Rivoluzione in Algeria: finita una fase, ne comincia un’altra
15 Marzo 2019Rivoluzione n° 54
20 Marzo 2019L’editoriale del nuovo numero di Rivoluzione
La giornata del 15 marzo ha visto decine di città italiane invase decine e decine di migliaia di manifestanti, il cui settore principale era una marea di studenti delle superiori. Abbiamo preso parte e contribuito a promuovere manifestazioni come da tempo non se ne vedevano, per numeri, spontaneità e partecipazione attiva.
Lasciamo pure che i commentatori di professione si esercitino nelle loro analisi più o meno paternalistiche sui “bravi ragazzi che pensano al futuro”. Le piazze a cui abbiamo partecipato il 15 per noi hanno lanciato un messaggio chiarissimo: una rivolta contro questo sistema, contro le sue ingiustizie, contro il furto di futuro e di speranze.
È il grido di rivolta di una generazione che è cresciuta in un mondo segnato dalla crisi economica, che sa di essere la prima generazione da più di mezzo secolo a vivere in condizioni peggiori dei propri genitori. Che vede crescere senza sosta le diseguaglianze sociali, le ingiustizie, lo sfruttamento.
L’angoscia e la protesta contro la devastazione ambientale è parte integrante di questa presa di coscienza.
Una lotta politica!
Le idee che si sono espresse nelle piazze erano, inevitabilmente, composite. È un nostro compito aprire una dialettica, lottare per la chiarezza di questa battaglia. Innanzitutto diciamo che questa è una lotta politica al 100 per cento. Non c’è niente di più politico di uno scontro su ciò che si produce e si consuma, su chi deve controllare l’industria e l’economia tutta, e per quali finalità. E se è vero che nessun partito rappresenta questo movimento, come molti hanno ripetuto, non significa che sia un movimento apolitico, ma più semplicemente che tutti i partiti esistenti stanno dall’altra parte: dalla parte di chi inquina, sfrutta e saccheggia.
Un ambiente vivibile non si conquisterà con la somma di milioni di gesti di buona volontà individuale. Le nostre abitudini quotidiane non sono determinate solo dalla nostra coscienza o dalle nostre libere scelte. Sono dettate soprattutto dal modello sociale e produttivo nel quale viviamo e dal quale non possiamo sfuggire. Possiamo solo lottare per rovesciarlo.
Non possiamo andare a piedi per raggiungere un posto di lavoro o una scuola a chilometri da dove risiediamo e dove non ci sia un mezzo pubblico che lo raggiunga. Non possiamo produrre in casa nostra l’energia, gli alimenti o i beni indispensabili a vivere. Sono prodotti di una divisione sociale del lavoro nella quale la maggioranza della popolazione entra in modo subordinato, come lavoratori dipendenti che producono sotto il comando delle imprese, e come consumatori le cui scelte sono dettate innanzitutto dal reddito disponibile.
Ci saranno sempre acqua pulita, zone di residenza salubri, cibo non contaminato, per chi può pagarli. Sotto il capitalismo la miseria si distribuisce in modo ineguale come la ricchezza. Le conseguenze dell’inquinamento o del cambiamento climatico vengono e verranno pagate sempre più dalla maggioranza dei lavoratori, dei giovani, dei poveri, dei paesi sfruttati dall’imperialismo.
Questa consapevolezza è presente nel movimento. Lo striscione di apertura della manifestazione di Bologna era chiarissimo: “Se il clima fosse una banca, sarebbe già stato salvato!”. “Capitalism is Cataclysm” dichiarava un cartello in Largo Cairoli a Milano.
L’ipocrisia della borghesia
La classe dominante privilegia oggi la via della cooptazione. Appelli presidenziali, candidature al Nobel, inviti a forum prestigiosi, tribune mediatiche. Come disse qualcuno, “si può uccidere anche con pallottole di zucchero”, lusingando le figure rappresentative di un movimento per svuotarlo della sua carica antagonistica.
Oltre alla mummia di Mattarella ci sono state altre dichiarazioni da Premio Nobel, sì, ma dell’ipocrisia. Per primi i capi del Pd, vecchi e nuovi, che convenientemente fingono di non essere stati tra i responsabili di provvedimenti come il famigerato “Sblocca Italia”, che ha dato il via libera a trivelle, cementificazioni e speculazioni su e giù per lo Stivale. Ma non sono da meno i 5 Stelle, che hanno fatto tanta propaganda sull’ambiente e ora che sono al governo danno via libera al Tap in Puglia, fanno il gioco delle tre carte sulla Tav, regalano l’Ilva ai privati di ArcelorMittal che riprendono ad inquinare a tutto spiano.
Registriamo che il Pd, oggi così entusiasta della manifestazione, si schiera assieme alla Lega contro il movimento NoTav, ossia uno dei più importanti movimenti di difesa del territorio dalle grandi opere speculative.
Esiste un settore del capitale interessato a un ambientalismo “ragionevole” e soprattutto interno al sistema di mercato. Dobbiamo saper riconoscere il segno di classe dietro ad ogni discorso, anche il più apparentemente progressista. Facciamo un solo esempio: come affrontare la questione delle auto e dei trasporti? Le multinazionali che investono sull’elettrico rivendicano: più tasse su gasolio e benzina, incentivi per chi acquista le auto elettriche o ibride, provvedimenti di legge in favore del settore. Questo “ambientalismo” non risponde a questioni fondamentali. Come si gestisce l’inquinamento generato dalla produzione di decine di milioni di batterie di grosse dimensioni per muovere queste auto? Silenzio. Come verrà prodotta l’energia elettrica necessaria? A petrolio, gas, carbone, nucleare? Ancora silenzio. Questo è l’ambientalismo del capitale, che scarica i costi sulla collettività con le tasse (che colpiscono magari il pendolare che non può vivere in città) e incassa sussidi pubblici e profitti. Che nel migliore dei casi sostituisce un prodotto inquinante con un altro che inquina in modo differente (ad esempio il carbone col petrolio, il petrolio col gas, ecc.)
Sullo stesso problema c’è poi un ambientalismo che propone di compiere delle rinunce con la decrescita (più o meno “felice”), che propone la piccola produzione, lo scambio locale come soluzione, ossia il ritorno a forme di produzione e scambio più arcaiche.
Per noi un’effettiva lotta per l’ambiente non significa rinunciare alle conquiste della scienza e della tecnica, ma liberarle dalle catene costituite dal profitto e dalla proprietà privata. Nel caso in esempio, significa lottare per uno sviluppo massiccio del trasporto pubblico a costi contenuti, attraverso l’esproprio delle grandi multinazionali del settore (auto e trasporti) e usando le loro risorse per orientare il sistema sui mezzi meno inquinanti e più efficienti, collegandoli a una produzione di energia pubblica e fondata sulle rinnovabili e a scelte urbanistiche e di gestione del territorio dettate dai bisogni della collettività e non dalla rendita immobiliare (quella, per esempio, che costringe milioni di persone ad allontanarsi dai centri urbani a causa dei prezzi delle case, per poi doversi spostare ogni giorno di decine di chilometri per andare lavorare o studiare).
Un capitalismo “verde”?
Anche sul terreno dell’ambiente il riformismo si esercita nel tentativo di rendere compatibili le aspirazioni della maggioranza della popolazione con i profitti della minoranza. La nuova parola d’ordine negli Usa è “Green New Deal”, e non dubitiamo che sarà largamente tradotta in molte lingue, compresa la nostra. È la parola d’ordine di un settore del Partito democratico Usa che propone, appunto massicci investimenti pubblici per favorire le industrie “verdi”. Come il New Deal degli anni ’30 si proponeva di superare la crisi del ’29 usando l’intervento dello Stato, lo stesso viene oggi riproposto in chiave “ambientalista”. Ma si tratta esattamente della logica sopra spiegata: usare fondi pubblici (che peraltro scarseggiano!) per creare nuovi campi di investimento e profitti per il capitale privato. Non a caso viene proposta come programma per un partito come i Democratici Usa, il partito di Wall Street e del capitale finanziario.
Così come non è un caso che nei paesi europei dove i Verdi hanno un peso elettorale siano completamente integrati nelle politiche liberiste, nelle privatizzazioni, nella precarizzazione. Come se potesse esistere un sistema che mentre massacra i lavoratori sul piano sociale possa arrivare alla sostenibilità ambientale.
No! La lotta per condizioni di vita, di produzione e riproduzione della nostra specie, è una lotta di classe a tutti gli effetti, una lotta della maggioranza contro la minoranza, degli sfruttati contro gli sfruttatori.
E se qualcuno pensa che la lotta per il socialismo sia qualcosa di obsoleto, superato da “nuove” tematiche come quella ambientale, può riflettere su concetti espressi da Marx ed Engels 150 anni fa:
“Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive.” (Il Capitale, vol. III).
Il capitalismo ha messo in moto forze produttive gigantesche, spezzando i vecchi cicli dell’economia naturale, ma è incapace di sostituirvi un sistema sostenibile per la maggioranza della popolazione. Per usare le parole di Engels, “la soppressione dell’antagonismo di città e campagna non solo è possibile, ma è diventata una diretta necessità della stessa produzione industriale, così come è diventata del pari una necessità della produzione agricola ed inoltre dell’igiene pubblica. Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e suolo, solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti siano adoperati per produrre le piante e non le malattie.” (AntiDühring, 1878).
Solo un’economia socialista, usando le enormi conoscenze tecniche e scientifiche esistenti e sviluppandone di nuove potrà impiegarle in un’economia pianificata, nella quale il controllo di “cosa, come e quanto produrre” non sarà più in mano a una ristretta minoranza, ma sarà deciso democraticamente dalla grande maggioranza dei lavoratori e dei cittadini nell’interesse comune.
18 marzo 2019