La Brexit negli Usa: lottare contro Trump, lottare contro il capitalismo!
10 Novembre 2016Tunisia – L’oasi di Jemnah in lotta
14 Novembre 2016La vittoria di Trump è innanzitutto la vittoria di un candidato esterno al potere costituito. Certo, Trump è un miliardario che in passato è stato vicino, come tutti i suoi pari, al potere politico e in particolare a quello del Partito democratico. Ma una volta sceso in campo, già nelle primarie, si è trovato contro tutti a partire dallo stesso partito repubblicano. Circa 160 dei candidati repubblicani al Congresso lo hanno disconosciuto, così come nomi illustri del partito quali il presidente della Camera, Paul Ryan e gli ex fedelissimi di Bush Paul Wolfowitz e Condoleeza Rice oltre allo stesso George Bush.
Hillary aveva dietro i volti multiformi del potere: l’industria militare, quasi tutti i media (57 a 2 lo schieramento dei principali quotidiani), Wall Street, le burocrazie sindacali, tutto il variegato mondo dell’intellettualità progressista, con pochissime eccezioni, schierati a falange contro Trump, dipinto come un dittatore, un nuovo Hitler, uno squilibrato guerrafondaio, ecc.
Trump ha vinto perché una parte consistente dell’elettorato non solo non ha dato ascolto a questo coro rumoroso, ma ha posto un segno “più” dove tutti dicevano di porre un “meno”. Se tutti lo attaccano, probabilmente ha qualcosa di buono: questo il ragionamento semplice, che non nasce dall’ignoranza, come viene scritto, o dalla frustrazione, ma dalla viva esperienza di milioni di persone, in particolare in questi anni di crisi: se tutti i politici corrotti, i banchieri impuniti, i media prezzolati, i privilegiati in genere, mi dicono di fare una cosa, è opportuno fare l’esatto contrario. Hillary Clinton è apparsa come la personificazione di tutto ciò che il popolo detesta: una arrogante carrierista, cresciuta nelle stanze del potere, che incassa milioni da Goldman Sachs. WikiLeaks ha pubblicato qualcosa sulle entrate della Clinton Foundation: un milione da un rappresentante del Qatar per un incontro di cinque minuti con Bill Clinton; 12 milioni a Hillary per presenziare a un ricevimento in Marocco, fiumi di denaro dall’Arabia Saudita (quasi 70 milioni), mentre l’industria militare Usa concludeva con quel paese contratti per 80 miliardi di dollari… forse non tutti gli elettori conoscono queste cifre, ma il tanfo di marcio era nettamente percepibile.
Trump ha anche incassato i frutti della sua audacia e determinazione: non si è piegato ai notabili del suo stesso partito, che avevano fatto di tutto per farlo saltare, è andato avanti a testa bassa fino al traguardo.
Un voto spaccato
La vittoria di Trump, in termini assoluti, è una sconfitta: con un’affluenza in calo, la Clinton ha preso oltre 220mila voti in più, circa lo 0,2 per cento. Non per questo però il risultato può essere considerato casuale. Dal 2008, i democratici hanno perso 9,5 milioni di voti, mentre i repubblicani sono rimasti stabili.
Trump ha vinto perché in suo favore si sono spostati alcuni settori decisivi dell’elettorato, mentre altri che potevano controbilanciare a favore della Clinton sono stati meno presenti.
Lo spostamento di alcuni Stati industriali o ex industriali a favore di Trump è stato decisivo. È un voto proletario che assomiglia come una goccia d’acqua a quello che nel nord dell’Inghilterra ha fatto pendere la bilancia a favore della Brexit nel giugno scorso. Viceversa il voto delle minoranze, decisivo per Obama, è stato molto più tiepido per la Clinton. Così come non ha funzionato il richiamo ad eleggere il primo presidente donna. L’appello ai diritti democratici da parte della diretta rappresentante del grande capitale è stato sconfitto da due semplici argomenti di Trump, che hanno abilmente manipolato un autentico e profondo odio di classe: 1) “Il sistema è truccato”, riferendosi al sistema politico, giudiziario, mediatico statunitense; 2) “Il libero commercio ha distrutto la manifattura esponendola alla concorrenza dei bassi salari cinesi, messicani, ecc: io romperò con questa politica e riporterò i posti di lavoro in patria.”
Sintetizza un preoccupatissimo Edward Luce sul Financial Times (9 novembre): “L’America ha inviato a Washington l’equivalente di un attentatore suicida. Il mandato di Trump è di far saltare in aria il sistema. La sua previsione di ‘una Brexit decuplicata’ potrebbe dimostrarsi una sottovalutazione. Il Regno Unito potrà anche essersi lasciato andare alla deriva, ma le conseguenze della sua decisione sono in larga parte locali.
Gli Usa, viceversa, sono sia il creatore che il garante dell’ordine globale postbellico. Trump ha corso con l’impegno esplicito ad allontanarsi da tale ordine. Come precisamente metterà in pratica il suo programma di ‘Prima l’America’ è a questo punto secondario. Il pubblico Usa ha mandato un segnale inequivoco. Il resto del mondo agirà di conseguenza.”
La crisi politica della globalizzazione
Trump ha sin dall’inizio attaccato frontalmente la politica estera americana. Ha nettamente dichiarato che la guerra in Iraq è stata un fallimento; che la politica della Clinton come segretario di Stato ha favorito la crescita dell’Isis e del fondamentalismo islamico; che il conflitto diplomatico con la Russia e le sanzioni sono un errore, così come lo è stato l’intervento in Libia; che l’accordo con l’Iran è stato una resa della diplomazia Usa. Tutte verità ormai evidenti persino a un elettorato come quello Usa, tradizionalmente non particolarmente interessato alla politica estera. Di fatto queste critiche investono anche le precedenti amministrazioni repubblicane
Nonostante le dichiarazioni razziste contro l’islam e le fanfaronate sulla possibilità di usare la bomba atomica e in generale di radere al suolo ogni oppositore internazionale, la politica estera accennata da Trump è tutt’altro che un semplice delirio reazionario. Ciò che Trump propone alla borghesia americana è: 1) Abbandonare il legame ormai ombelicale con la monarchia saudita, il Qatar e le petromonarchie che sono diretti finanziatori e sostenitori del fondamentalismo islamico sunnita, da Al Qaeda fino all’Isis. 2) Abbandonare la sterile e costosa contrapposizione con la Russia e concentrarsi sullo scontro economico con la Cina e in generale tornare a praticare il protezionismo in economia, sostenuto da una adeguata linea diplomatica e militare.
Ma c’è di più: Trump propone che gli Usa abbandonino il “protettorato” europeo, che l’Europa pensi a difendersi da sé, e vuole ridurre il ruolo della Nato e la difesa automatica e reciproca dei suoi componenti.
L’imperialismo Usa è oggi in una fase simile a quella finale dell’impero britannico: quella in cui la difesa e il controllo dell’impero costano più, in termini economici, politici e militari, di quanto l’impero stesso possa rendere.
La globalizzazione era in crisi nell’economia, ma sopravviveva nella politica e nell’ideologia dominante. Dopo la Brexit, la vittoria di Trump le sferra un colpo pesantissimo anche in questa sfera.
“…il mondo del libero mercato, aperto, dalla mentalità globale, può solo sedersi sul fondo e domandarsi quale sarà la prossima tessera del domino a cadere. Forse la Francia; c’è qualcuno convinto che Marine Le Pen non possa vincere la presidenza l’anno prossimo?… È ormai chiaro oltre ogni dubbio che vediamo una rivolta contro l’ordine economico e politico che ha governato il mondo occidentale per decenni.” (Financial Times, 9 novembre).
È ancora presto per dire dove e come quest’onda d’urto manifesterà per primi i suoi effetti, e quali saranno le controtendenze.
Dopo le perdite iniziali Wall Street, ha provato a rassicurarsi: Trump non è certo il primo outsider che si lancia in politica attaccando i banchieri, gli speculatori e la politica al loro servizio. Una volta entrato alla Casa Bianca l’establishment può mettere in atto la sua esperienza secolare nel rendere compatibili figure assai più ostiche di un costruttore edile un po’ troppo spregiudicato.
Ma una cosa è certa: se realmente applicate, le politiche di Trump comporterebbero una guerra aperta contro capitale finanziario: per questo le Borse e gli organi di stampa dell’oligarchia finanziaria oscillano istericamente tra il panico e i tentativi di rassicurare, innanzitutto se stessi, che finita la campagna elettorale tutto tornerà nell’ambito della “ragionevolezza”.
Una profonda divisione nella classe dominante
Mentre i poteri economici erano schierati quasi al completo con la Clinton, non altrettanto si può dire dell’apparato statale. Gli altri gradi dei militari e dei servizi di sicurezza non credono alla propaganda e conoscono la realtà. Sanno che la politica estera della Clinton (e poi di Kerry) è stata catastrofica (in particolare le imputano l’avventura libica con le sue conseguenze, tra cui l’uccisione del console Usa a Bengasi). Sanno fino a che punto la cricca dei Clinton sia compromessa in una rete di interessi particolari che possono mettere a rischio la tutela degli interessi generali e collettivi della borghesia Usa.
A poche settimane dal voto, la situazione ha rischiato di sfuggire di mano, quando Trump ha minacciato di non riconoscere una eventuale vittoria risicata della Clinton, mentre i democratici e l’amministrazione Obama hanno accusato la Russia di intervenire per manipolare la campagna elettorale e forse il voto stesso attraverso misure di guerra informatica.
Solo queste divisioni spiegano fatti altrimenti inspiegabili, come l’interferenza dell Fbi negli ultimi giorni della campagna elettorale, quando si è riaperta la questione delle mail della Clinton, o il singolare ringraziamento che Trump ha fatto, nel suo discorso della vittoria, ai “servizi segreti”. Un modo, forse, per confermare un patto di “transizione pacifica”, voluto dai vertici degli apparati di sicurezza, terrorizzati da una possibile crisi istituzionale come quella che nel 2000 causò uno stallo per oltre un mese prima di proclamare la (falsa) vittoria di George Bush. Patto ribadito da Obama nella notte dello scrutinio e il giorno seguente.
Basterà? C’è da dubitarne. È impensabile un sistema economico nel quale il protezionismo commerciale non abbia effetti sui mercati finanziari e sulla loro profonda internazionalizzazione, mai così intrecciata nella storia. E quali saranno gli effetti sul dollaro, è tutto da vedere. Una vera politica protezonista, fatta di dazi commerciali e svalutazioni competitive, affonderebbe l’economia mondiale ben peggio della crisi del 2008, e non è detto che Trump possa e voglia realmente spingersi troppo in là su questa strada. Ma la verità è che dovunque la si guardi, dal punto di vista del capitale e della classe dominante questa è veramente una situazione senza uscita, in cui i diversi sbocchi apparenti sono altrettante strade oscure e inesplorate verso il disastro.
Solo il socialismo batte Trump!
Tanto negli Usa come all’estero risuonano i lamenti della sinistra “progressista e illuminata” che, ovviamente, non trova di meglio che prendersela col popolo ignorante, razzista, maschilista ed egoista che non ha accettato i buoni consigli e si è rifiutato di votare la candidata dei padroni.
Ma non abbiamo invece nessun motivo di essere pessimisti, al contrario. La demagogia di Trump sarà ben presto messa alla prova. Chi lo ha votato sperando in un cambiamento nella sua situazione economica e sociale vedrà ben presto che tale cambiamento non arriva, mentre già ora milioni di persone sono in aperta opposizione. Ad ogni passo si accumuleranno contraddizioni e conflitti, tanto più che il nuovo presidente godrà anche di una maggioranza nei due rami del parlamento e, presto, anche nella Corte Suprema.
Gli Usa sono tutto tranne che una nazione pacificata e inerte. I movimenti di lotta di questi anni, da Occupy Wall Street alle lotte di una nuova leva operaia, fino ai movimenti antirazzisti come Black Lives Matter sono stati delle prime anticipazioni. Le mobilitazioni degli studenti dopo la vittoria di Trump sono solo un preludio dei movimenti di massa che si preparano negli Usa.
Un punto cruciale rivelato da queste elezioni è la rottura della classe operaia col Partito democratico, e con le sue appendici nella burocrazia sindacale. Quella che un tempo era l’aristocrazia operaia, con i suoi alti salari con i suoi sindacati impelagati nella cogestione aziendale e negli schemi previdenziali, è stata erosa e minata ormai da un trentennio. Oggi questo emerge non solo come un fatto oggettivo, ma come una realtà cosciente Ciò che nel commento politico viene chiamata la “crisi del ceto medio” è in realtà questo: la fine del consenso operaio al sistema.
Questa rottura si è data a destra favorendo Trump, per un motivo molto chiaro: il possibile catalizzatore a sinistra, quel Bernie Sanders che aveva raccolto 13 milioni di voti nelle primarie democratiche invocando la “rivoluzione politica contro la classe dei miliardari”, ha tradito (è questa la parola esatta) ogni cosa che aveva detto nella sua campagna, ogni speranza che aveva sollevato, accettando di disciplinarsi alla Clinton. Vale la pena di citare per esteso le sue parole, rimbalzate in rete in questi giorni:
“Non possiamo lanciare un terzo partito, un partito socialista, perchè porterebbe solamente alla vittoria di Trump. Dobbiamo serrare le fila attorno ad Hillary cosicchè lei possa vincere”. (Bernie Sanders, 17 maggio 2016)
Questo genere di saggezza è finito nella spazzatura la notte dell’8 novembre. Ma quei milioni di persone e in particolare di giovani e di lavoratori che avevano sperato in Sanders non sono spariti. Sono invece più lontani che mai dal Partito democratico, ed è presumibile che non ci torneranno mai più. Esistono quindi tutte le condizioni economiche e politiche, e anche soggettive, per la nascita di un movimento politico di classe negli Usa. Un movimento chiaramente anticapitalista e socialista, che nella crisi del secolare sistema bipartitico possa farsi avanti indicando la sola via d’uscita progressiva: il rovesciamento dell’oligarchia finanziaria e industriale e la nascita di un’America socialista.