Ungheria 1956 – Una rivoluzione politica contro lo stalinismo
27 Aprile 20232,3 miliardi di persone soffrono la fame nonostante la sovrapproduzione globale di cibo
29 Aprile 2023Di casa, molti giovani, ne parlano come di un miraggio. Di alloggio, molti studenti, come di un pozzo senza fondo che risucchia le loro magre finanze. Molti lavoratori devono sobbarcarsi per decenni mutui gravosi. Del posto in cui abitano, molte famiglie, se ne lamentano continuamente… L’unica che in Italia, da quasi 30 anni, non parla di casa è la politica. Eppure, il problema di trovare una sistemazione dignitosa, a un prezzo abbordabile, in un contesto che permetta una vita decente, nel nostro Paese, ha già raggiunto le dimensioni dell’emergenza.
In realtà quello della casa è un problema che affligge la società capitalista da lungo tempo. Già Engels a suo tempo se ne occupò in una serie di articoli polemici che vennero poi raccolti sotto il titolo de La questione delle abitazioni. Anche se dagli anni ‘70 dell’800 ad oggi la situazione è molto mutata, nei tratti fondamentali le dinamiche alla base del problema sono le stesse ed attengono al modo di funzionare del capitalismo stesso. Motivo che ci porta a pensare ancora oggi che “fin quando sussisterà il modo di produzione capitalistico, è follia voler risolvere isolatamente la questione delle abitazioni o qualsiasi altra questione sociale che pesi sulle sorti degli operai. Ma che la soluzione è nell’abolizione del modo capitalistico di produzione, e nell’appropriazione di tutti i mezzi di produzione e di sussistenza da parte della classe operaia stessa”. Ma andiamo con ordine.
I numeri del disagio abitativo in Europa…
Anche in Europa il problema di avere a disposizione una casa a prezzi accessibili, in vendita o in affitto, e che sia soprattutto adeguata alla necessità di vita, riguarda sempre più persone. La questione affligge maggiormente le grandi città. Siccome rappresentano una forte attrattiva in termini di opportunità di lavoro, servizi, svago e socialità, queste ultime continuano ad attirare persone, così da innescare una forte concorrenza per l’alloggio e dinamiche speculative che fanno lievitare i prezzi di vendita e d’affitto. Dove è più forte la richiesta, il mercato diventa più caro. Mentre le zone più rurali o depresse si spopolano e le case si deprezzano molto rapidamente non trovando inquilini. Per questo Il Sole 24 ore il 6 marzo 2023 sulla base di dati Eurostat titolava: “Il costo delle case in città continua a crescere in tutta Europa e a rimetterci sono le persone più fragili e i giovani.” Poi tra le righe riportava questo dato: “Europa: +37% per comprare casa e +16% per un affitto.” Ovviamente aumenti così forti non possono che avere l’effetto di aggravare quel fenomeno chiamato in termini tecnici disagio abitativo, cioè quell’insieme di situazioni familiari e individuali per le quali il diritto a una casa adeguata è sempre più compromesso. Ad esempio, perché il canone d’affitto incide su oltre il 40% dello stipendio disponibile o perché si è costretti a vivere in locali fatiscenti e/o sovraffollati o, nel caso più grave, non si dispone più di alcun riparo in cui vivere.
Lasciamo che parlino i dati. Stando all’Eurostat (Statistiche sulle abitazioni) già nel 2018 nell’UE-27 il ben 9,6% della popolazione spendeva il 40% o più del reddito per l’affitto, il 17,1% stava in abitazioni sovraffollate e il 4,3% in situazione di disagio abitativo grave. Se si considerano questi dati in relazione all’attuale inflazione generale, che in Europa ha raggiunto punte del 10%, è facilmente intuibile il peggioramento della qualità della vita e l’aumento del disagio abitativo, mediamente, su tutto il continente. Ma tra tutti questi dati, forse il più spaventoso e quello che più chiaramente mostra la triste china sulla quale in Europa scivola anno dopo anno il tanto decantato diritto all’abitazione, è riportato in uno studio della Commissione Europea intitolato “Fighting homelessness and housing exclusion in Europe” il quale denuncia che in Europa ogni notte 700mila persone dormono per strada; cifra cresciuta del 70% in 10 anni!
Il grafico sovrastante fornisce una chiara percezione del disagio abitativo in Europa
...e della situazione italiana
Torniamo all’Italia. Perché il nostro Paese, a seguito di politiche per la casa sempre più liberiste, sopratutto a partire dagli anni ‘90, e dato il decennale silenzio della politica sul problema, oggi è il paese dell’Europa occidentale, secondo solo alla Grecia, in cui il disagio abitativo ha raggiunto i livelli più alti. Peggio solo i paesi dell’Est. I dati ce li fornisce l’Istat col Documento del Gruppo di lavoro sulle politiche per la casa e l’emergenza abitativa datato 6 settembre 2022.
L’Italia, eccettuati i paesi ex-sovietici, è quella che in Europa ha il tasso di proprietà delle abitazioni più alto: il 70,8% delle famiglie ha la casa in proprietà, mentre solo il 20,5% sta in affitto e l’8,7 dispone di una abitazione a titolo gratuito. Per rendere chiara la proporzione: in Germania la quota delle case in proprietà è appena superiore al 51% mentre in Romania vola al 94% (Eurostat). Questo dato, all’apparenza positivo, nasconde una realtà molto poco lusinghiera. Perché delle famiglie italiane l’11,1% lamenta di abitare in strutture danneggiate (tetti, pavimenti, finestre…), 13,7% soffrono per l’umidità e 6,4% dispongono di case scarsamente luminose. E il sovraffollamento interessa il 20,2% delle famiglie italiane. Vivere in affitto è la scelta più seguita dalle famiglie più povere. Il 31,8% delle famiglie della fascia più povera paga un affitto rispetto all’11,3% delle più benestanti. Ma questo significa che le famiglie più disagiate sono anche quelle che vedono maggiormente erose le proprie finanze in relazione ai costi sostenuti per l’alloggio. Infatti un nucleo familiare proprietario in media spende 263 euro al mese per la casa, mentre un nucleo in affitto ne spende 579; quasi il doppio. E visto che piove sempre sul bagnato, le famiglie in sovraccarico, ovvero che spendono una somma uguale o maggiore al 40% del loro reddito, sono ben il 9,9% del totale, che vuol dire 2milioni e 500mila famiglie in grave difficoltà economica già all’atto stesso di garantirsi un tetto sopra la testa. Cosa che ha incrementato il numero delle famiglie in ritardo coi pagamenti della pigione o delle utenze tra le fasce più povere della popolazione. Parallelamente i senza tetto sono quadruplicati in 10 anni passando da 125mila 500mila (Censimento 2021).
Disagio abitativo e povertà
Le statistiche sul disagio abitativo acquistano tutto il loro significa se poste in relazione all’aumento della povertà. Per quanto riguarda l’Italia, urla vendetta, il dato del Rapporto annuale 2022 dell’Istat che certifica che “dal 2005 la povertà assoluta è più che raddoppiata: le famiglie coinvolte sono passate da 800mila a 1 milione e 960mila nel 2021 (il 7,5% del totale)”. Questi dati sulla povertà dilagante ci fanno capire che possiamo inserire il problema casa entro il più ampio problema della povertà e dell’esclusione sociale; giacché chi ha abbastanza soldi paga il suo diritto a un casa adeguata, mentre chi ha meno, banalmente, si arrangia come meglio può un cantuccio nel quale rintanarsi, mentre i più sfortunati finiscono direttamente sotto un ponte. Una dinamica generale ben nota anche a due grandi istituzioni borghesi come Federcasa e Nomisma, che infatti a maggio 2020 in un documento congiunto scrivevano: “La diminuzione del potere di acquisto dei redditi conseguente la crisi economica ha comportato un aumento dell’onerosità delle spese per l’abitazione nei bilanci familiari, aggravando il problema dell’affordability, in sostanza, la sostenibilità delle spese per la casa. Da una parte, se la diminuzione del reddito comporta una crescente deprivazione abitativa, dall’altra parte il peso eccessivo dei costi abitativi si traduce in una riduzione del reddito familiare disponibile ed in una conseguente compressione dei consumi o delle possibilità di risparmio.” Il grafico qui sotto mostra chiaramente come la povertà sia associata a un tasso più alto di persone che vivono in locali sovraffollati.
Breve analisi storica del problema casa in Italia
Resta da chiarire come sia possibile che l’Italia, il quarto Paese in Europa per ricchezza, nonché un membro del G7, cioè tra quelli più economicamente sviluppati al mondo, soffra un disagio abitativo così grave. Per questo è bene fare una piccola parentesi storica dividendo la storia della politiche per la casa in Italia in due grandi fasi: il primo periodo che va dalla fondazione della Repubblica (1946) fino agli anni ‘90, e il secondo periodo che va da questi fino ai giorni nostri.
Finita la Seconda guerra mondiale gran parte del patrimonio immobiliare era da ricostruire e milioni di persone erano prive di un alloggio. Nel 1949 l’allora ministro del lavoro Amintore Fanfani, della Democrazia Cristiana, avviò il Piano INA-Casa, che prevedeva la costruzione di decine di migliaia di alloggi pubblici (edilizia residenziale pubblica), le cosiddette case popolari, finanziate dai lavoratori stessi con prelievi in busta paga, in parte dalle imprese e dallo Stato. Nel 1963 il fondo INA-Casa prese il nome di fondo Gescal (Gestione casa lavoratori) ma il principio era il medesimo: attingere una quota dalla ricchezza creata dai lavoratori dipendenti per dare una casa ai ceti popolari. In questa fase, durante gli anni del boom economico, mentre grandi masse di meridionali emigrarono verso il nord industriale in cerca di lavoro, parallelamente molti contadini lasciavano i campi e le campagne per diventare operai. Ciò non fece altro che aggravare ulteriormente la questione della casa, specialmente nelle città e nei grandi centri industriali. In questo contesto la Democrazia Cristiana al governo iniziò ad applicare le sua ricette di stampo conservatore e borghese per la casa. Grandi casermoni vennero eretti in fretta e furia, li stessi che oggi intristiscono malamente nelle nostre periferie (e che hanno fatto la fortuna di tanti e tanti palazzinari senza scrupoli, alla faccia di chi li avrebbe dovuti abitare). Poi, per questi nuovi alloggi, vennero varate delle politiche di incentivo all’acquisto, ad esempio favorendo i mutui o prevedendo sgravi fiscali per gli acquirenti. Questa spinta dei Governi democristiani di allora alla proprietà immobiliare, al di là della volontà di mettere un tetto sulla testa degli italiani, era una precisa scelta politica conservatrice volta a favorire la proprietà privata delle case a discapito dell’edilizia popolare pubblica. In questo modo non solo si facevano gli interessi dei palazzinari e degli speculatori edilizi, ma si puntava anche a sviluppare un “ceto medio di proprietari” cui attingere a livello elettorale. Perché, come fece notare a suo tempo Engels citando Eleonor Marx, “gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato”. Il disegno politico DC era quello di creare nella mentalità di un’ampia fascia della popolazione (lavoratori compresi) l’idea di avere, in qualità di proprietari, interessi coincidenti con quelli della grande borghesia, da difendere contro le istanze socialiste e comuniste del movimento operaio.
Il risultato è stato il rapido incremento delle case in proprietà (cosa che, come detto, contraddistingue ancora oggi l’Italia dal resto degli altri paesi dell’Europa occidentale) che ha portato, di conseguenza, ad un progressivo rialzo dei costi per gli alloggi posti in affitto; allora come oggi. Così la situazione, sempre più insostenibile per molte famiglie operaie, impossibilitate a comprare casa e schiacciate dalle pigioni, è andata maturando per tutti gli anni ‘50 e ‘60 fino ad esplodere il 19 novembre del 1969 in un grande sciopero per la casa indetto congiuntamente da Cgil, Cisl e Uil, dove 20 milioni di lavoratori incrociarono le braccia per rivendicare il diritto all’abitare. A seguito di quelle lotte e visto anche il movimento delle occupazioni degli immobili vacanti, il Governo fu costretto a sedersi ai tavoli delle trattative con i sindacati. E da qui presero il via una serie di riforme del mercato immobiliare che tra le sue conquiste più salienti annoverano la Legge sull’equo canone, ossia limitazioni per legge del prezzo massimo degli affitti in base a certi parametri; in modo da alleggerirne il peso suoi conti delle famiglie affittuarie. Possiamo dire che le lotte dell’autunno caldo italiano hanno portato in ambito lavorativo-sindacale allo Statuto dei lavoratori (1970) e in ambito immobiliare alla Legge sull’equo canone (L. 392 del 1978). Comunque, anche la misura dell’equo canone non fu risolutiva del problema casa e le occupazioni da parte di fasce delle popolazioni particolarmente indigenti hanno continuato a verificarsi; come ancora oggi.
Il punto di svolta, l’inizio della seconda fase, sono stati gli anni ‘90. In quegli anni, in coincidenza con il crollo dell’Urss, il movimento operaio è entrato in fase di riflusso in cui hanno preso il sopravvento ulteriori misure liberiste in campo immobiliare. La giustificazione è stata, come sempre, quella di porre fine agli sprechi e alla mala gestione del patrimonio residenziale pubblico. La motivazione reale invece, in una totale logica capitalista, era quella di fornire alla borghesia palazzinara ulteriori occasioni di guadagno senza dover temere la concorrenza degli alloggi statali. Come in quegli anni le aziende di Stato venivano fatte fallire per regalarle ai privati, così il patrimonio immobiliare pubblico è stato talmente depotenziato che oggi in Italia solo il 4% degli immobili è destinato al sociale; il resto è tutto a libero mercato. Per rendere l’idea della nostra miseria in fatto di edilizia pubblica basti pensare che in Danimarca la quota del mercato immobiliare destinata al sociale è del 21%, in Austria del 24% e in Olanda del 30% (fonte HousingEurope.ue). A conclusione del processo di ritiro dello Stato da ogni significativo tentativo di risolvere il problema casa, nel 1998 l’equo canone fu completamente abolito, così come il fondo Gescal, e la competenza dell’edilizia pubblica e passò alle Regioni. Fine dei finanziamenti. Intervento pubblico sulla questione casa ridotto al lumicino. I risultati di quel disegno politico è l’emergenza abitativa odierna e il silenzio indifferente colpevole delle Istituzioni al riguardo. Il grafico qui sotto mostra come l’andamento del disagio si sia impennato proprio a partire da quegli anni.
L’Italia al momento ha tra le legislazioni immobiliari più liberiste del continente, e forse anche del mondo, non prevedendo alcun tetto agli affitti. Bisogna pur dire che le forme di sostegno alle famiglie, soldi e agevolazioni per alleviare indirettamente il peso degli affitti hanno tra l’altro l’effetto di far lievitare il livello generale delle pigioni. Il grafico qui mostra bene la pochezza delle misure a sostegno delle famiglie per l’abitare messe in campo dallo Stato italiano.
Nomisma e Federcasa, così hanno scritto nel loro documento del maggio 2020 intitolato Dimensione del diagio abitativo pre e posto emergenza Covid-19: “In Italia la spesa pubblica rappresenta il 48,4% del PIL e la parte preponderante viene destinata alla protezione sociale che esprime il 20,8% del PIL. Se si restringe l’analisi della spesa pubblica alla voce “housing” si estrapolano due capitoli di spesa: all’interno della macrocategoria della spesa pubblica al capitolo di spesa denominato Housing and community amenities(comprendente spese per lo sviluppo di iniziative immobiliari e di studi e pianificazione di settore ) è destinato appena l’1% del totale della spesa pubblica; nella categoria di spesa per protezione sociale è compresa la voce Housing a cui è destinato appena lo 0,2%.” Ma, come se non bastasse, a fare veramente rabbia e ad aggravare la situazione c’è l’alto tasso di alloggi popolari esistenti che rimangono vuoti, e che quindi limitando l’offerta concorrono ad alzare i prezzi sul libero mercato. E questo perché, ad esempi, gli enti gestori non sono disposti a spendere nella loro riqualificazione e da decenni non si provvede più ad aggiornare le graduatorie dei potenziali inquilini. Emblematica la situazione a Milano. Il 23 marzo 2022 il Corriere della sera a proposito della città con le case più care d’Italia titolava: “Case Aler e Mm, 13 mila appartamenti sfitti a Milano: un quinto degli alloggi popolari è inutilizzato.”
La situazione non è molto migliore per quelle famiglie di lavoratori che non sono in affitto, ma accendono un mutuo con le banche per acquistare una casa. In questo modo si ritrovano per decenni a vedere i loro magri salari decurtati dalle rate da pagare ogni mese, con tanto di tassi di interesse per le banche creditrici. I mutui rappresentano un enorme fardello che accompagna e condiziona fortemente l’esistenza di milioni di lavoratori per gran parte del corso della loro vita. Un problema che è destinato a diventare più grave nel prossimo periodo, dal momento che, con l’aumento dei tassi d’interesse, anche i tassi dei mutui hanno cominciato ad alzarsi in maniera significativa. A questo si aggiunga il rischio di non riuscire più a pagare la rata e di vedersi pignorata la casa. Negli scorsi anni, infatti, non sono solo cresciuti gli sfratti per gli inquilini morosi, ma anche le esecuzioni immobiliari nei confronti dei debitori inadempienti.
Per concludere la storia della triste parabola delle politiche abitative in Italia, possiamo dire che l’attuale emergenza abitativa è il risultato necessario di precise scelte politiche. È dovuta al fatto che, da un lato, l’alto tasso di proprietà tiene alto i livelli degli affitti e, dall’altro, la dismissione progressiva dell’edilizia pubblica, con la soppressione dell’equo canone e la riduzione delle misure a sostegno degli affittuari, ha tolto quei limiti posti al mercato immobiliare e quelle forme di sostegno capaci, se non di eliminare il problema abitativo, quantomeno di tamponarlo.
Inutile dimostrare l’inefficacia e la pochezza delle uniche due misure attualmente previste per i più indigenti, ossia i contributi per l’affitto e il Fondo morosità incolpevole. In più, gioca anche la sua parte nell’alimentare il disagio abitativo il basso livello dei salari, che in Italia negli ultimi 30 anni, unico paese al mondo dell’Ocse, sono scesi (-2,3%) anziché aumentare.
Contro il capitalismo per un autentico diritto alla casa.
Dunque, al di la delle specifiche italiane, “donde proviene la penuria di abitazioni? Come si è venuta creando?”, Pur facendo le debite distinzioni, conserva tutta la sua vitalità l’analisi che Engels diede più di 150 anni fa. La questione abitativa “è un prodotto necessario della forma sociale borghese; che non può sussistere senza di essa una società nella quale le grandi masse lavoratrici dipendono esclusivamente dal salario, cioè dalla somma di mezzi di sussistenza necessari alla loro esistenza e alla loro riproduzione; nella quale i perfezionamenti delle macchine, ecc, gettano continuamente nella disoccupazione masse di operai; (…) nella quale gli operai vengono riuniti in massa nelle grandi città e con maggior rapidità di quella con cui, nelle condizioni esistenti, si provvedano per essi gli alloggi, e nella quale quindi è giocoforza che si trovino sempre affittuari per i più infami porcili; nella quale, infine, il proprietario di case (le grandi agenzie immobiliari di oggi), nella sua qualità di capitalista, ha non soltanto il diritto, ma per via della concorrenza, in una certa misura, anche il dovere di trarre dalla sua proprietà, senza alcun riguardo, il maggior canone d’affitto possibile.”
Come marxisti mai ci stancheremo di ribadire che quello della casa è un problema globale legato ai meccanismi del sistema capitalista. Questo perché la casa, come tutte le merci, subisce le leggi del mercato e ripropone così il conflitto tra valore d’uso e valore di scambio, tra bisogno e guadagno, e quindi tra abitare e speculare. Il nocciolo del problema è proprio questo. La mancanza di una pianificazione economica generale porta, ad esempio, al concentramento delle attività produttive in determinate aree, che sono le stesse nelle quali il problema della casa è reso più urgente dalla competizione che si innesca per la ricerca di un alloggio; mentre nelle zone più economicamente depresse le case si svalutano e comunque non trovano inquilini disposti ad abitarle.
Inoltre, altrettanto emblematico è il cosi detto effetto Airbnb, per il quale i locatari preferendo affittare ai turisti a prezzi maggiori finiscono per far lievitare in generale livello dei prezzi degli affitti per i residenti. È proprio con Airbnb che il mercato della casa è radicalmente cambiato in molte grandi città, dove la situazione degli alloggi è diventata ancor più insostenibile: con gli appartamenti disponibili riservati ai turisti (per realizzare guadagni più alti), diventa praticamente impossibile per gli studenti fuori sede o i lavoratori in trasferta (o i residenti stessi) trovare case, per lo meno a costi accessibili, e anche per le abitazioni più scadenti bisogna spendere una fortuna.
Il problema casa è un problema sistemico. Il capitalismo, in ogni Paese, porta allo svilupparsi di zone altamente sviluppate accanto a zone depresse ed economicamente marginali. Questo tipo di sviluppo diseguale e combinato ha tra gli altri, come detto, l’effetto di rendere inaccessibili le abitazioni li dove c’è lavoro. Quindi è necessaria, per risolvere la questione abitativa, tanto quanto il problema disoccupazione e spopolamento, un sviluppo più armonico e pianificato su tutto il territorio. È necessaria una pianificazione democratica e socialista dell’economia.
Resta la certezza che oggi , come ai tempi di Engels, la questione abitativa non discende dalla penuria di alloggi. Infatti, ad esempio in Italia, il 29,73% delle abitazioni (10milioni di alloggi) risulta non occupato, o perché in zone depresse o, nelle grandi città, sono tenute chiuse senza venderle né affittarle per tenere alto il prezzo degli immobili disponibili. L’emergenza abitativa è dunque una delle tante che il capitalismo genera a tutti i livelli proprio per il suo modo irrazionale e non pianificato di funzionare. Similmente al problema della disoccupazione, della povertà e delle diseguaglianze, è uno di quelli impossibili da risolvere senza mettere in discussione tutto il sistema.
Per questo è necessario abbattere il capitalismo con le sue regole e conquistare un sistema economico socialista nel quale i mezzi di lavoro e di sussistenza, tra i quali le case, siano gesti in maniera democratica dai lavoratori. Solo così si potrà garantire il lavoro, un salario degno, e la casa per tutti. Quando i lavoratori avranno preso nelle loro mani la gestione dell’economia, a quel punto, si potranno gettare le basi per soluzione definitiva del fenomeno.
Avendo chiare le radici del problema e la prospettiva socialista, è necessario contemporaneamente avanzare delle rivendicazioni transitorie per rimediare da subito all’emergenza abitativa almeno nei suoi aspetti più gravi ed urgenti.
Perciò il nostro programma politico rivendica:
– un tetto agli affitti. Un lavoratore non deve pagare, per avere un tetto sulla testa, più del 10% del suo salario.
– l’azzeramento del tasso dei mutui. I salari devono essere salvaguardati contro gli interessi delle banche.
-il censimento e il riutilizzo delle case sfitte. Basta con gli immobili invenduti e sfitti solo per far lievitare i prezzi.
-esproprio del patrimonio delle grandi immobiliari. Perché un bene fondamentale come la casa deve essere sottratto alle logiche speculative del mercato.
– la nazionalizzazione di Airbnb e delle altre piattaforme on line. Le case disponibili devono essere utilizzate per soddisfare le esigenze della collettività, non per fare arricchire le piattaforme on line.
-un piano nazionale di edilizia popolare. È ora che lo Stato torni a mettere tra le sue priorità il diritto alla casa. Basta col silenzio e il menefreghismo delle istituzioni sul problema!