L’impeachment di Dilma e la lotta politica in Brasile
7 Ottobre 2016Polonia – Lo sciopero delle donne sconfigge il governo conservatore
10 Ottobre 2016di Claudio Bellotti
Dopo il referendum che ha deciso l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea (23 giugno), la crisi dell’Unione ha subìto una impressionante accelerazione. Parallelamente si acuisce lo scontro politico in Gran Bretagna e in particolare nel Partito laburista.
Il testo che presentiamo qui di seguito è un’ampia sintesi della risoluzione votata dal nostro congresso mondiale alla fine di luglio 2016. A quanto scritto allora vanno aggiunte alcune osservazioni e aggiornamenti.
L’effetto della Brexit sul sistema politico britannico è stato devastante. Il Partito conservatore ha dovuto cambiare leader e Primo ministro, nella ricerca del successore dello sconfitto David Camerono sono stati bruciati in rapida successione ben tre candidati (Gove, la Leadsome e Boris Johnson, anche se quest’ultimo è stato poi recuperato come Ministro degli esteri). Esercitando una pressione disperata la borghesia britannica ha “convinto” Andrea Leadsome, una reazionaria senza freni che avrebbe gettato altra benzina sul fuoco, a ritirarsi in favore di Theresa May, tamponando temporaneamente la crisi dei Tories.
Ma è nel Partito laburista che si sono visti gli effetti più devastanti. La destra interna, che non si è mai rassegnata alla vittoria di Jeremy Corbyn alle primarie del 2015, ha tentato di usare il suo controllo dell’apparato del partito e del gruppo parlamentare per costringere alle dimissioni il primo segretario di sinistra dopo decenni di dominazione dell’ala apertamente borghese di discendenza blairiana.
Su dirette istruzioni del Finacial Times e degli altri portavoce del grande capitale, 172 deputati laburisti contro 40 hanno votato una mozione di sfiducia a Corbyn chiedendogli di dimettersi da leader del partito. Giustamente Corbyn ha rifiutato, essendo stato eletto con 250mila voti degli iscritti, assai più rappresentativi della cricca di parlamentari barricati a Westminster.
Ne è seguito uno scontro furibondo e senza esclusione di colpi. Con una serie di manovre tra lo scandaloso e il grottesco, l’ala blairiana ha tentato dapprima di escludere Corbyn dalle nuove primarie (convocate per il 23 settembre). Poi, non essendoci riusciti, hanno tentato di restringere la sua base di appoggio limitando il diritto di voto nelle prossime primarie in vari modi, dall’innalzamento della quota di partecipazione (da 3 a 25 sterline) fino a una campagna di espulsioni dal partito di militanti della sinistra e di sospensioni o chiusure delle strutture locali.
Tutto questo non ha fatto altro che rafforzare la determinazione della base di Corbyn, che continua ad estendersi: a luglio, quando è stato fissato il termine per registrarsi alle prossime primarie, in 48 ore circa 180mila persone si sono iscritte pagando le 25 sterline! La gran parte degli iscritti ai sindacati sostiene Corbyn, che gode anche di un forte seguito giovanile. Nei giorni successivi al tentato “colpo di Stato” dei 172 deputati della destra laburista, ci sono state manifestazioni con migliaia di partecipanti in sostegno di Corbyn, mentre in molte zone assemblee infuocate delle strutture di base del Labour hanno votato mozioni di sfiducia ai parlamentari chiedendone la rimozione e la sostituzione con candidati scelti dalla base. Il 24 settembre Corbyn è stato proclamato vincitore con un sostegno accresciuto a 313mila voti (61,8 per cento) contro i 193mila dello sfidante “unitario” Owen Smith.
Il Partito laburista è quindi attraversato da una violenta lotta di classe e fino ad oggi tutti i tentativi dell’ala borghese di riprenderne il controllo hanno avuto l’effetto opposto di alimentare ulteriormente la radicalizzazione a sinistra.
La classe dominante britannica si trova nella situazione senza precedenti di vedere entrambi i partiti che storicamente hanno dominato il sistema politico per un secolo, in una crisi profonda. La borghesia cerca di uscire dalla crisi con una “convergenza al centro”, si ventilano scissioni in entrambi i partiti per favorire una possibile coalizione, o addirittura un nuovo partito: in fondo, si dice, in parlamento le distanze tra i conservatori “ragione-voli” con i laburisti “moderati” sono davvero ridotte.
Vero, ma si ignorano due piccoli dettagli. Primo: il “centro” verso il quale si vorrebbe creare tale convergenza esiste forse a Westminster, ma è pesantemente eroso in una società che è sempre più polarizzata sul piano sociale e politico. Secondo: una simile manovra, ammesso che riesca, lascerebbe distrutti sia i conservatori che i laburisti, aprendo la strada a nuovi partiti “estremi” sia a destra, con una alleanza tra i razzisti dell’Ukip e la destra conservatrice, sia a sinistra con una scissione del Labour che, priva di un forte ancoraggio parlamentare, potrebbe rapidamente radicalizzarsi a sinistra.
Il voto sulla Brexit ha quindi catapultato la Gran Bretagna fra i paesi più instabili d’Europa, la crisi sociale ha iniziato a trovare una espressione politica. Ma le conseguenze della Brexit vanno ben al di là.
Come un gomitolo che rotola, tutta la costruzione dell’Unione europea si sta disfacendo sotto gli occhi attoniti dei padroni e dei loro governi, e il processo assume un carattere sempre più accelerato.
La crisi dei profughi sta minando alla base il trattato di Schengen e la libera circolazione all’interno dell’Ue; la politica economica è nel caos, nessuno crede più alle ricette dell’austerità, ma nessuno ha la forza né il coraggio per imporre una svolta, che in ogni caso non farebbe che creare nuove contraddizioni. L’Ungheria sta per tenere un referendum per decidere se accettare o meno la sua quota di profughi e viene minacciata di espulsione dall’Ue se rifiuterà. Su ogni questione, dall’immigrazione alla politica fiscale, ormai la regola è il “si salvi chi può”.
All’interno dell’Ue si vanno delineando sempre più chiaramente blocchi e schieramenti contrapposti: i paesi mediterranei organizzano un vertice su invito dei greci per chiedere la fine dell’austerità, il “gruppo di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) chiede il ritorno al controllo delle frontiere, meno poteri a Bruxelles e più ai governi nazionali… ognuno tenta di tirare dalla sua parte una coperta che è sempre più corta. Si tenta di restaurare un po’ di credibilità per l’Unione minacciando la Apple con 13 miliardi di euro di multa per elusione fiscale, ma neppure su questo ci sarà compattezza e anzi con la Brexit la concorrenza al ribasso sul regime fiscale per le multinazionali non potrà che riaccendersi.
Le cause sono chiare: con una crisi economica che non si risolve, con la disoccupazione di massa, la distruzione dello stato sociale, la disgregazione sociale, nessun partito e nessun governo riesce più a convincere gli elettori della bontà delle politiche europee, che in realtà sono le politiche capitaliste applicate in tutti i paesi dentro e fuori dell’Ue.
Se prima l’instabilità politica sembrava relegata ai paesi mediterranei, colpevoli di scarso “rigore”, ormai anche questa barriera è crollata. Non solo in Gran Bretagna (che pure non fa parte dell’euro e non applica il trattato di Schengen), ma persino in Austria e Germania i partiti storici che da decenni si spartiscono il potere, sono in crisi profonda. La cancelliera Merkel ha inaugurato una serie di sconfitte elettorali (Mecklemburgo, Berlino) che la porteranno quasi certamente a perdere la poltrona di Primo ministro nel 2017 mentre a destra avanza Alternative für Deutschland (Afd), la versione tedesca del Front national francese.
In Francia le prossime presidenziali potrebbero portare al secondo turno a un ballottaggio tra la destra tradizionale dei gollisti e il Fronte di Marine Le Pen. In Italia una sconfitta di Renzi nel referendum costituzionale aprirebbe una crisi politica verticale, che nel giro di breve tempo potrebbe tramutarsi in una vera e propria esplosione sociale.
La crisi dell’Unione europea non è altro che una manifestazione specifica della crisi generale del sistema capitalista e non a caso è accompagnata da una profonda crisi delle organizzazioni riformiste, in particolare dei riformisti di destra. Le burocrazie sindacali e i partiti socialisti sono stati tra i principali promotori del processo di integrazione europea su basi capitaliste. Per decenni hanno spacciato l’illusione che sotto il capitalismo si potesse giungere a una reale unificazione del continente che avrebbe permesso un generale progresso sociale ed economico. Oggi quel sogno è in pezzi, in tutta Europa i sindacati maggioritari abbandonano i lavoratori a se stessi nel mezzo della peggiore crisi nella storia del capitalismo; da parte loro i partiti socialisti e socialdemocratici si sono precipitati come un sol uomo a sostenere le politiche di austerità, spesso sostenendo governi di coalizione con i partiti di centrodestra.
Oggi, dopo avere collaborato a gettare decine di milioni di persone nella povertà, nella disoccupazione, dopo avere demolito sistemi pensionistici e stato sociale, i dirigenti riformisti gridano al “populismo” e al pericolo fascista. Ma se la destra razzista riesce a raccogliere un voto popolare, il primo motivo è proprio da cercare nel disgusto generato dai partiti della sinistra riformista, oltre che dai partiti borghesi tradizionali.
La verità è che gran parte del voto che per disperazione si orienta alla destra populista può essere facilmente conquistato a una posizione chiaramente di classe, che fondi l’opposizione all’Unione europea non sull’utopia altrettanto reazionaria delle piccole patrie e della chiusura dei confini, ma su una chiara battaglia anticapitalista e internazionalista.
Ai demagoghi della destra come Salvini, Farage o Le Pen, che illudono i lavoratori, i pensionati, i poveri con la parola d’ordine “riprendiamoci il nostro paese” (lo dicono in tutti i paesi europei) rispondiamo innanzitutto che questo paese non è mai stato nostro: è sempre stato dei padroni, dei banchieri, degli speculatori, che hanno governato tanto sotto le bandiere nazionali che sotto quelle dell’Unione europea. Per riprenderci ciò che ci spetta, la via non è alzare barriere ai confini o lasciarci trascinare nella guerra fra poveri, ma è quella di espropriare la classe dominante, prendere il controllo del potere economico, delle banche, delle grandi industrie, delle grandi ricchezze immobiliari, di tutto ciò che è stato privatizzato, e mettere queste risorse al servizio della maggioranza della popolazione.
È questa la battaglia che dobbiamo condurre nel movimento operaio e nella sinistra: rompere con le illusioni della “riforma dell’Unione europea”, della cosiddetta “Europa sociale dei popoli” che hanno già dimostrato in Grecia di essere solo parole vuote, e alzare con chiarezza la bandiera della lotta contro l’Ue, contro l’austerità e contro il capitalismo.