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26 Maggio 2023Pubblichiamo di seguito la trascrizione dell’intervento di Margherita Colella al convegno nazionale Di femminismo in tailleur e lustrini non sappiamo che farcene! Per una critica al femminismo liberale, tenutosi l’11 marzo scorso all’Università Statale di Milano.
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Una parte del movimento femminista e transfemminista lotta per la legittimazione del lavoro sessuale, rivendicando la possibilità di costruire organizzazioni professionali e sindacali che portino avanti gli interessi comuni delle “lavoratrici del sesso”. Il principio di fondo di questa rivendicazione è la libertà di scelta: che questa scelta non avvenga nel vuoto, da parte di singoli individui slegati dal contesto e dalla loro collocazione di classe in una società divisa in classi, è un elemento dal loro punto di vista secondario.
Un lavoro come un altro?
Silvia Zollino ha scritto un testo che si chiama Sex work is work in cui sostiene che “tutti dobbiamo lavorare” e che la maggior parte delle persone che scelgono questo lavoro lo fanno perché sostanzialmente non hanno altre opzioni e, anche se ne avessero, è giusto che questa opzione resti come libera scelta delle donne; quindi è giusto che ci sia un riconoscimento di questo lavoro uscendo fuori dalla logica del bigottismo di una società sessuofobica, che inventa una contrapposizione tra la donna “povera vittima”, incapace di autodeterminarsi e di imporre la sua autonomia, e la figura del “carnefice”, cioè del cliente che usufruisce del servizio.
Ma c’è di più. In un’assemblea nazionale di confronto tra femminismi del 2018 Non una di meno diceva: “Molti rabbrividiscono all’idea che nella stessa frase ci possano essere la parola corpo e la parola mercato. Lo slogan ‘il corpo è mio, e decido io’ vale per l’IVG, vale per la liberazione sessuale ma non va bene se in un’epoca in cui tutto è mercificato e viene valutato si decide di vendersi sessualmente, non è possibile quindi volersi dare, sfruttare il proprio corpo a proprio vantaggio come forma di autodeterminazione”. No compagne di Non una di meno! Non è così!
Sfatiamo intanto due miti. Il primo è quello che la prostituzione sia un lavoro come un altro e il secondo è che è il mestiere più antico del mondo. Engels ne L’origine della famiglia, testo in cui spiega l’origine dell’oppressione, scrive: “Nella differenziazione della proprietà, accanto alla schiavitù appare il lavoro salariato e, come necessario correlativo, la prostituzione. La società produce la famiglia monogamica, l’eterismo che è libertà sessuale per gli uomini e la sua forma più estrema che è la prostituzione, perché si proclami ancora una volta l’incondizionato dominio degli uomini sul sesso femminile.”
Questo non è né bigottismo, né moralismo, ma un punto imprescindibile, inaggirabile: andare al fondo della questione è necessario per armarci degli strumenti per lottare contro quella che viene tacciata come autodeterminazione e invece è una forma estrema e antica di schiavitù e di oppressione che non ha nulla di progressista e non si può certo “abbellire” attraverso un restyling del linguaggio.
Si tengono convegni su convegni e dibattiti accademici in cui il pappone diventa manager, i bordelli diventano cooperative autogestite con prostitute felici, e lo stupro diventa un incidente sul lavoro. Questo linguaggio sdogana concetti come sfruttamento, oppressione, mercato e gli unici a poterne beneficiare sono gli imprenditori e i capitalisti che investono in questo settore.
Non è un caso che anche associazioni umanitarie a difesa dei diritti umani come Amnesty International e innumerevoli ONG, così come i piani dell’ONU di protezione contro le malattie trasmissibili sessualmente, siano a favore del lavoro sessuale e della sua legittimazione come elemento di prevenzione sanitaria.
Non è neanche casuale che la Open Society Foundation di Bill Gates e Soros investa palate di soldi dandoli a queste organizzazioni per promuovere campagne di sensibilizzazione alla decriminalizzazione.
Da un lato si danno soldi per la prevenzione delle malattie sessuali, dall’altro si investe in campagne per aumentare il mercato dello sfruttamento della prostituzione, perché probabilmente se ne traggono più profitti.
La tratta di esseri umani
In realtà l’approccio che mette la “performatività” del soggetto al di sopra di tutto e tutti nasconde quella che è la dinamica di massa reale del processo che spinge e costringe milioni di donne nel mondo a prostituirsi, depotenziando la lotta alla tratta. La tratta diventa un mito da sfatare, addirittura si arriva a pensare che le donne, entrando nel mercato sessuale, possano avanzare rispetto alla loro condizione di partenza.
Ricordiamo a questo proposito l’attacco brutale che subì Adelina quando intervenne all’Assemblea nazionale di Non una di meno del 2017, denunciando i crimini della tratta e dicendo il sex work non è lavoro, perché le donne subiscono abusi e violenze, e fu zittita da una platea di attiviste di Non una di meno.
Coloro che parlano di tratta in termini di abusi e violenze vengono accusate di essere colonialiste e razziste, in quanto femministe bianche che parlano da un punto di vista privilegiato. Questo è quello che producono queste teorie, dimenticando che sono vittime di tratta 40 milioni di persone, di cui l’83% sono donne che finiscono nel mercato della prostituzione, soddisfacendo una domanda rispetto alla quale queste femministe ritengono giusto garantire un’offerta, assumendo così in tutto e per tutto il punto di vista della classe dominante.
Molte di loro finiscono proprio in quei paesi, come Germania, Olanda e Nuova Zelanda, dove le politiche di normalizzazione e legalizzazione della prostituzione hanno prodotto un considerevole aumento del turismo sessuale.
Un’ex-prostituta tedesca ha detto: “Quello che vendono come un paradiso è un paradiso solo per i capitalisti del sesso, per i papponi e i proprietari di bordelli, che aumentano le tariffe degli affitti e possono realizzare tutte le loro fantasie a prezzi più bassi. Per le donne è un inferno e il governo non fa niente.” Questo è il modello tedesco dove l’80% delle donne in vetrina sono vittime di tratta, altro che libera scelta!
Lo stesso vale per la Nuova Zelanda, dove la prostituzione è completamente legalizzata, dove si sfata il mito del ruolo dei sindacati perché è gestita dai papponi, e quindi l’autodeterminazione non esiste. Non solo: lì il mercato del turismo sessuale è cresciuto enormemente perché ognuno può fare quello che vuole. Ci sono addirittura uomini che dichiarano: “è come andare a bere un caffè al bar, possiamo fare quello che ci pare e sceglierci la donna come se fossimo al supermercato”. Inoltre il grosso delle donne che finiscono sulla strada sono indigene maori. Questa sarebbe la sovversione del patriarcato!
Quale empowerment?
La concezione accademica che considera il sex work un lavoro come un altro parte dal presupposto non solo della libera scelta, ma anche della via di uscita individuale dallo sfruttamento: “Perché unirsi, lottare e rivendicare un avanzamento per tutti? Quando invece si può ambire ad autodeterminarsi attraverso l’“autosfruttamento del proprio corpo?”. Come dicono tante di queste attiviste che lavorano anche sul web, “Fottiamo per fottere il sistema”, spacciando per rivendicazione ciò che in realtà è un arretramento significativo per il movimento delle donne.
Sentiamo tanti accademici dire “è un lavoro come un altro” ma facciamo parlare le “lavoratrici” o chi subisce questo “lavoro”: “Il fronte opposto dichiara che la prostituzione non è sempre violenza e può dare potere alle donne ed essere un lavoro migliore del Mc Donalds’, e io gli ho detto quando lavori al Mc Donalds almeno non sei la carne” (una ex prostituta). Che da un po’ l’idea di cosa stiamo parlando. Va da sé che il lavoro salariato è sfruttamento, usura il corpo e distrugge il tempo e l’energia di tutti i lavoratori salariati tant’è che noi marxisti lottiamo per la sua abolizione ma qui si tratta di un livello di sfruttamento molto particolare che si fonda sulla coercizione e sul dominio.
Queste femministe sostengono che, pur essendoci un rapporto asimmetrico tra clienti che si concedono un lusso e prostitute che devono sopravvivere, la prostituzione sia una forma di empowerment in cui la prostituta può “performarsi”, decidere tempi e modi sovvertendo lo schema della relazione che il patriarcato ci impone. Ci si dimentica il dettaglio che un rapporto costruito sulla logica del “mi paghi per avere un servizio” è di per sé un rapporto dominante, asimmetrico, violento e coercitivo, per non parlare dei suoi risvolti in termini di stupri, molestie e tutto quello che le statistiche dicono a riguardo della realtà della prostituzione.
C’è poi un altro aspetto: quello che alcuni accademici e ricercatori come Santiago Morcillo chiamano “strategie professionali” per dividere la sfera emotiva da quella lavorativa. Queste sono dissociazione e abuso di sostanze, che in realtà non sono altro che una reazione di sopravvivenza al trauma che le donne subiscono. Dice bene Rachel Moran, autrice di “Stupro a pagamento”, quando afferma che la prostituzione non è una libera scelta, ma la scelta di chi non ha scelta. Non a vaso le statistiche su prostituzione e disturbi post traumatici, dissociazione, disturbi della personalità sono aberranti.
Only fans: le nuove frontiere dello sfruttamento
Con la pandemia c’è poi stato il boom della prostituzione online attraverso piattaforme come Only Fans, che è meno difficoltosa, più facile e accessibile, e aggirerebbe questo rapporto asimmetrico perché “sei davanti a un computer e decidi tu”. Un boom alimentato non a caso dalla crisi pandemica, che ha schiacciato la condizione di vita delle donne e delle giovani, dalla precarietà e della disoccupazione, oltre che dalla propaganda social di quelle attiviste che propugnano a giovani universitarie, disoccupate e precarie la possibilità di prostituirsi come via d’uscita al posto della lotta e dell’organizzazione collettiva. La soluzione alla crisi economica è diventare imprenditrici di se stesse, ambire alla scalata sociale, auto-sfruttandosi.
Dal nostro punto di vista, queste teorie non sono neanche lontanamente accettabili, anzi sono pericolose e giocano un ruolo molto negativo nel movimento per i diritti. Bisogna invece lottare per distruggere la società che è all’origine dell’oppressione, sulla base di un programma rivoluzionario di rottura con il sistema: diritto alla casa, iscrizione gratuita all’università, assistenza sanitaria garantita, salario minimo per le disoccupate… Solo così si potranno costruire condizioni materiali in cui chi oggi è in quel tritacarne possa davvero considerare che esiste un’alternativa. Lottiamo per costruire una società nella quale le relazioni umane siano davvero libere e prodotto di una libera scelta e non inquinate dalla miseria e dal ricatto economico.