David Harvey contro la rivoluzione: la bancarotta del “marxismo” accademico
3 Luglio 2020La rivolta della ragione – Indice dei capitoli
7 Luglio 2020Pubblichiamo la risoluzione pubblicata dall’assemblea nazionale tenuta a Modena sabato 4 luglio, che formalizza la costituzione dell’area di opposizione in Cgil “Le giornate di marzo”.
—
Come lavoratori e lavoratrici, delegati, iscritti e dirigenti della Cgil ci siamo riuniti in assemblea per una discussione approfondita sulla condizione odierna della classe lavoratrice e soprattutto sui compiti impellenti che si trova ad affrontare.
Riteniamo innanzitutto che la crisi attuale costituisca la minaccia più grave da generazioni a questa parte alle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori e delle loro famiglie, ossia della larga maggioranza della popolazione.
La crisi sanitaria si somma e moltiplica gli effetti di una crisi economica internazionale che era già in sviluppo da molti mesi. Si profila una catastrofe sociale con milioni di disoccupati, interi settori dell’economia a rischio di sparizione, crisi industriali, impoverimento diffuso, tracollo dei servizi sociali, del tenore di vita complessivo e dei diritti individuali e collettivi. Tutto questo ricade su un tessuto economico e sociale che ancora mostrava le conseguenze della precedente crisi del 2008, mai veramente superata.
La crisi sanitaria ha messo a nudo come mai prima il cinismo e l’incapacità della classe dirigente e del padronato, in Italia come ovunque. Tutto è stato subordinato all’imperativo di garantire la produzione e i profitti, scaricando il pericolo del contagio e le conseguenze sociali del lockdown esclusivamente verso il basso, verso i lavoratori e i ceti popolari.
Mai come in questi mesi è stato chiaro che per il padronato i lavoratori sono carne da macello, mandati spesso allo sbaraglio senza protezione, senza formazione, senza misure adeguate, in piena diffusione del contagio, il più delle volte per garantire la continuità di produzioni e servizi tutt’altro che essenziali. Questo è stato vero pressoché in tutti i settori, dall’industria ai trasporti, alla sanità, alla logistica, all’assistenza…
Ci siamo trovati di fronte a un attacco senza precedenti almeno dal dopoguerra, nel quale è stato messo in discussione il nostro stesso diritto alla vita.
La linea di Confindustria e del governo era in effetti di tenere tutto aperto. Come ha detto un padrone, “stare a casa e uscire solo per lavorare”.
Se le cose sono andate almeno in parte diversamente, si deve ad un motivo solo: gli scioperi che nella seconda metà di marzo hanno reso chiaro che non eravamo disposti ad andare al massacro in nome del profitto. Solo grazie agli scioperi spontanei scoppiati in decine e decine di fabbriche e aziende è stata posta la questione della chiusura dei settori non essenziali, costringendo il governo, coi decreti del 22-25 marzo, ad arrivare a una chiusura perlomeno parziale.
Consideriamo una gravissima responsabilità dei dirigenti sindacali e della Cgil in particolare di non avere agito, di avere anzi avallato col protocollo del 14 marzo la linea padronale e di avere parzialmente cambiato orientamento solo dopo che l’iniziativa spontanea e determinata, dal basso, di migliaia di lavoratori aveva fatto saltare la cappa di silenzio e di ipocrisia sotto la quale ci volevano costringere a continuare a produrre a rischio della nostra salute e di quella dei nostri familiari.
Per noi le giornate di marzo hanno dimostrato oltre ogni dubbio che di fronte a un pericolo immediato la classe lavoratrice può e sa reagire con l’azione diretta e con l’iniziativa dal basso. Agire non come massa passiva e disgregata, utile solo a produrre il profitto di pochi, ma come corpo capace di una azione collettiva. Soprattutto hanno dimostrato a milioni di lavoratori e lavoratrici che sono loro la vera forza motrice senza la quale nulla in questa società può funzionare.
Discutere di quali produzioni sono essenziali e quali no, di condizioni tecniche e di organizzazione del lavoro per garantire la sicurezza, discutere di chi ha il diritto di far partire o di interrompere la produzione ha significato un gigantesco cambiamento nella coscienza collettiva, nel quale finalmente si è visto con nettezza che siamo noi ad essere “essenziali” e i padroni ad essere “superflui” al fine della creazione della ricchezza e del benessere sociale.
Questa consapevolezza è emersa bruscamente nelle circostanze drammatiche della pandemia e deve essere accresciuta, resa più diffusa e più profonda e soprattutto più organizzata per affrontare i nuovi problemi che incalzano.
Ci rafforza la consapevolezza della diffusione internazionale degli scioperi in difesa della salute, a partire dagli Usa, dove ci sono state centinaia di scioperi spontanei per imporre chiusure o sanificazioni, sfidando colossi del potere padronale a partire da Amazon.
Diciamo con nettezza che il sindacato non è stato all’altezza delle necessità. Il vuoto di indicazioni e di iniziativa nei giorni decisivi e cruciali è stato totale. I lavoratori hanno dovuto assumersi una responsabilità lasciata cadere da coloro che nel momento di maggiore pericolo, dovevano essere i primi a farsene carico. Solo dopo che i lavoratori hanno iniziato a muoversi di propria iniziativa c’è stata una parziale revisione di rotta con la convocazione di alcuni scioperi territoriali e di categoria.
Tuttavia nella trattativa che ha portato al decreto del 25 marzo è emerso in modo netto che non c’era la volontà di basarsi su questa straordinaria iniziativa dal basso. La minaccia dello sciopero generale è stata agitata non per organizzare la forza dei lavoratori, che in quel momento erano disposti a mettere tutto il loro peso sul piatto della bilancia, ma per impantanarsi in una trattativa fittizia col governo sui codici Ateco e sulla effettiva portata del blocco. Fittizia perché alla fine il governo ha deciso per proprio conto, arrivando a un decreto colabrodo che ha permesso a decine di migliaia di aziende (oltre 200mila) di aggirarne le norme e di continuare a produrre, mettendo a rischio tra 2 e 3 milioni di lavoratori che avrebbero dovuto essere esentati dal lavoro.
Mentre il rischio sanitario è tutt’altro che sconfitto, già si manifestano le conseguenze economiche della crisi. Confindustria assume una linea aggressiva e punta a usare la crisi per distruggere i contratti nazionali, far saltare ogni tutela collettiva, avere mano libera su tutto: orari, turni, organizzazione del lavoro, retribuzioni, ferie… Si pretende che i lavoratori si facciano carico di tutto: a casa quando non c’è lavoro, ma pronti a lavorare senza orario non appena la produzione riprenda.
D’altra parte Confindustria rivendica miliardi a fondo perduto per le aziende e chiede che lo Stato si faccia carico di ogni perdita, salvo poi sparire non appena ci sia la possibilità di fare profitti.
Le donne lavoratrici sono sottoposte a una ulteriore pressione, data la pretesa di scaricare su di loro anche la paralisi della scuola ad ogni livello e la maggiore rapidità con cui stanno venendo espulse dal mercato del lavoro. Si pretendono lavoratori pronti a tutto in azienda, e donne disponibili a fare da retrovia con un occhio sui figli o sui fornelli e l’altro sul monitor del telelavoro.
I miliardi di debito pubblico che si stanno accumulando verranno successivamente fatti pagare ai ceti popolari, con nuove tasse e ulteriori tagli ai servizi pubblici, alla previdenza e allo stato sociale. È una illusione pericolosa pensare che l’Unione europea possa attenuare la crisi con stanziamenti a fondo perduto. Ogni euro di debito dovrà essere ripagato, e a pagarlo saremo ancora una volta noi. La risposta di questo sistema di fronte alla crisi è quindi regressiva sotto ogni aspetto.
Anche nella nuova fase registriamo che tutta l’iniziativa del gruppo dirigente della Cgil è diretta solo a farsi riconoscere dal governo o a pietire tavoli di trattativa. Leggiamo e sentiamo dichiarazioni inascoltabili dai nostri massimi dirigenti, che favoleggiano di “cogestione” con le imprese, di “evitare il conflitto e di investire nella mediazione sociale” mentre il padronato ha il coltello fra i denti.
Ci opponiamo a questa capitolazione e riteniamo indispensabile una battaglia nei luoghi di lavoro e nel sindacato perché si affermi invece la volontà di resistenza che abbiamo visto manifestarsi negli scioperi di marzo e che è più che mai necessaria per contrastare l’offensiva padronale.
In questo giudizio negativo comprendiamo anche la minoranza interna alla Cgil, che ha limitato la propria azione a una critica puramente passiva dell’operato dei gruppi dirigenti, rinunciando a qualsiasi tentativo di connettersi a ciò che si muoveva nelle aziende. Di fronte a una struttura sindacale che nella maggior parte delle realtà è parsa mettersi letteralmente in quarantena anziché stringersi il più possibile ai lavoratori che lottavano per la salute e la sicurezza, l’opposizione interna non ha avuto alcun ruolo di controtendenza ma si è completamente adagiata nella passività mostrando tutta la propria inadeguatezza ed inefficacia.
Non c’è stato alcun tentativo di connettersi alla spinta che si esprimeva fra i lavoratori, né per dare indicazioni sul campo, né per raccoglierla e porla come elemento di battaglia pubblica nell’organizzazione sindacale. Non si è neppure cercato di elaborare parole d’ordine e proposte di iniziativa all’altezza della situazione.
Nel ristretto gruppo dirigente della minoranza ha prevalso, una volta di più, uno sterile metodo autoreferenziale, una critica verbosa ma in realtà smobilitante, incapace di andare oltre una testimonianza passiva.
Si tratta di limiti strutturali, che derivano dalla completa sfiducia nei confronti della classe lavoratrice che caratterizza le correnti politiche egemoni nella minoranza, in questo indistinguibili dalla visione che guida la maggioranza della Cgil.
Il fatto che neppure una situazione come quella attuale sia sufficiente a scuotere questa passività significa che la crisi è irreversibile, più di qualsiasi errore specifico che possa essere stato commesso in passato dai dirigenti dell’opposizione in Cgil. Per quei settori della minoranza che ancora mantengono un rapporto vitale coi lavoratori si pone l’esigenza di un bilancio realistico di quanto quest’area ha, o meglio non ha, saputo mettere in campo in un momento tanto cruciale.
Da parte nostra, non rinunciamo alla nostra battaglia. Proprio perché riconosciamo la forza che i lavoratori hanno saputo spontaneamente mettere in campo, riteniamo indispensabile che questa venga connessa a una sistematica battaglia per un cambiamento radicale di linea anche nella Cgil, battaglia che anche allo scorso congresso abbiamo condotto con convinzione come parte della mozione alternativa.
Per questo motivo promuoviamo a partire da questa assemblea la costituzione di una nuova area sindacale che si fondi sulla volontà di non rimuovere né tradire quella volontà di lotta espressa in marzo, e che ad essa si richiami anche nel nome.
Al centro di questa iniziativa poniamo la necessità di una piattaforma radicalmente diversa da quanto emerge dai gruppi dirigenti. Il punto centrale non deve essere la cogestione e la collaborazione di classe, bensì lo sviluppo del controllo e del potere dei lavoratori nelle aziende e fuori; la loro organizzazione democratica nei luoghi di lavoro e nel sindacato. Su queste basi non ci sottrarremo da convergere con tutti coloro che capiscono la necessità di condurre
questa battaglia.
Di fronte al cataclisma della crisi dobbiamo porre al centro non il sostegno alle imprese, bensì la necessità di espropriare e nazionalizzare ogni azienda che chiuda, delocalizzi, licenzi, inquini. Le decine di miliardi di cui si discute in queste settimane non devono finire in mano a una classe padronale sempre più parassitaria e irresponsabile, ma devono essere la base per rilanciare queste imprese sotto il controllo e la gestione dei lavoratori.
Allo stesso modo lottiamo per riportare nel pubblico i servizi privatizzati, dalla sanità all’istruzione, per un effettivo rilancio della sanità (anche di fronte ai rischi di nuove ondate della pandemia) sotto il controllo democratico del personale sanitario e degli utenti, per una generale riconversione dell’economia in direzione dei bisogni sociali e ambientali della grande maggioranza. Una prospettiva che diventare realistica solo togliendo il potere economico e politico alla classe dominante.
Anche se questa prospettiva va ben al di là della sola battaglia sindacale, è indispensabile che il sindacato, organizzazione basilare dei lavoratori e delle lavoratrici, ne venga pienamente investito e assuma la parte che gli compete di fronte ai giganteschi compiti che la crisi mondiale del sistema capitalista sta ponendo di fronte alla classe lavoratrice in Italia e a livello internazionale.
Approvata all’unanimità
Modena, 4 luglio 2020