Rivoluzione n°48
20 Settembre 2018Chi ci ruba il futuro?
21 Settembre 2018L’editoriale del nuovo numero di Rivoluzione
La crisi capitalista ha fatto dei giovani la sua carne da macello. L’idea che le nuove generazioni vivranno peggio dei loro genitori è ormai un luogo comune assodato, ma occorre guardare le cifre nude e crude per capire esattamente fino a che punto siamo arrivati.
Nel 2010 si contavano nell’Unione europea oltre 116 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale; nel 2015 il valore sale a 117 milioni 833mila, ossia il 23,3 per cento dei residenti. In Italia la cifra è cresciuta da 14 milioni 891mila a 17 milioni 469mila: il 28,8 per cento della popolazione legalmente residente. (Tutti i dati di questo articolo sono raccolti nel rapporto Futuro anteriore pubblicato dalla Caritas su dati Eurostat e Istat). In quei 5 anni l’Italia è stata seconda solo alla Spagna per l’incremento nel numero di persone che hanno peggiorato la propria condizione.
L’Eurostat elabora un indice di “grave deprivazione materiale” basato su una “pluralità di sintomi di disagio”: impossibilità di fare fronte a scadenze economiche, di acquistare un bene durevole come un’automobile, una lavatrice o una tv, di trascorrere almeno una settimana all’anno in ferie, di fare almeno un pasto proteico ogni due giorni, ecc.
Mentre la condizione di “grave deprivazione materiale” in Europa cala da 41 milioni a 38 milioni e mezzo circa, in Italia esplode e passa da 4 milioni 403mila persone nel 2010 a 7 milioni 209mila nel 2016: un aumento del 63 per cento.
La “povertà assoluta” misurata dall’Istat passa da 1 milione 789mila persone nel 2007 a 4 milioni 742mila nel 2016.
Questi dati già di per sé clamorosi vanno però analizzati nella loro composizione. Se non stupisce l’incidenza maggiore della povertà nelle regioni meridionali, la divisione per classi di età dimostra come questa crisi abbia capovolto la situazione precedente.
La tabella a fianco mostra l’incidenza della povertà assoluta seconto le classi di età.
In altre parole oggi oltre un giovane su dieci vive in povertà assoluta, prima della crisi era uno su 50. Ancora peggiore la situazione fra i minorenni, con il 12,5 per cento del totale, ossia 1 milione 292mila, che vivono in povertà.
Le cause di tutto questo sono chiare come il sole. È il frutto di una politica pluridecennale che con la crisi ha assunto dimensioni esplosive. I capitoli di questo racconto dell’orrore si chiamano precarizzazione dilagante, disoccupazione di massa, legislazione del lavoro e contratti sindacali che hanno distrutto le tutele e i livelli salariali, intermittenza lavorativa, costi impossibili per beni primari a partire dall’abitazione, costi crescenti dell’istruzione secondaria e universitaria, distruzione dello Stato sociale…
Alcuni anni fa un ministro di centrosinistra insultava i giovani chiamandoli “bamboccioni” che non vogliono uscire dalla casa dei genitori. Ecco i risultati di uno studio della Fondazione Bruno Visentini: nel 2004 un giovane impiegava in media 10 anni per costruirsi una vita indipendente; nel 2020 ne impiegherà 18, nel 2030 addirittura 28. Indipendenti alla soglia dei 50 anni, quando in passato si iniziava a pensare alla pensione!
La stampa borghese e i centri studi parlano dei cosiddetti Neet, sigla che indica quei giovani che non lavorano né studiano o sono inseriti in percorsi formativi. Oggi i padroni e i loro politici e accademici si stracciano le vesti quando si pubblicano questi dati, ma in realtà disprezzano profondamente questa generazione che considerano composta di buoni a nulla, rinunciatari e incapaci di costruirsi un futuro.
Anche perché, parlano ancora le cifre, i loro rampolli sono ben al riparo: tra i giovani (15-34 anni) che accedono a una professione qualificata solo il 7,4 proverrà da una famiglia a basso reddito con stranieri, mentre il 63,1 per cento sarà figlio di quella che viene definita “classe dirigente”.
Per tutti gli altri non c’è futuro, neppure nelle promesse. Sono finiti i tempi in cui intellettuali e padri della patria, borghesi e accademici, parlavano pomposamente del futuro delle giovani generazioni, dell’importanza dello studio e dell’impegno individuale. Quel sistema formativo che secondo loro dovrebbe garantire l’accesso al lavoro, al reddito e quindi a un futuro dignitoso è stato a sua volta massacrato da vent’anni di controriforme e sottofinanziamento, di impoverimento dei contenuti e dei percorsi di studio. La cosiddetta Alternanza scuola-lavoro è l’applicazione più coerente del programma che la borghesia ha in serbo per i giovani: abbassare la testa e lavorare gratis accettando di andare ovunque ti mandino.
Si parla molto del lavoro qualificato, dell’innovazione, di industria 4.0. Ma da sempre l’automazione ha come effetto principale quello di dequalificare e impoverire la maggior parte delle mansioni, quando non di abolirle del tutto. Solo una piccola minoranza dei posti di lavoro creati dall’innovazione sono realmente qualificati, per l’addetto comune le doti più richieste sono solo l’adattabilità, la disponibilità ad accettare un comando aziendale che proprio la tecnologia rende sempre più capillare e assoluto.
Lo conferma, fonte non sospetta, il giornale di Confindustria, analizzando la condizione di laureati e diplomati (25-34enni i primi, 20-24enni i secondi): “L’istantanea scattata sui microdati Istat (…) restituisce l’immagine di 437mila giovani con un titolo di studio più elevato rispetto a quello richiesto per svolgere il lavoro per il quale sono stati assunti. Si tratta del 18 per cento dei diplomati e del 28 per cento dei laureati. (…) Numeri che scontano ancora gli effetti della crisi economica: il ‘plotone’ degli overeducated si è infatti allargato rispetto sia ai 372mila giovani del 2008 sia ai 398mila del 2015.
“Negli anni più recenti ha inciso l’avanzata della gig economy, l’economia dei ‘lavoretti’ che coinvolge tra i 600 e i 750mila lavoratori in Italia. Non si tratta solo dei riders che consegnano cibo a domicilio attraverso piattaforme digitali. Ci sono anche baby sitter e badanti, addetti alle pulizie, traduttori di testi, consulenti di design che propongono i propri servizi tramite il lavoro dato in outsourcing sul web.” (Il Sole 24 ore, 8 settembre).
Una generazione mandata al macello nella crisi del capitalismo: questo è il significato di queste cifre. Poi arriveranno gli esperti a parlarci di giovani che non sanno cosa fare della propria vita, di depressione, di mancanza di ideali e di partecipazione, e tutto il restante del campionario dell’ipocrisia dominante, declinabile a seconda dei gusti nelle varianti cattolica umanitaria, efficientista, paternalista, autoritaria…
Ma queste cifre non sono solo l’illustrazione di un degrado sociale. Hanno anche un profondo significato politico. Il sistema ha abbandonato le giovani generazioni, non crede più nel futuro e non ha nulla da offrire. A loro volta i giovani stanno rompendo con questo sistema, coi suoi valori, la sua ideologia, con il mondo che il capitalismo ha creato attorno a loro. La carriera non è più lo sbocco per i figli più intraprendenti delle classi subalterne, la classe dominante si è recintata nei suoi privilegi sempre più irraggiungibili per la stragrande maggioranza della popolazione.
E non saranno certo le aspirine proposte dai 5 Stelle a curare questo cancro che corrode la società non solo nel nostro paese, ma a livello internazionale.
Il socialismo non è una fisima ideologica, ma l’unica alternativa reale al degrado sociale e culturale dell’umanità che la crisi capitalistica rende sempre più dilagante.
Sono maturi i tempi per una nuova rivolta, un nuovo ’68 che come e più di cinquant’anni fa scuota da cima a fondo un mondo marcio e si apra la strada verso il futuro, verso un sistema in cui il potere assoluto del capitale venga distrutto e in cui “il libero sviluppo di ciascuno sarà condizione del libero sviluppo di tutti”.