde”. Finché l’economia si baserà sulla produzione per il profitto, saranno i grandi capitalisti a fare imposizioni ai governi e non viceversa. In breve, piuttosto che offrire un “cambio di sistema”, le richieste keynesiane del green New Deal cercano di salvare il sistema capitalista da sé stesso.
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Uno studio che viene citato spesso ha dimostrato che 100 grandi aziende (principalmente produttori di combustibili fossili) sono responsabili di oltre il 70% delle emissioni di gas serra. Più recentemente, è stato dimostrato che dal 1965 un terzo di tutta la CO2 è stata prodotta solo da 20 aziende. Allo stesso modo, solo il 3-10% dei rifiuti che finiscono in discarica nei paesi capitalisti avanzati proviene dalle famiglie; il resto è principalmente il risultato di processi industriali su larga scala, costruzioni e miniere.
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Tutto ciò evidenzia di chi è realmente la colpa della crisi ambientale. E dimostra chiaramente la soluzione: portare queste aziende e industrie sotto la proprietà comune e il controllo democratico, come parte di un piano di produzione razionale e socialista. Solo così possiamo realizzare un’economia sostenibile, in cui il miglioramento del tenore di vita non sia in contraddizione con la protezione del pianeta.
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In mani private, i principali monopoli generano livelli osceni di sprechi e danni ambientali. Tuttavia, nazionalizzati nell’ambito di un piano economico socialista potrebbero utilizzare moderne tecnologie verdi per ridurre le emissioni e l’inquinamento nell’arco di pochi anni, fornendo allo stesso tempo cibo, alloggio, istruzione, trasporti e assistenza sanitaria di qualità per tutti.
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Combinando le migliori menti scientifiche con le competenze dei lavoratori dell’industria sotto il controllo democratico dei lavoratori, possiamo mettere al servizio dell’umanità e del pianeta tutte le capacità e le risorse tecnologiche della società. Il piano Lucas (dal nome dell’azienda aerospaziale coinvolta, ndt) in Gran Bretagna negli anni ’70 mostra il potenziale. IN quel caso, i lavoratori sindacalizzati dell’industria militare e aerospaziale elaborarono una proposta dettagliata, dimostrando che le stesse fabbriche, macchine e dipendenti potevano essere riorganizzati e ridistribuiti per produrre tecnologie rinnovabili e attrezzature sanitarie avanzate, anziché missili e armi. Alla fine gli operai vennero svenduti dal provincialismo del Labour e delle dirigenze sindacali. Ma la forza creativa della classe operaia volta alla produzione è stata dimostrata in modo lampante.
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L’esempio del Piano Lucas dimostra la possibilità e la necessità di una “transizione climatica”. Non vi è alcun motivo per cui un passaggio alle industrie verdi e la chiusura di quelle inquinanti debbano portare alla disoccupazione. I lavoratori possono essere riqualificati; le fabbriche possono essere riconvertite. Ma ciò richiede la proprietà pubblica, il controllo dei lavoratori e un piano generale di produzione. Lasciata al mercato, il declino delle industrie obsolete può solo lasciare una cicatrice profonda sulle comunità operaie, come mostrano le ex aree minerarie della Gran Bretagna e la Rust Belt negli Stati Uniti.
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Questo evidenzia la necessità che il movimento ambientalista si colleghi al movimento operaio. In alcuni paesi, gli scioperanti per il clima hanno giustamente chiesto assistenza ai sindacati. La stessa Greta Thunberg ha esortato i lavoratori di tutto il mondo a unirsi agli studenti negli scioperi globali. Occasionalmente, i sindacati hanno appoggiato questo appello, promettendo di scioperare o protestare al fianco dei giovani attivisti. È un approccio corretto. Questo non è solo un problema per i giovani, ma qualcosa che riguarda tutti i lavoratori.
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La classe lavoratrice sindacalizzata deve essere alla testa della lotta ai cambiamenti climatici. Tuttavia, gruppi come Extinction Rebellion agiscono in modo da ostacolare il movimento operaio, concentrandosi esclusivamente su una strategia di azione diretta e gesti eclatanti volti a farsi pubblicità. Il loro scopo è “sensibilizzare” attirando l’attenzione dei media, spesso incatenandosi agli edifici e ai mezzi di trasporti o bloccando le strade. In un caso esemplare, gli attivisti hanno preso in considerazione l’uso dei droni per forzare la chiusura dell’aeroporto di Heathrow a Londra. Ma nessuno di loro ha nemmeno pensato di contattare gli iscritti al sindacato dell’aeroporto, dove il personale (compresi il personale addetto ai bagagli e i piloti) stava discutendo di possibili azioni di sciopero. Uno sciopero di questi lavoratori avrebbe paralizzato l’aeroporto – e aiutato ad accrescere ovunque la consapevolezza e la fiducia dei lavoratori – molto più efficacemente delle buffonate irresponsabili di Extinction Rebellion.
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Invece di queste azioni frivole e apolitiche, il movimento per il clima deve basarsi sulla mobilitazione di massa dei lavoratori e dei giovani attorno a chiare rivendicazioni socialiste. Il potere della classe lavoratrice organizzata, armata di un programma socialista, sarebbe inarrestabile. Come hanno sempre affermato i marxisti, non si accende una lampadina e non gira una ruota senza il permesso della classe operaia.
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I movimenti politici e sociali di sinistra sono in crescita in tutto il mondo. Il compito è portare la combattività e il radicalismo degli studenti degli scioperi per il clima nel più ampio movimento operaio, con lavoratori e giovani che lottano insieme per audaci politiche socialiste ambientali. Tale programma dovrebbe includere queste rivendicazioni:
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Nazionalizzare i grandi monopoli dell’energia, le compagnie di combustibili fossili e le reti di distribuzione sotto il controllo democratico dei lavoratori, togliendo l’approvvigionamento di fonti energetiche dalle mani dei profittatori e dei baroni del petrolio. Con la proprietà pubblica, potremmo fare investimenti di massa in energie rinnovabili ed eliminare gradualmente i combustibili fossili, riducendo contemporaneamente i prezzi per i consumatori.
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Espropriare le imprese edili e far diventare il suolo e le banche di proprietà comune. In questo modo, potremmo intraprendere un programma pubblico massivo per ristrutturare le case esistenti e costruire nuovi alloggi popolari, di alta qualità ed efficienti dal punto di vista energetico.
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Far diventare tutti i trasporti – i servizi di trasporto, le ferrovie, le reti metropolitane, gli autobus, i tram, le compagnie aeree e le spedizioni – di proprietà pubblica. Sostituire l’attuale caos con un sistema di trasporto pubblico verde, di alta qualità, ad ampio raggio, coordinato, integrato e gratuito. Nazionalizzare le case automobilistiche e l’industria aerospaziale sotto il controllo dei lavoratori per investire in veicoli e aeroplani verdi.
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Mettere tutte le risorse naturali – compresi suolo, miniere, fiumi e foreste – sotto la proprietà pubblica e il controllo democratico. Il capitalismo e l’imperialismo non devono essere autorizzati a devastare e saccheggiare il pianeta per il profitto. Attuare un programma mondiale massivo di riforestazione e costruzioni di difesa dalle inondazioni.
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Cacciare i grandi capitalisti fuori dalle università. La ricerca e lo sviluppo dovrebbero essere finanziati pubblicamente, decisi democraticamente e orientati dalle necessità della società e del pianeta, non dai profitti delle multinazionali.
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Applicare il controllo e la gestione democratica dei lavoratori in tutti i settori e i servizi pubblici nazionalizzati, con i lavoratori a guidare il “Piano Lucas” per una transizione dei settori che inquinano verso industrie e ai posti di lavoro verdi.
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Marx ed Engels non ignorarono affatto la questione dell’ambiente, ma si interessarono profondamente all’argomento. Ma la loro conclusione di allora, come la nostra oggi, era che non sarebbe mai stato possibile porre fine alla distruzione del mondo naturale in un sistema in cui regna l’anarchia capitalista. Uno sviluppo armonioso tra umanità e natura è possibile solo sulla base di un piano consapevole e socialista, come spiega Engels:
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“Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, imprevisti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze… Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato”.
Solo con la trasformazione socialista della società possiamo soddisfare i bisogni della maggioranza della popolazione in armonia con l’ambiente, invece di generare profitti per una minoranza parassitaria. La scienza e la tecnologia per affrontare i cambiamenti climatici esistono. Ma sotto il capitalismo, queste forze stanno distruggendo il pianeta, non lo stanno salvando. Socialismo o barbarie: questo è il futuro davanti a noi.