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Al referendum che si terrà l’8 e il 9 giugno relativi alla cancellazione di norme sul lavoro e alla cittadinanza andiamo a votare Si. I quesiti sono 5.
Il primo quesito riguarda l’abrogazione della disciplina del Jobs Act in materia di sanzioni per licenziamento illegittimo (per le imprese con più di 15 dipendenti).
La legge “manifesto” del governo Renzi, a riprova della sua palese ingiustizia, è stata già modificata e depotenziata da numerosissimi interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione avvicinandolo a quello dell’Articolo 18 nella sua formulazione sfigurata dalla riforma Fornero del 2012.
Il fatto che a essere ripristinata, in caso di vittoria, sarebbe quest’ultima – e non già l’Articolo 18 “originale”, che prevedeva la reintegrazione nel posto di lavoro in tutti i casi di licenziamento illegittimo – indebolisce oggettivamente la portata del referendum. Tuttavia, in merito ai licenziamenti illegittimi, il Jobs Act prevede ancora unicamente un risarcimento anziché la reintegrazione, che invece era prevista dall’Articolo 18 originario. In secondo luogo, anche l’importo dei risarcimenti ottenuti in tribunale è mediamente diminuito nel passaggio dall’Articolo 18 al Jobs Act: nell’esperienza concreta, pesa di più la diminuzione della soglia minima (era 12, ora è 6 mensilità di retribuzione) rispetto all’innalzamento della soglia massima, che è di fatto soltanto teorica.
Il secondo quesito riguarda l’abrogazione del limite di 6 mensilità al risarcimento per i licenziamenti illegittimi nelle imprese con meno di 16 dipendenti. Anche questa norma è stata introdotta dal Jobs Act.
L’Articolo 18 si applica soltanto ai dipendenti delle imprese con più di 15 dipendenti. Tutti gli altri lavoratori, in caso di licenziamento dichiarato illegittimo, possono ottenere soltanto un risarcimento del danno compreso fra 2,5 e 6 mensilità di retribuzione. Un risarcimento vergognosamente ridicolo.
Non si contano, ad esempio, i “piccoli” imprenditori che spezzettano la propria azienda in tre o quattro società formalmente separate, in modo che nessuna superi i 15 dipendenti, al solo scopo di evitare di applicare l’Articolo 18.
Sarebbe più efficace estendere l’Articolo 18 a tutti i lavoratori, ma questo non toglie che la vittoria del referendum renderebbe un po’ meno semplici i licenziamenti nelle piccole aziende.
Il terzo quesito punta al ripristino dell’obbligo della causale per tutti i contratti a tempo determinato.
La stipula di contratti a tempo determinato di durata inferiore invece è completamente libera e non necessità di causali. La maggior parte dei contratti a termine hanno durata breve o brevissima (spesso anche poche settimane, quando non addirittura pochi giorni).
Abrogando il riferimento ai contratti “liberi” di durata inferiore a un anno, con la vittoria del referendum, si tornerebbe in buona sostanza alla normativa precedente non solo al Jobs Act ma anche alla riforma Fornero: una disciplina che consentiva ai lavoratori di impugnare i contratti a termine denunciando l’assenza di reali e legittime motivazioni, ottenendo per questa via, nella maggior parte dei casi, la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato e un risarcimento del danno renderebbe quanto meno più rischioso per le imprese abusare dei contratti a tempo determinato.
Il quarto quesito mira a estendere la responsabilità del committente a tutti i danni da infortuni sul lavoro negli appalti.
Attualmente il Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro prevede che, in caso di appalto, il committente possa essere chiamato a risarcire soltanto i danni che non siano “conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.
In pratica, se mi faccio male perché scivolo sul ghiaccio dentro il cantiere è tenuto a risarcirmi anche il committente, ma se l’appalto riguarda la movimentazione della merce e mi faccio male perché mi viene addosso un muletto, no. E se la cooperativa datrice di lavoro fallisce (prima della fine di una causa che difficilmente dura meno di un paio d’anni), rimango con il cerino in mano. Questa disparità di trattamento – oltretutto dal confine incerto – crea un vuoto di tutela che è precisamente quello che il quesito referendario punta a eliminare. Una norma odiosa quella per cui il committente (ossia l’azienda che appalta) non è responsabile della morte di lavoratori in appalto.
Il quinto quesito, sulla cittadinanza, ridurrebbe i tempi per la richiesta di tale da 10 a 5 anni. Per la verità attualmente i tempi per ottenere la cittadinanza sono mediamente di 13 anni, i tempi burocratici che ostruiscono tale diritto determinano una condizione di ricatto per milioni di lavoratori immigrati. L’abrogazione dell’attuale norma avrebbe un impatto significativo sulle loro condizioni di vita.
I limiti dei quesiti e la necessità di lottare
I quesiti, in particolare i 4 sul lavoro, hanno dei limiti importanti. Oltre alla loro parzialità determinata dai quesiti stessi, non consentono una totale tutela dei lavoratori contro i licenziamenti, non aboliscono la precarietà e non cancellano il sistema degli appalti. E del resto non potrebbe essere un referendum a porsi questo obiettivo!
Andare a votare SI è un segnale politico contro la canea reazionaria che, a più voci, difendono il Jobs Act e le attuali condizioni. Tuttavia, come Area di Alternativa “Giornate di Marzo” abbiamo criticato aspramente la strategia referendaria della CGIL. I lavoratori, in occasione dello sciopero generale, e delle altre mobilitazioni – dei trasporti pubblici locali, dell’automotive, dei metalmeccanici, della sanità, per citarne solo alcune – avevano dimostrato una grande disponibilità a lottare e ad avviare davvero una rivolta sociale. “Il voto è la nostra rivolta”, slogan lanciato dalla CGIL, ha nei fatti disarmato i lavoratori in lotta incanalandoli su un terreno tutto istituzionale, illusorio e sfavorevole per i lavoratori. E’ sotto gli occhi di tutti la campagna di boicottaggio del referendum di Confindustria, Cisl, governo e buona parte dell’opposizione politica.
Le importanti risorse economiche e umane su cui la CGIL sta investendo dovrebbero essere impiegate nella costruzione di un percorso di lotta reale per invertire davvero la tendenza, sconfiggere il governo e le sue politiche e per un cambiamento vero delle condizioni dei lavoratori.