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Rapporto sulla crisi economica mondiale e i nuovi compiti dell’Internazionale Comunista (1921)

 Questo discorso è stato pronunciato da Trotskij al terzo congresso dell’Internazionale Comunista ed assume una particolare rilevanza alla luce della situazione attuale.

 La Redazione

 

di Lev Trotskij

 

Con la guerra imperialista siamo entrati nell’epoca della rivoluzione, nell’epoca cioè in cui i pilastri stessi dell’equilibrio capitalistico sono scossi e stanno crollando. L’equilibrio capitalistico è un fenomeno estremamente complesso. Il capitalismo produce questo equilibrio, lo spezza, lo ristabilisce per spezzarlo di nuovo, estendendo contemporaneamente l’ambito della sua dominazione. Nella sfera economica queste continue rotture e questi continui ristabilimenti dell’equilibrio assumono la forma di crisi e di boom. Nella sfera dei rapporti tra le classi la rottura dell’equilibrio assume la forma di scioperi, serrate, lotte rivoluzionarie. Nella sfera dei rapporti tra Stati la rottura dell’equilibrio significa guerre: in forma più moderata guerre doganali, guerre economiche o blocchi. Così il capitalismo è caratterizzato da un equilibrio dinamico, un equilibrio che è sempre in fase di rottura o in fase di ristabilimento. Ma contemporaneamente questo equilibrio possiede una grande capacità di resistenza: la prova migliore consiste nel fatto che sino ad oggi il mondo capitalista non è stato rovesciato.

L’ultima guerra imperialista è stata un avvenimento che abbiamo giustamente considerato un colpo gigantesco, senza precedenti nella storia, all’equilibrio del mondo capitalista. Dalla guerra è effettivamente cominciata l’epoca dei più grandi movimenti di massa e delle più grandi battaglie rivoluzionarie. La Russia, l’anello più debole della catena capitalista, è stata la prima a perdere il proprio equilibrio e la prima ad avviarsi sulla via della rivoluzione nel 1917, nel mese di febbraio.

La nostra rivoluzione di febbraio ha avuto grandi ripercussioni tra le masse operaie inglesi. In Inghilterra il 1917 è stato l’anno del più grande sciopero grazie al quale il proletariato inglese è riuscito a contrastare il processo di peggioramento delle condizioni di vita delle masse provocato dalla guerra. Nell’ottobre del 1917 la classe operaia russa ha preso il potere. Gli scioperi si sono estesi a tutto il mondo capitalista, cominciando dai paesi neutrali. Nell’autunno del 1918 il Giappone è passato attraverso una fase di tumultuosi disordini “per il riso”, che, secondo certi dati, hanno coinvolto oltre il 25% della popolazione e che sono stati fronteggiati con crudeli repressioni da parte del governo del Mikado. Nel gennaio del 1918 scioperi di massa hanno avuto luogo in Germania. Verso la fine del 1918, in seguito al crollo del militarismo tedesco, hanno avuto luogo rivoluzioni in Germania e nell’Austria Ungheria. Il movimento rivoluzionario continuava ad espandersi. Sopraggiungeva l’anno più critico per il capitalismo, almeno per il capitalismo europeo: il1919. Nel marzo del 1919 una repubblica sovietica è stata proclamata in Ungheria. Nel gennaio e nel marzo del 1919 sono scoppiate dure battaglie tra operai rivoluzionari e repubblica borghese in Germania. In Francia si è creata una tensione durante il periodo della smobilitazione, ma le illusioni nella vittoria e le speranze nei suoi frutti d’oro sono rimaste molto forti: le lotte non hanno neppure incominciato ad avvicinarsi ai livelli raggiunti nei paesi conquistati. Negli Stati Uniti, verso la fine del 1919, gli scioperi hanno assunto una grande ampiezza, estendendosi ai ferrovieri, ai minatori, ai siderurgici ecc. Il governo Wilson ha scatenato una selvaggia repressione contro la classe operaia.

Nella primavera del 1920 in Germania un tentativo di imporre la controrivoluzione con il putsch di Kapp ha mobilitato e stimolato alla lotta la classe operaia. L’intenso ma disorganico movimento degli operai tedeschi è stato, tuttavia, schiacciato nuovamente senza pietà da quella repubblica di Ebert che gli operai stessi avevano salvato. In Francia la situazione politica ha raggiunto il punto di massima tensione nel maggio dello scorso anno durante la proclamazione dello sciopero generale che, sia detto di passata, è stato ben lungi dall’essere effettivamente generale ed è stato scarsamente preparato e, quindi, tradito dai dirigenti opportunisti che non volevano lo sciopero ma non osavano dirlo… Nell’agosto l’avanzata dell’Esercito rosso su Varsavia — parte integrante della lotta rivoluzionaria internazionale — ha subito un insuccesso. Nel settembre gli operai italiani, prendendo sul serio l’agitazione rivoluzionaria verbale del Partito socialista, hanno occupato le fabbriche e gli stabilimenti, ma sono stati vergognosamente traditi dal partito, hanno subito una sconfitta su tutta la linea e si sono trovati esposti alla spietata controffensiva della reazione unita. Nel dicembre ha avuto luogo uno sciopero rivoluzionario di massa in Cecoslovacchia. Infine, all’inizio del presente anno, sono scoppiate lotte rivoluzionarie, con un prezzo elevato di vittime, nella Germania centrale; l’Inghilterra ha visto il rilancio dell’ostinato sciopero dei minatori, oggi non ancora terminato; uno sciopero generale è scoppiato in Norvegia.

Quando nella prima fase del dopoguerra abbiamo constatato lo sviluppo del movimento rivoluzionario, molti di noi hanno potuto credere — e con una sostanziale giustificazione storica — che questo movimento in continua ascesa e in continuo rafforzamento avrebbe condotto direttamente alla conquista del potere da parte della classe operaia. Ma ormai tre anni sono trascorsi dalla fine della guerra. Con la sola eccezione della Russia, il potere resta nelle mani della borghesia. Nel frattempo il mondo capitalista non è certo rimasto fermo. Ha subito mutamenti. L’Europa e il mondo intero sono passati attraverso un periodo di smobilitazione postbellica, un periodo di estrema tensione e di estremo pericolo per la borghesia a causa della smobilitazione degli uomini e della smobilitazione delle cose, cioè dell’industria, un periodo di selvaggio boom commerciale postbellico seguito da una crisi che non è ancora finita. E ora dobbiamo porci in tutta la sua portata la domanda: la tendenza continua ad essere effettivamente verso la rivoluzione? O è necessario riconoscere che il capitalismo è riuscito a far fronte alle difficoltà derivanti dalla guerra? E se ancora non è riuscito a farlo, sta ristabilendo ora o è prossimo a ristabilire il proprio equilibrio su nuove basi postbelliche?

La borghesia ottiene un momento di respiro

Se, prima di analizzare il problema nei suoi aspetti economici fondamentali, lo affrontiamo in termini puramente politici, dobbiamo cogliere una serie di sintomi, di fatti e di prese di posizione che provano che la borghesia, come classe al potere, si è rafforzata e stabilizzata o, quanto meno, ha questa sensazione. Nel 1919 la borghesia europea era in uno stato di estrema confusione. Erano i giorni del panico, della folle paura del bolscevismo che era considerato come una apparizione estremamente confusa e quindi tanto più terrificante e che era raffigurato nei manifesti parigini con l’immagine di un assassino con il coltello tra i denti… In realtà, lo spettro del bolscevismo era l’incarnazione della paura della borghesia europea di dover pagare i suoi crimini di guerra. La borghesia era, comunque, consapevole di quanto poco i risultati della guerra corrispondessero alle promesse che aveva fatto. Sapeva il costo esatto della guerra in vite umane e in ricchezze. Temeva una resa dei conti. L’anno 1919 è stato senza dubbio il più critico per la borghesia. Nel 1920 e nel 1921 possiamo cogliere una graduale ripresa della fiducia in se stessa da parte della borghesia e contemporaneamente un riconsolidamento incontestabile del suo apparato statale, che immediatamente dopo la guerra, in vari paesi, per esempio, in Italia, era effettivamente alla vigilia della disgregazione. La ripresa di fiducia della borghesia in se stessa ha assunto la forma più evidente in Italia dopo il vile tradimento del Partito socialista nel settembre scorso. La borghesia pensava di avere a che fare con orribili banditi ed assassini e invece ha trovato dei codardi!

A causa della malattia che mi ha tenuto lontano dal lavoro attivo nell’ultimo periodo, ho avuto occasione di leggere molti giornali stranieri e ho accumulato tutto un dossier di ritagli che indicano eloquentemente il nuovo stato d’animo della borghesia e la sua nuova valutazione della situazione politica mondiale. Tutte le indicazioni vanno nello stesso senso: la fiducia in sé stessa della borghesia è indubbiamente molto maggiore che nel 1919 e anche che nel 1920.

Con vostra licenza voglio fare alcune citazioni molto istruttive. Il Neue Ziircher Zeitung, un giornale conservatore svizzero piuttosto misurato, che ha seguito con grande interesse e con notevole acutezza gli sviluppi politici in Germania, in Francia e in Italia, a proposito degli avvenimenti del marzo1921 in Germania ha dichiarato quanto segue:

“La Germania del 1921 non assomiglia affatto alla Germania del 1918. La decisione del governo è divenuta tale che i metodi comunisti si sono scontrati con l’opposizione di quasi tutti gli strati della popolazione, benché il numero dei comunisti, che nei giorni della rivoluzione erano un pugno di uomini decisi, sia successivamente cresciuto tumultuosamente.”

Il 28 aprile, mentre i due campi si stavano preparando per il primo maggio, il giornale parigino Le Temps scriveva:

“Basta guardare la strada percorsa nell’ultimo anno per sentirsi completamente rassicurati. L’anno scorso il primo maggio era stato impostato come l’inizio di uno sciopero generale che a sua volta avrebbe dovuto portare alla prima fase della rivoluzione. Oggi c’è assoluta fiducia negli sforzi della nazione per superare tutte le crisi derivate dalla guerra.”

Lo stesso Neue Zürcher Zeitung ha scritto quanto segue a proposito della situazione in Italia nell’aprile di quest’anno:

Anno 1919: i partiti borghesi, alla vigilia del collasso definitivo, in uno stato di divisione senza speranza e di rassegnazione suicida, sono in piena ritirata dinanzi all’energico attacco delle disciplinate forze rosse. Anno 1921: le coorti borghesi fortemente coese e fiduciose nella vittoria affrontano la battaglia contro i bolscevichi che sono completamente demoralizzati e non osano muoversi. E questo grazie ai fascisti.

L’esempio successivo viene da una fonte completamente diversa, cioè da una citazione da una risoluzione del Partito comunista fratello della Polonia.

Se non mi sbaglio, questo partito ha tenuto una conferenza in aprile, adottando la decisione di partecipare alle future elezioni parlamentari. Ecco la motivazione della decisione presa:

“Dopo la svolta dell’inverno del 1918, quando la lotta ha cominciato a volgere a favore della borghesia che proprio allora era riuscita a rimettere in piedi il suo apparato statale, dopo che i soviet operai sono stati schiacciati dal governo con la collaborazione del Partito socialista polacco, dopo tutto questo il partito si vede costretto ad usare la battaglia elettorale e la tribuna del Sejm.”

Non si può certo dire che il Partito comunista polacco abbia rimesso in discussione la sua posizione di principio. Ha valutato la situazione attuale diversa da quella del 1919.

La situazione oggettiva dei partiti socialdemocratici rispetto allo Stato e ai partiti borghesi ha subito pure, di conseguenza, dei mutamenti. Dovunque i socialdemocratici vengono cacciati dai governi. Se vi ritornano è solo temporaneamente e per pressioni esterne, come è accaduto in Germania. Il Partito indipendente tedesco ha fatto una svolta a destra, sempre sotto l’influenza diretta o indiretta della nuova situazione, di cui tende a esagerare grandemente la portata. Gli indipendenti e i socialdemocratici di tutti i paesi, che sembravano tanto diversi sino ad un anno o ad un anno e mezzo fa, si sono oggi riavvicinati con la collaborazione di Amsterdam. Così l’accresciuta fiducia della borghesia in se stessa come classe è del tutto fuori discussione; ed è ugualmente fuori discussione l’effettivo riconsolidamento dell’apparato statale poliziesco postbellico. Ma di per sé questo fatto, benché importante, è lungi da risolvere la questione; e in ogni caso inostri nemici vanno troppo in fretta quando vogliono trarre la conclusione che il nostro programma è di fronte a una bancarotta. Certo, abbiamo sperato che la borghesia fosse rovesciata nel 1919. Ma non eravamo affatto sicuri; e non abbiamo affatto costruito e fondato il nostro programma di azione su una simile scadenza. Quando il signor Otto Bauer e altri teorici della II Internazionale e dell’Internazionale Due e Mezzo dicono che le nostre previsioni si sono dimostrate completamente false, qualcuno potrebbe pensare che si tratti di previsioni di carattere astronomico: come se ci fossimo sbagliati in calcoli matematici circa il giorno di una eclissi solare, dimostrandoci così astronomi scadenti! Ma in realtà le cose non stanno affatto così. Non abbiamo pronosticato un’eclissi solare, cioè un avvenimento indipendente dalla nostra volontà e del tutto indipendente dalle nostre azioni: si trattava di un avvenimento storico che può prodursi e si produrrà con la nostra partecipazione.

Quando parlavamo di una rivoluzione derivante dalla guerra mondiale, volevamo dire che intendevamo e intendiamo sfruttare la situazione creata dalla guerra mondiale per accelerare la rivoluzione in tutti i modi possibili. Il fatto che la rivoluzione sinora non abbia avuto luogo nel mondo o, quanto meno, in Europa, non significa affatto che l’Internazionale comunista abbia fatto bancarotta perché il programma dell’Internazionale comunista non si fonda su dati astronomici. Ogni comunista che abbia assimilato in una certa misura le nostre concezioni, lo capisce. Ma nella misura in cui la rivoluzione non è venuta nel vivo della situazione dell’immediato dopoguerra, la borghesia ha ovviamente sfruttato la possibilità di tirare il respiro che le è stata offerta, se non per superare ed eliminare le conseguenze più spaventose e più terribili della guerra, almeno per mascherarle, per attenuarle ecc. É riuscita a farlo? Parzialmente sì. In quale misura? Qui veniamo al punto essenziale della questione del ristabilimento dell’equilibrio capitalistico.

L’equilibrio mondiale è stato ristabilito?

Qual è la portata dell’equilibrio capitalistico di cui parla oggi con tanta sicurezza il menscevismo internazionale?

Per parte loro, i socialdemocratici non forniscono nessuna analisi di questo concetto di equilibrio. Non ne distinguono le componenti né danno alcuna spiegazione chiara. L’equilibrio del capitalismo comporta moltissimi fattori, eventi e fatti, alcuni fondamentali, altri secondari, altri ancora di terz’ordine. Il capitalismo è un fenomeno mondiale. Il capitalismo è riuscito ad estendersi a tutto il globo: e si è manifestato nella forma più acuta durante la guerra e durante il blocco, quando un paese, privo di mercati, produceva in eccedenza, mentre un altro che aveva bisogno di merci, non poteva procurarsele. E oggi questa interdipendenza di un mercato mondiale smembrato si manifesta dovunque. Il capitalismo, se consideriamo lo stadio raggiunto prima della guerra, si basa sulla divisione mondiale del lavoro e sullo scambio mondiale dei prodotti. L’America deve produrre una certa quantità di grano per l’Europa. La Francia deve produrre una certa quantità di prodotti di lusso per l’America. La Germania deve produrre una certa quantità di beni di consumo a buon mercato per la Francia. Ma questa divisione del lavoro non è un qualche cosa di stabile, non è data una volta per tutte. Si precisa storicamente ed è di continuo sconvolta dalle crisi e dalla concorrenza, per non parlare delle guerre doganali. E viene ristabilita ogni volta solo per essere nuovamente sconvolta. Tuttavia, l’economia mondiale come un tutto si fonda su una maggiore o minore divisione del lavoro tra i vari paesi che producono le merci necessarie. È proprio questa divisione mondiale del lavoro che è stata recisa alle radici dalla guerra. È stata ristabilita o no? Questo è un aspetto della questione.

In ciascun paese l’agricoltura fornisce all’industria i generi di prima necessità per gli operai e i beni per l’uso produttivo (materie prime), mentre l’industria fornisce alle campagne beni per uso domestico, beni di consumo e strumenti per la produzione agricola. Anche su questo piano si stabiliscono certi rapporti reciproci. Infine, nell’ambito dell’industria stessa, c’è la produzione di mezzi di produzione e la produzione di mezzi di consumo, e tra questi due settori fondamentali dell’industria si stabilisce un certo rapporto, che subisce continui sconvolgimenti per essere di continuo ristabilito su sempre nuove basi. La guerra ha spezzato drasticamente tutti questi rapporti e queste proporzioni, non fosse che per il fatto che nel corso della guerra l’industria dell’Europa e in larga misura anche quella dell’America e del Giappone hanno prodotto non beni di consumo e mezzi di produzione, ma mezzi di distruzione. Nella misura in cui beni di consumo hanno continuato ad essere prodotti, sono stati usati non tanto dagli operai che producevano, quanto da coloro che distruggevano, cioè dai soldati degli eserciti imperialisti. Ora, questi rapporti armonici tra città e campagna, e tra vari settori industriali nell’ambito di ciascun paese, questi rapporti che erano stati distrutti, sono stati o no ricostruiti?

Vediamo ora di considerare l’equilibrio tra le classi che si basa sull’equilibrio economico. Nel periodo prebellico prevaleva nei rapporti internazionali una condizione di cosiddetta tregua armata. Non solo nei rapporti internazionali: perché anche tra borghesia e proletariato esisteva una situazione di tregua armata, mantenuta con un sistema di contratti collettivi tra sindacati centralizzati e un capitale industriale ancor più centralizzato. Anche questo equilibrio è stato completamente sconvolto dalla guerra – ed è questo che ha determinato nel mondo intero un colossale movimento di scioperi. Il relativo equilibrio di classe della società borghese in assenza del quale la produzione è impensabile, è stato o no ristabilito? E se lo è stato, su quali basi?

L’equilibrio tra le classi è strettamente connesso all’equilibrio politico. Durante la guerra e anche prima della guerra – benché allora non ce ne fossimo resi conto – la borghesia ha mantenuto in equilibrio il suo meccanismo grazie ai socialdemocratici, ai socialpatrioti, che erano la più importante agenzia della borghesia e costringevano la classe operaia entro i limiti dell’equilibrio borghese. Solo grazie a questo la borghesia si è potuta avventurare nella guerra. Oggi, ha ristabilito di nuovo l’equilibrio del suo sistema politico? E in quale misura i socialdemocratici hanno mantenuto o dissipato la loro influenza tra le masse e per quanto tempo ancora potranno assolvere il loro ruolo di guardiani della borghesia? C’è poi il problema dell’equilibrio internazionale, cioè della coesistenza mondiale tra paesi capitalisti, senza la quale la ristabilizzazione dell’economia capitalistica è naturalmente impossibile. L’equilibrio su questo piano è stato raggiunto di nuovo oppure no?

Bisogna esaminare tutti questi diversi aspetti della questione per poter dire se la situazione mondiale rimane rivoluzionaria o se hanno ragione coloro che pensano che le nostre prospettive rivoluzionarie sono utopistiche.

La nostra analisi di ogni singolo aspetto della questione deve essere illustrata con un gran numero di fatti e di dati che è difficile riferire di fronte a una riunione così larga e che è difficile ricordare. Cercherò, quindi, di fornire solo i dati fondamentali necessari per avere un orientamento in merito.

Dati sul declino economico dell’Europa

È stata stabilita una nuova divisione mondiale del lavoro? Di importanza decisiva su questo piano è il fatto che il centro di gravità dell’economia capitalistica e del potere borghese si è spostato dall’Europa all’America. Questo è il dato di fatto fondamentale che ogni compagno deve avere senz’altro in mente per capire gli avvenimenti che si svolgono dinanzi a noi e quelli che si svolgeranno nel corso dei prossimi anni. Prima della guerra l’Europa era il cuore del mondo capitalista, era il maggiore mercato del globo, la sua principale industria e la sua principale banca. Gli industriali europei (prima gli inglesi e poi i tedeschi), i mercanti europei (fondamentalmente gli inglesi), gli usurai europei (prima gli inglesi e poi i francesi) erano i veri dirigenti dell’economia mondiale e quindi anche della politica mondiale. Oggi non è più così. L’Europa è stata ricacciata indietro.

Cerchiamo di tradurre in cifre, anche se con estrema approssimazione, lo spostamento del centro di gravità economico e le dimensioni del declino economico dell’Europa.

Comincerò con i dati più semplici e più elementari, quelli che riguardano la produzione mondiale di beni materiali.

Consideriamo innanzi tutto l’agricoltura. Se paragoniamo il raccolto del 1920 con il raccolto medio degli ultimi cinque anni prebellici, vediamo che è di circa 4.408.800 tonnellate al di sotto della media. In particolare, per quanto riguarda l’Europa coinvolta nella guerra, il raccolto è stato del 37% inferiore alia media dell’anteguerra, mentre nei paesi neutrali è rimasto ai livelli precedenti e nei paesi transoceanici è stato superiore del 21%. Prima della guerra la Russia gettava di solito sul mercato mondiale circa 200 milioni di quintali in media. Il mercato mondiale, quest’anno, è risultato impoverito di circa 240 milioni di quintali. Nonostante questo, le aziende americane dispongono attualmente di grandi quantità di grano rimaste invendute a causa del declino dei prezzi sul mercato mondiale.

Se prendiamo ora l’allevamento del bestiame, abbiamo un quadro pressoché identico. La produzione mondiale di bestiame resta virtualmente nelle stesse condizioni di prima della guerra. Nei paesi europei che hanno fatto la guerra, l’allevamento del bestiame si è notevolmente contratto. I paesi neutrali hanno mantenuto i livelli prebellici, mentre i paesi transoceanici li hanno considerevolmente accresciuti. Ma ora riscontriamo che i prezzi della carne sul mercato di Chicago – il più importante mercato della carne del mondo – si trovano al di sotto dei livelli prebellici. Nonostante la guerra e le perdite subite, la popolazione dei paesi belligeranti è oggi maggiore che prima della guerra. Ci sono 80 milioni di persone in più. La quantità di grano che affluisce sul mercato mondiale è diminuita di 240 milioni di quintali. È possibile trovare carne e cereali, tuttavia sono consumati scarsamente per mancanza di denaro. Ciò significa che il mondo è diventato più povero e più affamato. Questo è il primo dato di fatto nella sua elementare crudezza.

Se analizziamo il consumo mondiale di carbone, abbiamo un quadro quasi identico, ma con tratti più accentuati. Il consumo mondiale complessivo di carbone nel 1920 è stato pari al 97% del consumo totale del 1913, cioè ha subito una contrazione. Rispetto al periodo prebellico l’Europa ha prodotto il 18% in meno, mentre l’America del Nord ha aumentato la propria produzione del 13%. Lo stesso vale per il cotone. La quantità globale di tutti i prodotti è diminuita. L’Europa è in declino, l’America è in ascesa.

Prima della guerra, la ricchezza nazionale, cioè gli averi complessivamente considerati di tutti i cittadini e di tutti gli Stati coinvolti nell’ultimo conflitto, era valutata a circa 2.400 miliardi di marchi-oro. Il reddito annuo di questi paesi, cioè la quantità dei beni prodotti in un anno, era valutato a 340miliardi di marchi-oro. Quanto ha speso e distrutto la guerra? All’incirca 1.200 miliardi di marchi-oro, cioè non meno della metà di quanto i paesi belligeranti avevano accumulato nel corso di tutta la loro esistenza. Naturalmente le spese per la guerra sono state coperte in primo luogo con prelievi sul reddito corrente. Ma se consideriamo che durante la guerra il reddito nazionale di ciascun paese è diminuito anche di un terzo a causa della gigantesca diversione di manodopera, ne consegue che il reddito complessivo è ammontato annualmente a 225 miliardi di marchi-oro; e se consideriamo inoltre che tutte le spese non militari ne hanno inghiottito il 55%, ne deriva che le spese di guerra hanno potuto essere coperte con i redditi correnti per un totale di non più di 100 miliardi di marchi-oro all’anno. In quattro anni sono 400 miliardi di marchi-oro. Ciò significa un deficit di 800 miliardi di marchi-oro che hanno dovuto essere sottratti al capitale di base dei paesi belligeranti, in primo luogo rinunciando a reintegrare il loro apparato produttivo. La conclusione è, quindi, che dopo la guerra la ricchezza complessiva dei paesi belligeranti è ammontata non a 2.400 miliardi di marchi-oro, ma solo a1.600 miliardi, cioè un terzo in meno.

Tuttavia, non tutti i paesi belligeranti si sono impoveriti nella stessa misura. Al contrario, alcuni dei paesi belligeranti, cioè gli Stati Uniti e il Giappone, come vedremo, sono diventati più ricchi. Ma i paesi europei che hanno preso parte alla guerra, hanno perduto oltre un terzo della loro ricchezza nazionale e alcuni di essi – Germania, Austria Ungheria, Russia, Paesi balcanici – molto più della metà.

Come è noto, il capitalismo come sistema economico è pieno di contraddizioni. Durante la guerra queste contraddizioni hanno raggiunto proporzioni mostruose. Per procurarsi le risorse necessarie alla guerra lo Stato ha fatto ricorso essenzialmente a due misure: primo, emissione di cartamoneta, secondo, inondazione di prestiti. Così, come mezzo da parte dello Stato di succhiare dal paese effettivi beni materiali per poi distruggerli nella guerra, è entrata in circolazione una quantità sempre crescente dei cosiddetti titoli di credito (buoni del tesoro). Quanto maggiori diventavano le spese dello Stato, cioè quanto più i valori effettivi venivano distrutti, tanto maggiore era l’ammontare di pseudo-ricchezze, di valori fittizi che si accumulavano nel paese. La carta dei prestiti statali raggiungeva le dimensioni delle montagne. Superficialmente, poteva sembrare che il paese avesse accresciuto enormemente le sue ricchezze, mentre in realtà l’edificio economico veniva minato alle fondamenta, profondamente sconvolto e sospinto sull’orlo del collasso. I debiti dello Stato sono arrivati a circa 1.000 miliardi di marchi-oro, il che corrisponde al 62% dell’attuale ricchezza nazionale dei paesi belligeranti. Prima della guerra la circolazione totale di cartamoneta e di moneta creditizia ammontava press’a poco a 28 miliardi di marchi-oro; oggi oscilla tra i 220 e i 280 miliardi, cioè si è moltiplicata per dieci; questo escludendo la Russia, poiché stiamo discutendo solo del mondo capitalista.

Quello che abbiamo detto riguarda principalmente, se non esclusivamente, i paesi europei, soprattutto l’Europa continentale e in modo più specifico l’Europa centrale. Nel suo insieme l’Europa continua a impoverirsi, viene sepolta sotto uno strato sempre più denso di valori cartacei o, in altri termini, di capitali fittizi. Il capitale fittizio – cartamoneta, buoni del tesoro, prestiti di guerra, banconote ecc. – rappresenta o il ricordo di un capitale deceduto o l’aspettativa di un capitale di là da venire. Ma per il momento non corrisponde affatto a un capitale effettivamente esistente. Tuttavia, funziona come capitale e come moneta e questo tende a fornire un quadro incredibilmente distorto della società e dell’economia contemporanee nel loro insieme. Quanto più l’economia si impoverisce, tanto più ricca è l’immagine riflessa nello specchio del capitale fittizio. Contemporaneamente, la creazione di capitale fittizio fa sì che, come vedremo, le classi partecipino in modo diverso alla distribuzione di un reddito nazionale che si contrae gradualmente. Il reddito nazionale si è pure contratto, ma non nella stessa misura della ricchezza nazionale. La spiegazione di questo fatto è molto semplice: la candela dell’economia capitalistica stava bruciando alle due estremità. Per finanziare la guerra e l’economia statale postbellica, hanno drenato non solo il reddito nazionale, ma anche le risorse di base della ricchezza nazionale.

Quando un governo emette un prestito a scopi produttivi, per esempio, per il canale di Suez, dietro i particolari buoni del governo c’è un valore reale. Il canale di Suez assicura il transito delle navi, percepisce pedaggi, fornisce reddito e, ingenerale, partecipa all’attività economica. Ma quando un governo galleggia sui prestiti di guerra, i valori mobilitati con questi prestiti sono soggetti a distruzione e nel corso del processo altri valori vengono annullati. Nel frattempo, i buoni di guerra restano nelle tasche e nei portafogli dei cittadini. Lo Stato è debitore di centinaia di miliardi. Queste centinaia di miliardi esistono come ricchezza cartacea nelle tasche di coloro che hanno fatto credito al governo. Ma dove sono i miliardi reali? Non esistono più. Sono stati bruciati. Sono stati distrutti. Quale speranza possono avere i detentori dei titoli? Se sono francesi, sperano che la Francia riesca a estorcere miliardi alla Germania e pagare così i propri creditori.

Per molti aspetti la devastazione subita dalle fondamenta e dagli apparati produttivi dei paesi capitalisti è stata molto più vasta di quanto non si possa stabilire sulla base delle statistiche. Ciò appare nel modo più chiaro per quanto riguarda le abitazioni. Tutte le energie del capitalismo — a causa dei frenetici profitti bellici e postbellici — si sono indirizzate verso la produzione di nuovi prodotti per uso personale o militare, mentre la ricostruzione dell’apparato produttivo di base è stata sempre più trascurata. Lo si è visto del tutto chiaramente nelle costruzioni urbane. Le vecchie case sono state riparate in modo insufficiente e di case nuove ne sono state costruite in misura insignificante. Di qui la terribile mancanza di abitazioni in tutto il mondo capitalista. Data la presente crisi la distruzione dell’apparato produttivo può non apparire in tutta la sua evidenza in quanto i maggiori paesi capitalisti stanno utilizzando solo per una metà o per un terzo le loro capacità produttive. Ma sul piano delle abitazioni, dato il costante aumento della popolazione, la disorganizzazione dell’apparato economico si manifesta in tutta la sua portata. L’America, l’Inghilterra, la Germania, la Francia hanno bisogno di centinaia di migliaia, se non di milioni di appartamenti. Ma il lavoro necessario non può essere intrapreso a causa degli insormontabili ostacoli creati dall’impoverimento universale. L’Europa capitalista deve stringere e stringerà la cintura, deve ridurre e ridurrà la portata delle sue operazioni, deve ridurre e ridurrà per molti anni il suo livello di vita.

Come ho già detto, nel quadro di universale impoverimento dell’Europa, i vari paesi si sono impoveriti in misura diversa. Prendiamo la Germania come il paese che ha più sofferto tra le più grandi potenze capitaliste. Citerò alcuni dati statistici di fondo per quanto riguarda la posizione della Germania prima della guerra ed oggi. Questi dati non sono molto precisi. Un calcolo statistico della ricchezza nazionale e del reddito nazionale è una cosa molto difficile nelle condizioni di anarchia capitalistica. Una verifica reale del reddito e della proprietà sarà possibile solo con il socialismo, una verifica in termini di unità di lavoro umano; naturalmente, parliamo di una società socialista con un meccanismo bene organizzato e funzionante, cosa da cui, per parte nostra, siamo ancora molto, molto lontani. Ma anche i dati poco precisi possono essere utilizzati nella misura in cui ci permettono di valutare con approssimazione i mutamenti intervenuti nella posizione economica della Germania e di altri paesi nel corso degli ultimi sei o sette anni.

Alla vigilia della guerra la ricchezza nazionale della Germania era valutata a 225 miliardi di marchi-oro, mentre il reddito prebellico più elevato era stato di 40 miliardi. Prima della guerra la Germania, come è noto, si arricchiva molto rapidamente. Nel 1896 il suo reddito era di 22 miliardi. Nei diciotto anni tra il 1896 e il 1913 questo reddito è cresciuto di 18 miliardi, cioè a un ritmo di un miliardo all’anno. Questi diciotto anni hanno segnato, in linea generale, un periodo di grande prosperità capitalistica in tutto il mondo e in Germania in particolare. Oggi la ricchezza nazionale della Germania è valutata a 100 miliardi di marchi, mentre il reddito nazionale è di 16 milioni, cioè al 40% del livello prebellico. È vero, la Germania ha perduto una parte del suo territorio, ma le perdite maggiori sono connesse alle spese di guerra e al saccheggio postbellico del paese. Secondo i calcoli dell’economista tedesco Richard Calwer la produzione delle merci nel 1907 equivaleva a una produttività del lavoro di 11,3milioni di operai. Dopo di allora le condizioni di lavoro hanno subito un drastico mutamento. C’è stata una riduzione nel tempo di lavoro, l’intensità del lavoro è diminuita e via di seguito. Così egli arriva alla conclusione che la forza-lavoro della Germania, espressa in unità del 1907, ammonta a 4,8milioni, cioè non più del 42%.

Nell’analisi dell’agricoltura Calwer ottiene lo stesso risultato. Così i calcoli di Calwer confermano completamente i dati che ho citato. Nel frattempo il debito nazionale della Germania ha raggiunto i 250 miliardi di marchi, cioè è due volte e mezzo maggiore dell’odierna ricchezza nazionale della Germania. Per di più sono state imposte alla Germania riparazioni per un ammontare di 132 miliardi di marchi. Se gli inglesi e i francesi chiedessero il pagamento integrale e immediato di questa somma, si metterebbero in tasca tutta la Germania cominciando dalle miniere di Stinnes e finendo coni gemelli delle camicie del presidente Ebert. L’emissione di cartamoneta ha raggiunto attualmente in Germania gli 81miliardi di marchi, dei quali non più di 5 hanno una copertura aurea. Di conseguenza, il marco tedesco non vale oggi più di 6 o 7 centesimi.

Senza dubbio la Germania del dopoguerra ha ottenuto grandi successi sul mercato mondiale, esportando le sue merci a prezzi estremamente bassi. Ma, mentre questi prezzi estremamente bassi significano per i mercanti e per gli esportatori grossi profitti, per la popolazione tedesca nel suo insieme significano, in ultima analisi, la rovina dato che i bassi prezzi sul mercato mondiale comportano bassi salari e denutrizione degli operai, sussidi statali per il grano e regolamentazione degli affitti — da cui deriva il blocco completo della costruzione di case, la riduzione al minimo delle riparazioni ecc. Così per ogni prodotto tedesco venduto a basso prezzo sul mercato viene sottratta una certa parte della ricchezza nazionale tedesca per cui il paese non riceve in cambio nulla di equivalente.

Per “rilanciare” l’economia tedesca è necessario stabilizzare la sua moneta, cioè è necessario arrestare l’emissione di cartamoneta addizionale e ridurre la quantità già in circolazione. E per far questo è necessario sospendere il pagamento dei debiti, cioè dichiarare la bancarotta dello Stato.1

Ma questa misura implica di per se stessa una violenta rottura dell’equilibrio nella misura in cui comporta un trasferimento di ricchezza dagli attuali detentori ad altre mani e provoca in tal modo un’aspra lotta di classe per una nuova distribuzione del reddito nazionale. Nel frattempo la Germania diventa più povera e continua a declinare.

Prendiamo ora un paese vincitore, la Francia.

Stando alle chiacchiere dei giornali borghesi, la Francia è un paese che sta guarendo le sue ferite. È innegabile che incerti campi la Francia ha riportato qualche successo nel periodo postbellico. Ma esagerare questi successi significa commettere un grosso errore. È molto difficile citare statistiche sull’economia francese perché in Francia sono tenute nascoste molte più cose che negli altri paesi. Questo è opera sia della borghesia sia del governo francese. Va detto che la stampa capitalista francese mente più di qualsiasi altra e ciò vale probabilmente anche per le statistiche economiche.

Citerò ora alcuni dati che gli economisti francesi producono orgogliosamente per dimostrare che l’economia capitalista è stata ristabilizzata. Consideriamo il settore agricolo.
Prima della guerra la Francia produceva annualmente 86 milioni di quintali di grano, 52 milioni di quintali di avena, 132 milioni di quintali di patate. Nel 1919 il raccolto del grano è stato di 50 milioni, mentre l’ultimo raccolto (1920) è stato di 63 milioni. Per le patate, il raccolto è stato di 77 milioni nei 1919 e di 103 milioni lo scorso anno.

Vediamo l’allevamento del bestiame. Nel 1913 c’erano approssimativamente 15 milioni di capi di bestiame bovino, mentre oggi ce ne sono 12,8 milioni. I cavalli erano 7 milioni nel 1913, oggi sono 4,6 milioni. Le pecore erano 16 milioni nel 1913, oggi sono 9 milioni. I maiali erano 7 milioni, oggi sono 4 milioni. Un netto declino.

Consideriamo il carbone, un prodotto molto importante e fattore chiave per l’industria. Nel 1913 la Francia estraeva 41 milioni di tonnellate di carbone; nel 1919 ne ha estratte 22 milioni; nel 1920, 25. Se includiamo l’Alsazia e la Lorena e il bacino della Saar, la produzione del 1919 è stata di 35,6 milioni di tonnellate. Qui c’è, dunque, un aumento. Anche con questo aumento, però, la produzione di carbone resta molto al di sotto del livello prebellico. Ma come hanno potuto essere raggiunti questi successi piuttosto modesti? Nell’agricoltura sono stati principalmente il risultato del tenace e diligente lavoro del contadino francese. Sul piano puramente capitalistico sono stati ottenuti principalmente saccheggiando la Germania, sottraendole le sue vacche, il suo grano, le sue macchine, le sue locomotive, il suo oro e soprattutto il suo carbone.

Da un punto di vista economico generale non vi è qui nessun elemento positivo poiché c’è stato principalmente un trasferimento di vecchi valori e non una creazione di valori nuovi. Inoltre dobbiamo aggiungere che le perdite della Germania sono state da una volta e mezza a due volte maggiori degli utili della Francia.

Così abbiamo scoperto che, pur avendo spogliato la Germania delle zone chiave per la produzione metallurgica e carbonifera, la Francia non ha raggiunto i livelli prebellici. Esaminiamo ora il commercio estero francese.

La bilancia commerciale è estremamente indicativa dell’equilibrio economico mondiale, cioè dello stato degli scambi tra i vari paesi. Un paese capitalista si considera in posizione favorevole se esporta più di quanto non importi. La differenza è pagata in oro. Una simile bilancia è considerata attiva. Quando un paese è costretto a importare più di quanto non esporti, la bilancia è passiva e il paese in questione deve aggiungere alle sue esportazioni una parte delle sue riserve auree. Le riserve auree cominciano ad assottigliarsi e il sistema monetario e creditizio del paese comincia a essere gradualmente minato. Se prendiamo la Francia degli ultimi due anni, 1919 e 1920, cioè dei due anni di lavoro di «ricostruzione» da parte della borghesia francese, riscontriamo che nel 1919 la bilancia commerciale è stata in passivo per l’ammontare di 24 miliardi di franchi, mentre nel 1920 il deficit è ammontato a 13 miliardi. Prima della guerra, la borghesia francese non aveva mai visto simili dati, neppure nei sogni più terrificanti. In due anni il deficit commerciale è salito a 27 miliardi. È vero che nel primo quadrimestre del corrente anno la Francia è riuscita a non avere passivi della bilancia commerciale, cioè è riuscita a equilibrare importazioni ed esportazioni. A questo proposito alcuni economisti borghesi hanno cominciato a suonare la grancassa; la Francia, prendetene nota, stava ristabilendo la sua bilancia commerciale. Ma il principale organo della borghesia francese Le Temps ha scritto a questo proposito il 18 maggio:

“Vi sbagliate, non abbiamo dovuto sborsare oro durante questo trimestre solo perché abbiamo importato molto poche materie prime. Ciò significa semplicemente che nell’ultima parte di quest’anno esporteremo i pochi prodotti che abbiamo manifatturato con materie prime straniere e materie prime americane in particolare. Di conseguenza, se nel corso di questo trimestre siamo riusciti ad avere una bilancia commerciale favorevole, nel prossimo periodo il deficit commerciale inevitabilmente aumenterà.”

Così la bilancia commerciale non è migliorata grazie a un rilancio dell’economia o a un aumento delle esportazioni, ma in seguito a una diminuzione dell’importazione di materie prime, cioè a prezzo di un abbassamento della produzione futura.

Prima della guerra il totale della carta moneta in circolazione era inferiore ai 6 miliardi di franchi; oggi è di oltre 38 miliardi. Per quanto riguarda il potere di acquisto del franco, il giornale che abbiamo citato ha sottolineato che verso la fine di marzo, quando la crisi stava già infuriando nel mondo, i prezzi americani erano superiori a quelli dell’anteguerra del 23%, cioè di meno di un quarto, mentre i prezzi francesi erano aumentati del 260%, cioè più di tre volte e mezzo rispetto ai livelli prebellici. Questo significa che il potere di acquisto del franco è diminuito di varie volte.

Consideriamo ora il bilancio francese, che si divide in due parti, le spese normali e i fondi di emergenza. Il bilancio normale ha raggiunto i 23 miliardi di franchi, una somma mai registrata nel periodo prebellico! Quali sono le destinazioni di queste gigantesche somme? 15 miliardi devono coprire gli interessi dei debiti, 5 miliardi servono a mantenere l’esercito. Totale: 20 miliardi. Questo è quanto il governo francese si era prefisso di strappare ai contribuenti. In realtà è riuscito a strapparne solo 17 miliardi e mezzo. Di conseguenza le entrate “normali” dello Stato non bastano neppure a pagare gli interessi dei debiti e a mantenere l’esercito. Ma in aggiunta ci sono spese di emergenza da affrontare: più di 5 miliardi per l’occupazione e 23 miliardi per ogni sorta di indennità di guerra e di lavori di ricostruzione. Queste spese sono addebitate alla Germania. Ma è del tutto evidente che la Germania è sempre meno in grado di pagarle. Nel frattempo, lo Stato francese sopravvive emettendo nuovi prestiti o stampando cartamoneta addizionale. Un illustre giornalista finanziario francese, Léon Chavenon, direttore di L’Information, il più noto periodico economico francese, è favorevole a continuare a stampare cartamoneta. Dichiara:

“Se non facciamo così, la sola via che rimane, è l’aperta bancarotta.”

Ciò significa che l’alternativa è: o una bancarotta mascherata con ulteriore emissione di cartamoneta o un’aperta dichiarazione di bancarotta. Così stanno le cose per quanto riguarda la Francia, un paese vincitore che occupa una posizione favorevole nell’Europa in rovina nel senso che poteva e può ristabilire il proprio equilibrio a spese della Germania. La situazione dell’Italia e del Belgio non è in nessun modo migliore di quella della Francia.

Passiamo ora alla Gran Bretagna, il paese più ricco e più potente d’Europa. Durante la guerra avevamo preso l’abitudine di dire che l’Inghilterra si arricchiva con la guerra, che la borghesia inglese aveva fatto precipitare nella guerra l’Europa e stava accomodando il proprio nido. Ciò era vero, ma solo entro certi limiti. Nel primo periodo del conflitto l’Inghilterra ha ricavato dei profitti, ma ha accusate delle perdite nel periodo successivo. L’impoverimento dell’Europa, in particolare dell’Europa centrale, ha avuto l’effetto di sconvolgere le relazioni commerciali tra l’Inghilterra e il resto del continente. In ultima analisi ciò non poteva non colpire — e di fatto ha colpito — l’industria e la finanza inglesi. Inoltre anche l’Inghilterra è stata costretta a sobbarcarsi enormi spese di guerra. Oggi l’Inghilterra è in una fase di declino e questo declino sta diventando sempre più rapido. Ciò può essere illustrato con gli indici industriali e commerciali che sto per citare, ma è di per sé incontestabile ed è confermato da tutta una serie di dichiarazioni pubbliche e del tutto ufficiali da parte dei più eminenti industriali e banchieri inglesi. Nei mesi di marzo, aprile e maggio pubblicazioni inglesi hanno riportato le relazioni annuali dei gruppi industriali, delle banche ecc. Le assemblee autorevoli, in cui i dirigenti delle varie imprese fanno le loro relazioni analizzando la situazione complessiva del paese o delle loro aziende, forniscono materiale assai istruttivo. Ho messo insieme tutto un dossier di relazioni del genere. Tutte fanno risaltare una cosa: il reddito nazionale inglese, cioè il reddito aggregato di tutti i cittadini e dello Stato, è caduto considerevolmente rispetto ai livelli prebellici.

L’Inghilterra è diventata più povera. La produttività del lavoro è diminuita. Il commercio mondiale inglese è diminuito di almeno un terzo rispetto all’anteguerra (in alcuni dei settori più importanti in misura anche maggiore). Particolarmente brusco il mutamento subito dall’industria del carbone che era il settore principale dell’economia inglese o, più precisamente, il fondamento di tutto il sistema economico mondiale inglese (in quanto il monopolio del carbone era alla radice della forza, del vigore e della prosperità di tutti gli altri settori industriali). Oggi di questo monopolio non rimane traccia.

Ecco alcuni dati di base sulle condizioni dell’economia inglese. Nel 1913 l’industria carbonifera britannica aveva prodotto 287 milioni di tonnellate di carbone; nel 1920 ne ha prodotte 233, cioè il 20% in meno. Nel 1913 la produzione di ferro era stata di 10,4 milioni di tonnellate; nel 1920 è stata di poco più di 8 milioni di tonnellate, cioè, di nuovo, il 20% in meno. Le esportazioni di carbone erano ammontate nel 1913 a 73 milioni di tonnellate; nel 1920 sono state, complessivamente, solo di 25 milioni di tonnellate, cioè un terzo del livello prebellico. Ma nel corso del corrente anno, 1921, la caduta dell’industria carbonifera e delle sue esportazioni ha assunto dimensioni del tutto abnormi. In gennaio la produzione del carbone è stata di 19 milioni di tonnellate (cioè inferiore alla media nazionale del 1920), in febbraio di 17 milioni e in marzo di 16 milioni. In quel momento è scoppiato lo sciopero generale e la produzione del carbone è caduta pressoché a zero. Per i primi cinque mesi del 1921 le esportazioni sono state di sei volte inferiori a quelle dello stesso periodo del 1913. Tradotte in termini di prezzi, le esportazioni inglesi complessive nel maggio di quest’anno sono state tre volte inferiori a quelle del maggio dello scorso anno. Il primo agosto 1914 il debito nazionale inglese era di700 milioni di sterline; il 4 giugno di quest’anno era di 7.709 milioni di sterline, cioè undici volte di più. Il bilancio si è moltiplicato per tre.

Se si spulciano le relazioni delle direzioni delle banche e delle aziende industriali di marzo e aprile, si rileva che il reddito nazionale inglese è diminuito di circa un terzo o un quarto rispetto al periodo prebellico. Così stanno le cose per quanto riguarda l’Inghilterra, il paese più ricco d’Europa, il paese che meno ha sofferto a causa delle operazioni militari e che, nel periodo iniziale, più ha guadagnato dalla guerra. La prova più eloquente del declino della vita economica dell’Inghilterra è fornita dal fatto che la sterlina non è più la sterlina, cioè non corrisponde più alle cifre che una volta si imponevano dovunque e che ancor oggi vi sono stampate sopra. Oggi la sterlina è solo il 76% di quanto pretende di essere. Nei confronti del nuovo dominatore del mercato monetario — il dollaro degli Stati Uniti — la sterlina ha perduto il 24% del suo valore nominale. Che cosa potrebbe indicare meglio l’instabilità della nostra epoca del fatto che la cosa più stabile, assoluta e incontestabile del mondo — la supremazia inglese (in inglese la parola sovereign indica al tempo stesso la sterlina e il monarca) — ha perduto la sua condizione precedente ed è divenuta un’entità relativa? Se consideriamo che oggi in Germania l’attività filosofica si è concentrata sulla relatività — mi riferisco qui alla filosofia di Einstein —, potremmo forse interpretare la filosofia tedesca come una specie di rivalsa nei confronti dell’economia inglese nella misura in cui la sterlina inglese è divenuta, dopo tutto, un’entità relativa. Detto incidentalmente, è sempre stata un’abitudine tedesca compensare la miseria economica con una rivalsa in campo filosofico.

I dati che abbiamo citato definiscono esaurientemente la situazione in Europa. Tra i paesi belligeranti abbiamo l’Austria da una parte — come il paese che maggiormente ha sofferto (a parte la Russia) — e l’Inghilterra dall’altra. In posizione intermedia possiamo collocare la Germania, l’Italia, il Belgio e la Francia. I paesi balcanici sono completamente rovinati e sono stati ributtati indietro, nella barbarie economica e culturale. Per quanto riguarda i paesi neutrali, nel primo periodo hanno indubbiamente approfittato della guerra; tuttavia, dato che non possono avere un ruolo economico indipendente, ma vivono negli interstizi tra le grandi potenze e dato che sono economicamente dipendenti da queste ultime, ne consegue che il declino dei maggiori paesi europei ha determinato gravissime difficoltà economiche nei paesi neutrali, anch’essi caduti attualmente molto al di sotto dei livelli raggiunti nel primo periodo della guerra.

Così il reddito complessivo dell’Europa, cioè la quantità di beni materiali prodotti da tutti i popoli europei, è diminuito di almeno un terzo rispetto all’anteguerra. Ma quello che è di gran lunga più decisivo, come ho precisato in precedenza, è il declino nell’apparato di base dell’economia. I contadini non hanno potuto avere fertilizzanti sintetici, attrezzi agricoli e macchine; i proprietari di miniere, stimolati dagli alti prezzi del carbone, non si sono preoccupati di rinnovare le attrezzature delle miniere stesse; il parco delle locomotive ha subito un’usura, le ferrovie sono rimaste senza le riparazioni necessarie e così via. Tutto questo ha influito sul meccanismo economico rendendolo più debole, più fragile, meno solido. Come calcolare o valutare tutto questo? Le statistiche capitalistiche sono del tutto inadeguate. Un inventario del genere, cioè un inventario in termini di capacità produttiva non di un’azienda isolata, ma di interi paesi e dell’Europa nel suo complesso, mostrerebbe indubbiamente che la guerra è stata possibile e i regimi postbellici sono sopravvissuti e continuano a sopravvivere a spese del capitale produttivo di base. Ciò significa, per esempio, che la Germania, invece di occupare 50.000 minatori per il rinnovamento dei pozzi, impegna 50.000 minatori in più per estrarre il carbone che deve andare in Francia. La Francia, d’altro canto, nel tentativo di ridurre il suo deficit commerciale, cerca di esportare all’estero la maggior quantità possibile di beni e trascura anch’essa il necessario rinnovamento delle sue attrezzature. E questo vale per tutti i paesi europei, perché l’Europa nel suo complesso è in deficit, cioè ha una bilancia commerciale passiva. L’indebolimento delle fondamenta economiche dell’Europa si manifesterà domani in forme ancora più acute di oggi di ieri. La grande talpa della storia sta scavando le sue gallerie sotto le fondamenta stesse dell’economia europea.

 

Il fiorire dell’economia americana

Se passiamo all’emisfero occidentale, abbiamo un quadro completamente diverso. L’America ha conosciuto uno sviluppo di tipo diametralmente opposto. Durante questo periodo si è arricchita ad un ritmo vertiginoso. La sua partecipazione alla guerra si è ridotta, in ultima analisi, all’organizzazione delle retrovie. Certo, anch’essa ha dovuto sopportare spese connesse alla conduzione della guerra, ma si è trattato di spese insignificanti non solo in relazione ai suoi profitti di guerra, ma anche rispetto a tutte le prospettive aperte dalla guerra stessa allo sviluppo economico americano. Gli Stati Uniti non solo hanno trovato nell’Europa combattente un compratore virtualmente senza limiti che comprava qualsiasi cosa e per di più a prezzi elevati, ma per un certo numero di anni hanno preso sul mercato mondiale il posto dei loro concorrenti principali, la Germania e l’Inghilterra, impegnati soprattutto nella guerra. Sino alla vigilia stessa della guerra, il grosso delle esportazioni americane, cioè i due terzi, consisteva in prodotti agricoli e in materie prime. Durante la guerra le esportazioni americane sono cresciute ininterrottamente e febbrilmente. Basti sottolineare che le esportazioni americane hanno raggiunto un ammontare due volte e mezzo superiore al livello più alto dell’anteguerra e che in sei anni — dall’inizio del 1915 alla fine del 1921 — le esportazioni hanno superato le importazioni di 18 miliardi di dollari. Inoltre, la natura delle esportazioni è mutata radicalmente. Oggi gli Stati Uniti esportano per un 60% beni manifatturati e solo per un 40% prodotti agricoli, prodotti dell’allevamento, materie prime (cotone ecc.).

Per abbozzare le linee principali dell’attuale ruolo degli Stati Uniti nell’economia mondiale, citerò i seguenti dati fondamentali. Entro i confini degli Stati Uniti vive il 6% della popolazione mondiale, mentre spetta agli Stati Uniti il 7% della superficie complessiva della terra. Nella produzione annua di oro gli Stati Uniti forniscono il 20%; la parte degli Stati Uniti nel tonnellaggio dei trasporti marittimi è pari al 30% del totale, mentre prima della guerra non era più del 5%. Della produzione mondiale di ferro e di carbone spetta agli Stati Uniti il 40%, in quella di stagno il 40%, di argento il 40%, di zinco il 50%, di carbone il 45%, di alluminio il 60%, di rame e di cotone sempre il 60%, di petrolio tra il 66 e il 70%, di grano il 75%, di automobili l’85%. Esistono oggi nel mondo poco meno di 10 milioni di automobili: la parte dell’America è di 8 milioni e mezzo, mentre quella del resto del mondo è di 1.400.000. C’è un’automobile ogni dodici americani. Oggi il centro di gravità dell’economia mondiale non è più in Europa, ma negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno conosciuto una crescita senza precedenti, di cui indico alcuni dati essenziali.

Il numero dei cavalli è cresciuto da 20 a 22 milioni; il bestiame da 62 a 68 milioni. Questo, certamente, non è molto. Ma se consideriamo la produzione del carbone, troviamo che nel 1913 era di 517 milioni di tonnellate, nel 1920 è stata di 580 milioni, cioè è aumentata in misura piuttosto rilevante. La produzione di petrolio è aumentata da 248 milioni di barili nel 1913 a 442 milioni di barili nel 1920. Qui abbiamo un incremento considerevole. Il cotone e il ferro sono rimasti, in linea generale, ai livelli prebellici; ma registriamo un gigantesco sviluppo della navigazione marittima. Nel 1913 le navi costruite per la marina mercantile avevano una capacità di trasporto pari a 276.000 tonnellate, mentre nel 1919 tale capacità è stata di 4.075.000 tonnellate e nel 1920 di 2.746.000 tonnellate. Questo incremento della produzione cantieristica ha permesso agli Stati Uniti di rivaleggiare con il paese guida del settore, cioè con l’Inghilterra. Mentre prima della guerra l’Inghilterra disponeva di oltre la metà del tonnellaggio mondiale e gli Stati Uniti solo del 5%, oggi i rapporti sono mutati profondamente. L’Inghilterra non ha più del 35% del totale, mentre gli Stati Uniti ne hanno il 30%. Così gli Stati Uniti stanno sfidando la supremazia inglese sui sette mari.

Gli Stati Uniti si sono assicurati il completo dominio sul mercato del carbone, che una volta apparteneva all’Inghilterra. Non meno importante la schiacciante superiorità dell’America nel campo del petrolio la cui importanza industriale e militare cresce rapidamente. Ma un identico mutamento si è prodotto non solo nella sfera dell’industria e del commercio mondiale, ma anche in quella del mercato monetario. L’Inghilterra era il principale usuraio mondiale di prima della guerra, seguita dalla Francia. Tutto il mondo era indebitato nei loro confronti, compresa l’America. Oggi, invece, il solo paese che non debba niente a nessuno e nei confronti del quale tutti sono indebitati, sono gli Stati Uniti. L’Europa — cioè i governi, le amministrazioni locali e le aziende dell’Europa — deve agli Stati Uniti 18 miliardi di dollari-oro. Ma questo è solo l’inizio. Ogni giorno che passa questo debito aumenta di dieci milioni sia perché non vengono pagati gli interessi che si accumulano sia perché gli americani concedono nuovi prestiti. Di conseguenza, come ho già fatto notare, il dollaro è diventato il sovereign del mercato finanziario mondiale. In passato, nel dare le proprie referenze, il dollaro avrebbe potuto dire: “Il mio nome è dollaro e valgo circa un quinto della sterlina.” Quanto alla sterlina, non aveva bisogno di nessuna referenza; andava e veniva come la Sterlina e ciò era sufficiente. Ora la sterlina deve viaggiare con un passaporto come qualsiasi altra moneta; e il suo passaporto dice che la sterlina in realtà non è la sterlina, ma l’equivalente di un certo numero di dollari (di circa un quarto al di sotto dei dati forniti nei vecchi manuali finanziari prebellici).

Circa la metà della riserva aurea mondiale, su cui si fonda tutto il sistema monetario, è attualmente concentrata negli Stati Uniti; circa la metà della riserva mondiale!

Questa è la situazione postbellica degli Stati Uniti. Come si è determinata? È stata il risultato del fatto che il mercato bellico europeo era illimitato e acquistava a qualsiasi prezzo. Nelle colonie inglesi, in Asia, in Africa e nell’America del Sud non c’erano più concorrenti, erano quasi completamente scomparsi, e gli Stati Uniti avevano via libera per svilupparsi pienamente. Così nel corso di sette anni si è registrato un completo capovolgimento della divisione mondiale del lavoro. Per quattro interi anni l’Europa si è trasformata in un mare di fiamme alimentate non solo dal suo reddito, ma anche dal suo capitale di base, mentre la borghesia americana si riscaldava le mani alle fiamme. La capacità produttiva dell’America è cresciuta straordinariamente, ma il suo mercato è svanito perché l’Europa si è impoverita e non può più acquistare prodotti americani. È come se l’Europa avesse prima fatto tutto quello che poteva fare per aiutare l’America a salire sino al gradino più elevato, e avesse tirato poi via la scala.

 

Gli altri paesi. La crisi

Anche il Giappone ha sfruttato il periodo della guerra per avvantaggiarsi e ha realizzato grandi successi, anche se in nessun modo paragonabili allo sviluppo degli Stati Uniti. Certi settori dell’industria giapponese si sono sviluppati a ritmo febbrile. Tuttavia, se in assenza di concorrenti il Giappone si era dimostrato capace di sviluppare singoli settori della propria industria, oggi che molti dei concorrenti sono ritornati, non sempre è stato in grado di conservare le posizioni conquistate. Il numero complessivo dei lavoratori e delle lavoratrici giapponesi (in Giappone il lavoro femminile è impiegato su scala estremamente vasta) è di 2.370.000, di cui 270.000, circa il 12%, sono organizzati nei sindacati.

Nei paesi coloniali e semicoloniali, nelle Indie orientali, in Cina, il capitalismo ha realizzato grandi conquiste nel corso degli ultimi sette anni. Prima della guerra l’Asia produceva 56 milioni di tonnellate di carbone. Nel 1920 ne ha prodotte 76 milioni, cioè il 36% in più.

Oggi il mondo intero sta attraversando una crudele crisi che è cominciata nella scorsa primavera in Giappone e in America, cioè proprio nei paesi che erano stati in ascesa e non in declino nel periodo precedente.

The Economist, il più  autorevole periodico economico inglese, racconta una storia piuttosto curiosa sull’inizio della crisi. È un episodio molto interessante. L’operaio americano, pensate, ha cominciato ad arricchirsi e ha cominciato ad acquistare camicie di seta, la cui produzione costituisce uno dei maggiori settori dell’industria tessile giapponese. L’industria serica giapponese ha conosciuto una rapida espansione entro un breve lasso di tempo, ma poiché il potere d’acquisto degli operai resta pur sempre limitato e per di più ha subito un’improvvisa contrazione dal momento in cui l’industria americana ha cominciato la propria riconversione con la firma della pace, l’industria serica giapponese è precipitata immediatamente in una grave crisi, che si è trasferita ad altri settori industriali, ha investito anche l’America facendo un salto al di là dell’oceano, e oggi la crisi ha raggiunto nel mondo intero livelli sconosciuti nella storia del capitalismo. Tutto è cominciato con una bagatella — una camicetta di seta —, ma è finito in qualche cosa di grosso: i prezzi sono precipitati e le fabbriche hanno cominciato a chiudere a ritmo frenetico buttando fuori gli operai. In America ci sono oggi non meno di cinque milioni — secondo taluni, sei milioni —di disoccupati.

Nella storia della crisi l’episodio della camicia di seta equivale più o meno al battito d’ali d’un uccello che fa precipitare una valanga. Ovviamente la valanga doveva precipitare comunque. Ma l’episodio è egualmente interessante perché indica un incontestabile miglioramento del livello di vita, almeno da parte di alcune categorie di operai americani, nel corso degli ultimi anni. Un numero piuttosto considerevole degli otto milioni e mezzo di automobili appartiene a operai specializzati; ma oggi e soprattutto nel prossimo periodo gli operai americani non avranno la possibilità di comprarsi automobili e camicie di seta.

Bene, c’è una crisi in Europa e una crisi in America. Ma queste crisi sono di natura diversa. L’Europa è povera, mentre l’America nuota nell’oro. L’apparato produttivo americano resta in condizioni relativamente buone. Le sue fabbriche sono di prim’ordine. Le attrezzature e i rifornimenti sono adeguati. È vero, la qualità dei prodotti in tempo di guerra è peggiorata, le ferrovie hanno subito un’usura, visto che la maggiore preoccupazione dei capitalisti era di far arrivare le merci ai porti della costa orientale. Tuttavia, complessivamente, l’America ha non solo conservato, ma addirittura ampliato il suo apparato economico.

Il potere d’acquisto in Europa è precipitato. L’Europa non ha niente da offrire in cambio dei prodotti americani. Il centro di gravità economico si è spostato fortemente verso l’America e in parte verso il Giappone. Mentre l’Europa soffre di anemia, gli Stati Uniti soffrono oggi in misura non minore di sovrabbondanza.

Questo anormale contrasto tra le condizioni dell’economia europea e le condizioni dell’economia americana — un contrasto rovinoso per l’una e per l’altra — trova la sua espressione più trasparente nel campo dei trasporti marittimi. In questo campo, come in molti altri, la posizione predominante, prima della guerra, era spettata all’Inghilterra, che aveva nelle proprie mani circa il 50% del tonnellaggio mondiale. Nello sforzo di assicurarsi il predominio in tutti i campi, gli Stati Uniti hanno costruito la loro marina mercantile via via che, durante la guerra, il loro commercio si espandeva. Il tonnellaggio degli Stati Uniti è passato da 3 o 5 a 15 milioni di tonnellate e oggi è alla pari con quello dell’Inghilterra.

Negli ultimi anni il tonnellaggio mondiale è aumentato in cifre assolute di circa un quinto. Ma l’industria e il commercio mondiali sono caduti: c’è poco o niente da esportare. L’anemia dell’Europa e la sovrabbondanza dell’America agiscono egualmente per paralizzare il funzionamento del sistema dei trasporti atlantici.

Prima di affrontare la questione centrale, cioè se questo quadro subirà in futuro una trasformazione nel senso di un ristabilimento dell’equilibrio, consentitemi di aggiungere un breve commento. Dopo tutto, gli statistici e gli economisti capitalisti possono dire che in questo periodo neppure l’economia della Russia ha conosciuto un miglioramento. Il compagno Lenin farà una relazione sulla situazione economica della Russia. Le poche parole che voglio dire in proposito riguardano un tutt’altro aspetto. Il segretario di Stato americano Hughes ha scritto in una lettera al famoso signor Gompers, noto per varie ragioni, che non aveva senso ristabilire relazioni economiche con la Russia in quanto quest’ultima, attualmente, non è che un gigantesco vuoto. L’impoverimento e il declino dell’economia russa, secondo l’opinione di Hughes, non possono essere attribuiti al blocco e alla guerra civile, perché, in primo luogo, i settori dell’industria più colpiti sono quelli che prima della guerra si reggevano da sé e, in secondo luogo, perché per la guerra civile è stata mobilitata meno gente che per la guerra mondiale. Quest’ultimo argomento, in realtà, è un po’ troppo sottile, se il signor Hughes me lo consente. Tutti sanno che la guerra mondiale ha avuto qualche cosa a che vedere con il declino dell’economia russa. Ma, a parte questo, l’argomento è falso anche da altri punti divista, in quanto durante la grande guerra imperialista il governo Zarista aveva fatto restare in fabbrica la forza-lavoro specializzata. Per lo svolgimento della guerra non ne aveva bisogno, come, invece, ne abbiamo avuto bisogno noi. Aveva la sua nobiltà, il quadro dei suoi ufficiali notevolmente formati. Il nostro apparato militare, invece, nei giorni più difficili, si è basato prima di tutto e soprattutto sugli operai specializzati che, in linea generale, siamo stati costretti a mobilitare immediatamente. Oggi, mentre siamo già a metà della smobilitazione, vi posso svelare il segreto che, nel momento in cui combattevamo su ventiquattro fronti, il nostro esercito aveva 5.300.000 uomini di cui non meno di 750.000 erano operai specializzati. Questo significa che l’economia aveva subito la più spaventosa e la più insopportabile delle perdite. Per altro lato, Hughes dimentica completamente che la Russia capitalista era parte integrante del sistema economico capitalista mondiale ed era inserita nel processo di circolazione delle merci sul mercato mondiale. Ora subiamo le conseguenze della mancanza anche dei più insignificanti prodotti che il nostro paese non produceva prima della guerra e la cui produzione non poteva essere organizzata nel corso del blocco e della guerra civile. I compagni incaricati della gestione della nostra industria hanno fatto molti esempi in proposito. Per esempio, manchiamo di perforatrici, di indicatori, di compassi e di altri strumenti di misurazione; manchiamo di cavi in acciaio e di cinghie per le miniere di carbone. Queste cose nel nostro paese non le abbiamo mai prodotte. L’industria carbonifera del Donetz soffre incredibilmente della mancanza di cavi di acciaio. Tutti sanno benissimo che gli schermi metallici, indispensabili per l’industria della carta, li abbiamo sempre importati dalla Germania e dall’Inghilterra e mai prodotti nel nostro paese. Così anche i settori industriali che prima della guerra potevano reggersi da soli, soffrono della mancanza di certi prodotti.

Tuttavia, è del tutto evidente — ed è facilissimo provarlo —che, nelle condizioni esistenti alla fine della prima guerra imperialista, dopo il crollo completo dell’esercito zarista e dell’economia capitalista, solo un sistema come quello sovietico poteva affrontare una nuova guerra durante tre anni, mettere in piedi e rifornire un esercito senza soccombere nel corso del processo. Ciò non significa, però, sia chiaro, negare che abbiamo commesso su questo piano errori molto gravi.

Il boom e la crisi

Gli economisti borghesi e riformisti, che hanno un interesse ideologico a presentare sotto una luce favorevole la condizione del capitalismo, dicono: di per se stessa l’attuale crisi non prova assolutamente nulla; al contrario, rappresenta un fenomeno normale. Subito dopo la guerra abbiamo assistito ad un boom industriale ed ora assistiamo a una crisi. Ne deriva che il capitalismo è vivo e vegeto.

È un fatto che il capitalismo vive passando attraverso le crisi e i boom, come un essere umano vive inspirando ed espirando. Prima c’è un boom dell’industria, poi un arresto e quindi una crisi, seguita da un arresto della crisi stessa, poi da un miglioramento, da un altro boom, da un altro arresto e così via.

La crisi e il boom, unitamente a tutte le fasi transitorie, costituiscono insieme un ciclo o uno dei grandi cicli dello sviluppo industriale. Ogni ciclo dura dagli otto ai nove o dieci anni e può arrivare agli undici. A causa delle sue contraddizioni interne il capitalismo non si sviluppa, dunque, in linea retta, ma a zig zag, con alti e bassi. E questo che sta alla base delle asserzioni degli apologeti del capitalismo. “Visto che riscontriamo dopo la guerra un succedersi di boom e di crisi” dicono “ne deriva che tutto sta andando per il meglio nel migliore dei mondi capitalisti”.

In realtà le cose stanno diversamente. Il fatto che dopo la guerra il capitalismo continui ad oscillare ciclicamente significa semplicemente che il capitalismo non è ancora morto, che non abbiamo a che fare con un cadavere. Sinché il capitalismo non sarà rovesciato dalla rivoluzione proletaria, continuerà a percorrere i suoi cicli, ascendenti e discendenti. Le crisi e i boom hanno caratterizzato il capitalismo sin dalla nascita e lo accompagneranno sino alla tomba. Ma per stabilire l’età del capitalismo e il suo stato generale, per stabilire se stia ancora sviluppandosi, se abbia raggiunto la sua maturità o se stia declinando, è necessario diagnosticare la natura dei cicli. Allo stesso modo lo stato di un organismo umano può essere diagnosticato verificando se il respiro è regolare o spasmodico, profondo o leggero ecc.

Il nocciolo della questione, compagni, può essere descritto come segue. Consideriamo lo sviluppo del capitalismo – l’aumento della produzione del carbone, dei prodotti tessili, del ferro, dell’acciaio, del commercio estero ecc. – e tracciamo una curva che rappresenti questo sviluppo. Se l’andamento della curva corrisponde al corso reale dello sviluppo economico, vediamo che la curva non sale in modo ininterrotto, ma a zig zag, con alti e bassi, che corrispondono rispettivamente ai boom e alle crisi. Così la curva dello sviluppo economico si compone di due movimenti: un movimento primario che esprime l’ascesa generale del capitalismo e un movimento secondario che consiste in continue oscillazioni periodiche in corrispondenza con i vari cicli industriali.

Nel gennaio di quest’anno il Times di Londra ha pubblicato una tabella che abbraccia un periodo di 138 anni, dalla guerra delle tredici colonie americane per l’indipendenza sino ai giorni nostri. In questo arco di tempo ci sono stati sedici cicli, cioè sedici crisi e sedici fasi di prosperità. Ogni ciclo ha avuto la durata media approssimativa di otto anni e otto mesi, cioè di circa nove anni. Permettetemi di attirare la vostra attenzione sugli zig zag che descrivono i movimenti. A un certo punto la tabella del Times indica un’ascesa. Comincia con la somma di 2 sterline o 25 marchi-oro per ogni inglese. Nel periodo considerato la popolazione è cresciuta circa di quattro volte, il commercio estero in misura anche maggiore e il dato pro capite è salito a 30,5 sterline; e nel 1921, espresso in termini monetari, ma non in valore reale, ha raggiunto le 65 sterline. Nella produzione del ferro riscontriamo un andamento analogo. Vediamo che nella prima parte del 1851 la domanda di ferro era di 4,5 chilogrammi pro capite. È cresciuta fino a 46 chilogrammi nel 1913. Poi è seguito un movimento in senso inverso.

 Questo è il bilancio complessivo, è il risultato generale di 138 anni di sviluppo. Se analizziamo la curva dello sviluppo più da vicino, notiamo che può essere divisa in cinque parti, cinque periodi ben distinti. Dal 1771 al 1851 lo sviluppo è molto lento; ci sono movimenti appena percettibili. Osserviamo che nel corso di settant’anni il commercio estero cresce solo da 2 a 5 sterline pro capite. Il punto di rottura si produce solo dopo la rivoluzione del 1848 che agì nel senso di un’estensione del mercato europeo. Tra il 1851 e il 1873 la curva dello sviluppo sale fortemente. In ventidue anni il commercio estero passa da 5 a 21 sterline, mentre nello stesso periodo la produzione del ferro aumenta da 4,5 a 13 chilogrammi pro capite. A partire dal 1873 comincia un’epoca di depressione. Dal 1873 al 1894 circa riscontriamo un ristagno nel commercio inglese (anche prendendo in considerazione gli interessi del capitale investito in aziende estere): c’è una caduta da 21 a 17,4 sterline nel corso di ventidue anni. Poi viene un altro boom che dura sino al 1913: il commercio estero aumenta da 17 a 30 sterline. Infine, con il 1914 comincia il quinto periodo, il periodo della distruzione dell’economia capitalista.

Come si combinano fluttuazioni cicliche e movimento primario nella curva dello sviluppo capitalistico? Molto semplice. Nei periodi di rapido sviluppo capitalistico le crisi sono brevi e di carattere superficiale. Mentre i boom si prolungano ed acquistano dimensioni considerevoli. Nei periodi di declino capitalista, le crisi sono di carattere prolungato, mentre i boom sono limitati, superficiali e speculativi. Nei periodi di ristagno le fluttuazioni si producono allo stesso livello.

Questo significa solo che è necessario determinare lo stato generale dell’organismo capitalistico verificando come precisamente respiri e a quale ritmo batte il suo polso.

Il boom postbellico
Immediatamente dopo la guerra si è prodotta una situazione economica non bene definita. Ma con la primavera del 1919 si è delineato un boom: il mercato delle azioni si è attivizzato, i prezzi sono saliti vertiginosamente come una colonna di mercurio immersa nell’acqua bollente, la speculazione si è sviluppata vertiginosamente. E l’industria? Nell’Europa centrale, orientale e meridionale la caduta è continuata, come indicato dalle statistiche che abbiamo citato. In Francia c’è stato un certo miglioramento, dovuto soprattutto al saccheggio della Germania. In Inghilterra c’è stato in parte un ristagno, in parte una caduta con la sola eccezione della flotta commerciale il cui tonnellaggio è aumentato in proporzione al declino del commercio effettivo. Così il boom europeo complessivamente considerato ha assunto un carattere in parte fittizio e speculativo, il che ha comportato non un progresso, ma un ulteriore declino dell’economia.

Negli Stati Uniti, dopo la guerra, l’industria ha rallentato la produzione bellica e ha cominciato la riconversione alla produzione di pace. Si è verificata un’ascesa degna di nota nell’industria dei petrolio, in quella automobilistica e in quella delle costruzioni navali.

 Anno  Petrolio  Automobili  Costruzioni navali
 (milioni di barili)  (unità) (in migliaia di tonnellate)
  1918   356  1.153000   3.033
  1919   378  1.974.000   4.075
  1920   442  2.350.000   2.746

Nel suo pregevole opuscolo il compagno Varga dice del tutto giustamente:

Il fatto che il boom postbellico abbia avuto carattere speculativo è rivelato nel modo più chiaro dall’esempio della Germania. Proprio mentre i prezzi si sono moltiplicati per sette durante diciotto mesi, l’industria tedesca ha continuato ad andare indietro […] La sua congiuntura economica era una congiuntura di vendite di liquidazione; i residui delle riserve di merci esistenti sul mercato interno sono stati gettati sui mercati esteri a prezzi favolosamente bassi.

In Germania i prezzi hanno raggiunto i livelli più elevati mentre l’industria è in continuo regresso. Negli Stati Uniti, dove l’industria continua a crescere, i prezzi sono saliti in minore misura. La Francia e l’Inghilterra si trovano in una posizione intermedia tra la Germania e gli Stati Uniti.

Come spiegare questi fatti e il boom stesso? In primo luogo, ci sono cause economiche: dopo la guerra le relazioni internazionali sono state ristabilite, anche se in forma approssimativa, e c’è stata una domanda universale di ogni tipo di merci. In secondo luogo, ci sono cause finanziarie: i governi europei hanno avuto una paura mortale della crisi che sarebbe seguita alla guerra e hanno fatto ricorso ad ogni sorta di misure per sostenere durante il periodo della smobilitazione il boom creato artificialmente dalla guerra. I governi hanno continuato a mettere in circolazione grandi quantità di cartamoneta, hanno emesso nuovi prestiti, hanno introdotto controlli sui profitti, sui salari e sul prezzo del pane, assicurando così dei sussidi ai lavoratori smobilitati con un drenaggio di fondi nazionali di base e determinando nei rispettivi paesi una ripresa economica artificiale. In questo lasso di tempo il capitale fittizio ha continuato ad espandersi, specie nei paesi in cui l’industria ha continuato a ristagnare.

Il fittizio boom postbellico ha avuto, tuttavia, grandi ripercussioni politiche. C’è qualche motivo per affermare che ha salvato la borghesia. Se gli operai smobilitati fossero stati colpiti fin dall’inizio dalla disoccupazione e da una riduzione del tenore di vita a livelli ancor più bassi di quelli dell’anteguerra, ciò avrebbe potuto avere conseguenze fatali per la borghesia. A questo proposito un professore inglese, Edwin Cannan, ha scritto nella rassegna dell’anno nuovo del Manchester Guardian che “l’impazienza degli uomini che tornano dai campi di battaglia è una cosa molto pericolosa”. E ha spiegato del tutto giustamente che proprio il fatto che il governo e la borghesia avessero con uno sforzo congiunto rinviato la crisi e creato un’artificiale prosperità con un’ulteriore distruzione del capitale di base europeo, aveva permesso di superare indenni il momento più grave del dopoguerra, l’anno 1919. Dice Cannan:

“Se nel gennaio 1919 si fosse creata la stessa situazione economica del 1921, l’Europa occidentale avrebbe potuto precipitare nel caos”.

La violenta febbre della guerra è stata prolungata per un altro anno e mezzo e la crisi è scoppiata solo dopo che le masse di operai e contadini smobilitati erano state rimesse nelle loro piccole gabbie.

La presente crisi

Essendo riuscita a far fronte alla smobilitazione e a resistere al primo attacco da parte delle masse operaie, la borghesia ha superato il suo stato di confusione, di allarme e addirittura di panico e ha riacquistato fiducia in se stessa. È divenuta vittima dell’allucinazione secondo cui era finalmente sopraggiunto un periodo di grande prosperità che non avrebbe mai avuto fine. Eminenti esponenti del mondo politico e finanziario britannico hanno proposto di emettere prestiti internazionali per due miliardi di sterline per il lavoro di ricostruzione. Sembrava che stesse per cadere sull’Europa una pioggia d’oro destinata a creare un universale benessere. Così la devastazione dell’Europa, la rovina delle sue città e dei suoi villaggi si trasformavano in cifre fantastiche di prestiti che di fatto non erano che ombre gigantesche della povertà. Ma la realtà ha richiamato rapidamente la borghesia dal suo mondo di sogno. Ho già descritto come la crisi sia cominciata in Giappone (nel marzo) e negli Stati Uniti (in aprile) per estendersi poi all’Inghilterra, alla Francia e all’Italia. Nel periodo più recente dell’anno si è diffusa in tutto il mondo. Tutto quanto ho già detto prima chiarisce senza possibilità di equivoci che non abbiamo a che fare con semplici fluttuazioni nell’ambito di uno dei cicli industriali ricorrenti, ma con un periodo di espiazione per i saccheggi e le devastazioni di tutta l’epoca della guerra e del dopoguerra.

Nel 1913 le importazioni nette di tutti i paesi sono ammontate a un totale di 65-70 miliardi di marchi-oro. La Russia aveva partecipato a questo ammontare con 2,5 miliardi, l’Austria-Ungheria con 3 miliardi, i Balcani con un miliardo, la Germania con 11 miliardi. La parte dell’Europa centrale e orientale era stata, dunque, pari a poco più di un quarto delle importazioni mondiali complessive. Attualmente questi paesi importano meno di un quinto di quanto non importassero prima. Quest’ultimo dato è di per sé sufficiente a indicare l’attuale potere di acquisto dell’Europa.

L’Europa ha subito un declino, il suo apparato produttivo ha subito una considerevole usura già prima della guerra. Il centro di gravità economico si è ormai spostato verso l’America, e non con un’evoluzione graduale, ma con uno sfruttamento del mercato bellico europeo da parte dell’America e con l’esclusione dell’Europa dal commercio mondiale. In questo modo l’America ha avuto la possibilità di conoscere un breve periodo di grandissima prosperità. Ma questo fenomeno non può ripetersi perché il regresso dell’Europa aveva creato per l’America un mercato assolutamente artificiale che oggi non può essere sostituito da nessun altro. Dopo aver assolto a questa funzione, l’Europa ha successivamente perduto ogni possibilità di ripetere qualche cosa di simile.

Prima della guerra il mercato europeo assorbiva di solito più della metà, circa il 60%, di tutte le esportazioni dell’industria americana. Nel corso della guerra l’Europa è divenuta ancora più importante per l’America nella misura in cui le importazioni europee si sono triplicate rispetto al periodo prebellico. Ma dalla guerra l’Europa è emersa come un continente impoverito e privo di qualsiasi possibilità di ricevere prodotti dall’America in quanto non dispone di contropartite in oro o in altri beni. Proprio in questa situazione risiede la spiegazione della crisi che è cominciata in Giappone e in America.

Dopo una breve congiuntura estremamente favorevole, durata due anni, è sopraggiunta una crisi vera e propria, che ha per l’Europa il seguente significato: “Sei povera, devi farti i vestiti con la stoffa che hai; non puoi più importare dall’America i prodotti di cui hai bisogno.” Per l’America la stessa crisi significa: “Ti sei arricchita perché hai potuto succhiare la ricchezza dell’Europa. Ciò è durato per cinque o sei anni, sinché c’è stata la guerra. Ma ora questa condizione di opulenza è finita.”  Alcuni paesi sono completamente rovinati e il loro apparato produttivo deve essere ricostruito completamente. All’interno di ciascun paese deve essere ricostituita la divisione del lavoro. L’economia francese e quella tedesca continuano ancora a funzionare meccanicamente data la spinta che avevano avuto prima della guerra e durante la guerra. Ma la Germania deve ritornare indietro per riordinare ed equilibrare il suo apparato economico: e come durante la guerra doveva organizzare la propria economia in modo da attenuare le privazioni che ne derivavano, così oggi deve continuare con la stessa politica, a meno che non sopraggiunga la rivoluzione. Se le cose continueranno come ora, sarà necessario organizzare la vita economica del paese e prima di tutto stabilire la necessaria proporzione tra mezzi di produzione e mezzi di consumo. In altri termini, i rapporti reciproci necessari saranno creati per mezzo di nuove guerre e ogni sorta di palliativi, a meno che non scoppi la rivoluzione.

Lo stesso vale per la Francia e per l’Europa, sinché dura questo periodo di regresso della vita economica, un periodo in cui i paesi capitalisti tendono a precipitare al livello di quelli che più hanno sofferto e più si sono impoveriti. Nel corso di questo processo di livellamento l’America non potrà sognarsi di mantenere i suoi maggiori e più importanti mercati nelle proporzioni precedenti. E tutto questo significa che la crisi in corso non è per l’America una normale crisi transitoria, ma l’inizio di un periodo prolungato di depressione. Ritorniamo un momento alla nostra tabella da cui apparivano i vari periodi: prima un periodo di ristagno durato settant’anni e poi un periodo di boom dal 1851 al 1873. Questi ventidue anni di espansione tumultuosa sono stati caratterizzati da due crisi e da due fasi congiunturali favorevoli e le due fasi di congiuntura favorevoli sono state effettivamente tali, mentre le crisi sono state di portata limitata. Poi, dal 1873 sino alla metà degli anni ’90, si è avuto un nuovo ristagno o, comunque, un notevole rallentamento dello sviluppo. Successivamente si è avuta una nuova espansione senza precedenti. Tutto questo è stato un processo di adattamento, un processo di livellamento. Quando il capitalismo in un paese raggiunge la saturazione su questo o quel mercato, è costretto a cercare altri mercati. Avvenimenti storici di fondo — crisi economiche, rivoluzioni ecc. — determinano se in periodi del genere si verificano ristagni, boom o recessioni. Questi sono i tratti essenziali dello sviluppo capitalistico.

A un determinato momento il capitalismo è entrato in un’epoca di depressione prolungata e profonda. A rigore, l’inizio di quest’epoca deve essere fatto risalire — nella misura in cui possiamo fare profezie sul passato — al 1913, quando, in seguito a vent’anni di sviluppo tumultuoso, il mercato mondiale era già divenuto inadeguato allo sviluppo del capitalismo tedesco, inglese e nordamericano. Questi giganti dello sviluppo capitalistico se ne erano resi perfettamente conto. Si erano detti: per evitare una depressione che potrebbe protrarsi per molti anni, dobbiamo creare un’acuta crisi bellica, distruggere i nostri rivali e conquistare il dominio incontrastato di un mercato mondiale che è diventato troppo angusto. Ma la guerra è durata troppo a lungo, provocando una crisi non solo acuta ma anche prolungata; ha distrutto completamente l’apparato economico europeo, facilitando così lo sviluppo febbrile dell’America. Dopo aver esaurito l’Europa, la guerra ha, tuttavia, a lungo termine, determinato una grave crisi anche per l’America. Una volta di più stiamo assistendo proprio a una crisi del genere di quella che hanno cercato di evitare, enormemente accentuata dato l’impoverimento dell’Europa.

Quali sono, dunque, le prospettive economiche immediate? È del tutto ovvio che l’America dovrà subire delle contrazioni visto che il mercato bellico europeo si è irrimediabilmente esaurito. D’altro lato, l’Europa dovrà adattarsi alle regioni e ai settori industriali più arretrati, cioè maggiormente rovinati. Ciò comporterà un livellamento economico in senso negativo e quindi una crisi prolungata: in alcuni settori dell’economia e in alcuni paesi ci sarà un ristagno, in altri uno sviluppo contenuto. Le fluttuazioni cicliche continueranno a verificarsi, ma, in linea generale, la curva dello sviluppo capitalistico tenderà verso il basso e non verso l’alto.

 

Crisi, boom e rivoluzione
Il rapporto reciproco tra boom e crisi economica da una parte e sviluppo della rivoluzione dall’altra è per noi del massimo interesse, non solo dal punto di vista teorico, ma anche e soprattutto dal punto di vista pratico. Molti di voi ricorderanno che nel 1851, quando il boom aveva raggiunto il punto più alto, Marx ed Engels hanno scritto che era necessario in quel momento riconoscere che la rivoluzione del 1848 era finita o, quanto meno, era interrotta fino alla prossima crisi. Engels ha scritto che, se la crisi del 1847 era stata la madre della rivoluzione, il boom del 18491851 aveva generato la controrivoluzione trionfante. Sarebbe, tuttavia, assai unilaterale e completamente erroneo interpretare queste valutazioni nel senso che una crisi determina invariabilmente un’attività rivoluzionaria, mentre, al contrario, il boom determina una passività della classe operaia. La rivoluzione del 1848 non è stata provocata dalla crisi. La crisi non ha fatto che dare l’ultima spinta. Essenzialmente la rivoluzione è stata il prodotto delle contraddizioni tra i bisogni dello sviluppo capitalistico e le catene del sistema sociale e politico semifeudale. La rivoluzione del 1848, per quanto indecisa e rimasta a mezza strada, ha spazzato via i residui del regime delle corporazioni e della servitù ed ha, quindi, ampliato il quadro dello sviluppo capitalistico. Per questo e solo per questo il boom del 1851 ha segnato l’inizio di tutta un’epoca di prosperità capitalistica durata sino al 1873.

Citando Engels è molto pericoloso trascurare questi elementi fondamentali. Proprio dopo il 1850, cioè dopo il periodo in cui Marx ed Engels avevano fatto i loro rilievi, si determinava non una situazione normale o regolare, ma un’epoca di Sturm und Drang del capitalismo cui la rivoluzione del 1848 aveva spianato il terreno. Si tratta di un dato di importanza estrema.

Anche il periodo terminato con la rivoluzione era stato un’epoca di Sturm und Drang, nel corso del quale la prosperità e le congiunture favorevoli erano state molto sostenute, mentre le crisi erano state superficiali e di breve durata. Quello che dobbiamo stabilire ora non è se sia possibile un miglioramento della congiuntura, ma se le fluttuazioni della congiuntura si inseriscono in una curva ascendente o in una curva discendente. Questo è l’aspetto più importante di tutta la questione.

Possiamo attenderci dal rilancio economico del 1919-20 gli stessi effetti registrati in epoche di ascesa complessiva? In nessun caso. Un allargamento del quadro dello sviluppo capitalistico non si è neppure delineato. Questo significa che è escluso in futuro, in un futuro più o meno prossimo, un nuovo rilancio commerciale e industriale? Niente affatto! Ho già detto che sinché il capitalismo rimane in vita, continua ad inspirare e ad espirare. Ma nell’epoca in cui siamo entrati – l’epoca dell’espiazione per il drenaggio e la distruzione del tempo di guerra, l’epoca del livellamento in senso negativo – i rilanci possono essere solo di carattere superficiale e principalmente speculativo, mentre le crisi diventano più lunghe e più profonde.

Lo sviluppo storico non ha ancora portato a dittature proletarie vittoriose nell’Europa centrale e occidentale. Ma sarebbe la più sfacciata e contemporaneamente la più stupida delle menzogne asserire, come fanno i riformisti, che l’equilibrio economico del mondo capitalistico è stato surrettiziamente ristabilito. Questo non lo pretendono neppure i peggiori reazionari, almeno quelli che sono capaci di pensare, per esempio il professor Hoetzch. Nella sua rassegna dell’anno questo professore ha affermato, infatti, che l’anno 1920 non ha portato alla vittoria della rivoluzione, ma non ha neppure ristabilizzato l’economia mondiale capitalistica. È stato soltanto ottenuto un equilibrio instabile e del tutto temporaneo. Il signor Chavenon, per parte sua, ha detto: “In Francia, oggi possiamo solo constatare la possibilità di un’ulteriore rovina dell’economia capitalistica a causa del deterioramento delle finanze dello Stato, dell’inflazione corrente e dell’aperta bancarotta.”

Ho già cercato di spiegare che cosa ciò significhi. Ho descritto la crisi più acuta che il mondo capitalistico abbia mai conosciuto. Tre o quattro settimane fa sono stati segnalati dalla stampa borghese sintomi di un miglioramento imminente, dell’avvicinarsi di un’epoca di prosperità. Ma è ormai del tutto chiaro che si trattava di una brezza primaverile prematura. Un certo miglioramento si è prodotto nella situazione finanziaria, che non è più grave come prima. Sui mercati i prezzi sono caduti, ma ciò non significa affatto un rilancio del commercio. Il mercato delle azioni è stagnante, mentre nella produzione continua la recessione. La metallurgia americana opera attualmente a un terzo della sua capacità produttiva. In Inghilterra sono Stati chiusi gli ultimi altiforni. Il che indica che la contrazione della produzione non è finita.

Questo movimento negativo non continuerà certo indefinitamente e con lo stesso ritmo. Ciò è assolutamente escluso. L’organismo capitalistico avrà dei momenti di respiro. Ma dal fatto che aspirerà un po’ di aria fresca e si produrrà un certo miglioramento sarebbe prematuro trarre la conclusione che è ritornata la prosperità. Si delineerà una nuova fase quando si cercherà di eliminare la contraddizione tra la povertà di fondo e la sovrapproduzione di ricchezza fittizia. Dopo di che il parossismo dell’organismo economico continuerà. Tutto questo ci dà, come è stato detto, un quadro di profonda depressione economica.

A causa di questa depressione economica la borghesia sarà costretta ad esercitare una pressione sempre più forte sulla classe operaia. Ciò a cominciato già a verificarsi con il taglio dei salari nei paesi capitalisti più sanguigni, l’America e l’Inghilterra, e quindi in tutta Europa. La conseguenza sarà un’ondata di lotte salariali. Il nostro compito è di estendere queste lotte partendo da una chiara comprensione della situazione economica. Questo è del tutto ovvio.

Ci si potrebbe chiedere se grandi lotte salariali, di cui lo sciopero dei minatori inglesi è un esempio classico, possano portare automaticamente alla rivoluzione mondiale, alla guerra civile finale e alla lotta per il potere politico. Ma porre la questione in questi termini non è da marxisti. Non esiste nessuna garanzia di uno sviluppo automatico.

Comunque, se alla crisi seguirà una congiuntura transitoriamente favorevole, che cosa significherà questo per il nostro sviluppo? Molti compagni dicono che, se in questo periodo ci sarà un miglioramento, sarà fatale alla rivoluzione. No, in nessun caso. In linea generale non c’è nessuna corrispondenza automatica tra crisi e movimento rivoluzionario proletario. Esiste solo un rapporto dialettico. È essenziale comprenderlo.

Consideriamo questo rapporto per quanto riguarda la Russia. La rivoluzione del 1905 si è conclusa con una sconfitta. Gli operai hanno dovuto sopportare grandi sacrifici. Nel 1906 e nel 1907 ci sono state le ultime fiammate e nell’autunno del 1907 è scoppiata una grande crisi mondiale di cui il venerdì nero di Wall Street ha dato il segnale. Nel 1907, 1908 e 1909 c’è stata una crisi terribile anche in Russia. Questa crisi ha ucciso completamente il movimento perché gli operai avevano talmente sofferto durante la lotta che la depressione poteva solo demoralizzarli. Tra noi ci sono state allora molte dispute sulla situazione che avrebbe portato a una nuova rivoluzione: sarebbe stata una crisi o una congiuntura favorevole?

In quel periodo molti di noi sostenevano il punto di vista che il movimento rivoluzionario russo avrebbe conosciuto una ripresa solo in seguito a una congiuntura economica favorevole. È quello che è avvenuto. Nel 1910, nel 1911 e nel 1912 c’è stato un miglioramento nella nostra situazione economica e la congiuntura favorevole ha agito nel senso di rimettere insieme gli operai demoralizzati e scoraggiati che avevano perso fiducia in se stessi. Gli operai si sono resi di nuovo conto di quale importanza avessero nella produzione e sono passati all’offensiva, prima sul piano economico e poi anche su quello politico. Alla vigilia della guerra la classe operaia si era riconsolidata, grazie al periodo di prosperità, al punto di essere in grado di passare direttamente all’attacco.

Se oggi, in un periodo di grande usura della classe operaia derivante dalla crisi e dalla continua lotta, non riuscissimo a conquistare la vittoria – il che è possibile –, allora un mutamento di congiuntura e un aumento del livello di vita non avrebbero conseguenze pregiudizievoli per la rivoluzione, ma, al contrario, sarebbero un fattore altamente favorevole. Un mutamento del genere si rivelerebbe pregiudizievole solo nel caso che una congiuntura favorevole segnasse l’inizio di una lunga epoca di prosperità. Ma un lungo periodo di prosperità esigerebbe una espansione del mercato che è assolutamente esclusa. Dopotutto, l’economia capitalista si estende già a tutto il globo.

L’impoverimento dell’Europa e il grandioso fiorire dell’America grazie al gigantesco mercato bellico confermano che la prosperità non può essere realizzata con uno sviluppo capitalistico della Cina, della Siberia, dell’America del Sud o di altri paesi e che, se l’America sta sicuramente cercando e creando nuovi mercati di sbocco, si tratta di mercati in nessun caso paragonabili a quello costituito dall’Europa. Ne segue che siamo alla vigilia di un periodo di depressione; e questo è incontestabile.

Se questa è la prospettiva, un’attenuazione della crisi non comporterà un colpo mortale alla rivoluzione, al contrario concederà alla classe operaia un momento di respiro che le consentirà di riorganizzare le sue fila per passare poi all’attacco su una base più solida. Questa è una possibilità. L’altra possibilità è che la crisi da acuta diventi cronica, si intensifichi e duri per molti anni. Tutto questo non è escluso. In una situazione del genere resta aperta la possibilità che la classe operaia riunisca le sue ultime forze e, istruita dall’esperienza, conquisti il potere statale nei paesi capitalisti più importanti. La sola cosa da escludere è una ristabilizzazione automatica dell’equilibrio capitalistico su una nuova base e un rilancio capitalistico nei prossimi anni. Ciò è assolutamente impossibile nelle condizioni del moderno ristagno dell’economia.

Qui dobbiamo affrontare il problema dell’equilibrio sociale. Dopo tutto, si dice di frequente – è questa l’idea fondamentale non solo di Cunow, ma anche di Hilferding – che il capitalismo si sta ristabilizzando automaticamente su una nuova base. La fede nell’evoluzione automatica è il tratto più importante e più caratteristico dell’opportunismo.

Se ammettiamo – e ammettiamolo per un momento – che la classe operaia non riesca a raggiungere il livello della lotta rivoluzionaria, ma permetta alla borghesia di decidere le sorti del mondo per un lungo numero di anni, diciamo per due o tre decenni, allora sicuramente un nuovo equilibrio sarà in qualche modo ristabilito. L’Europa sarà spinta violentemente in direzione opposta. Milioni di operai europei moriranno per la disoccupazione e la denutrizione. Gli Stati Uniti saranno costretti a riorientarsi sul mercato mondiale, a riconvertire la loro industria e a subire una contrazione per un periodo considerevole. Dopo di che, dopo che con grandi lacerazioni sarà stata ristabilita una nuova divisione mondiale del lavoro per 15, 20 o 25 anni, forse seguirà una nuova epoca di rilancio capitalistico.

Ma tutta questa ipotesi è completamente astratta e unilaterale. Le cose sono presentate come se il proletariato avesse cessato di lottare. Invece, per il momento, non possiamo neppure avanzare una simile ipotesi non fosse che per la ragione che proprio negli ultimi anni le contraddizioni di classe si sono acutizzate all’estremo.

Questo il nocciolo della schematica concezione di un equilibrio ristabilito che il signor Heinrich Cunow e altri sognano ad occhi aperti. Ogni misura che il capitalismo è costretto a prendere per fare un passo in avanti nel ristabilimento dell’equilibrio, assume immediatamente una decisiva importanza per l’equilibrio sociale, tende a minare sempre di più questo equilibrio e spinge ancor più la classe operaia alla lotta. Il primo obiettivo per realizzare l’equilibrio è quello di rimettere in ordine l’apparato produttivo, ma per far questo è indispensabile accumulare capitale. E per accumulare capitale è necessario aumentare la produttività del lavoro. Come? Nella misura in cui il declino della produttività della forza-lavoro nei tre anni del dopoguerra è un dato di fatto largamente noto, è necessario uno sfruttamento accresciuto e intensificato della classe operaia.

D’altra parte, per ristabilire l’economia mondiale sulle sue basi capitalistiche è indispensabile disporre di nuovo di un’unità di misura mondiale, il gold standard (valuta aurea). Senza la quale l’economia capitalistica non può sussistere, come non può sussistere nessuna produzione sinché i prezzi continuano la loro danza della morte aumentando del 100% in un mese, come accade in Germania in seguito alle fluttuazioni della moneta tedesca.

Il capitalista non è interessato alla produzione. Viene attratto sempre più dalla speculazione che lo tenta con profitti molto più elevati di quelli che potrebbe ricavare da un’industria che si sviluppa lentamente. Che cosa significa ristabilizzazione della moneta? Per la Francia e per la Germania significa dichiarazione di bancarotta da parte dello Stato. Ma dichiarare uno Stato insolvente significa provocare un vasto spostamento di rapporti di proprietà nell’ambito di un paese. E gli Stati che proclamano la loro insolvenza divengono teatro di nuove lotte per la distribuzione della ricchezza nazionale, il che rappresenta un gigantesco passo avanti nell’acutizzazione della lotta di classe.

Allo stesso tempo tutto questo significa rinunciare all’equilibrio sociale e politico, provocare sconvolgimenti rivoluzionari. In ogni modo, la dichiarazione di bancarotta dello Stato non consente di imporre immediatamente una ristabilizzazione dell’equilibrio. Alla dichiarazione devono seguire il prolungamento della settimana lavorativa, l’abolizione della giornata di otto ore e uno sfruttamento intensificato. Per tutto questo, naturalmente, è necessario che sia spezzata la resistenza della classe operaia.

In breve, in linea teorica e astratta, il ristabilimento dell’equilibrio capitalistico è possibile. Ma non avviene in un vuoto sociale e politico, può avere luogo solo passando attraverso le classi. Ogni passo, se pur minimo, verso un ristabilimento dell’equilibrio nella vita economica è un colpo all’instabile equilibrio sociale su cui i signori capitalisti continuano a reggersi. E questa è la cosa più importante.

 

L’aggravamento delle contraddizioni sociali

Lo sviluppo economico non è, dunque, un processo automatico. La via non è determinata solo dalle basi produttive della società. Su queste basi produttive vivono e lavorano esseri umani e lo sviluppo avviene grazie a questi esseri umani. E allora, che cosa è avvenuto sul piano delle relazioni tra esseri umani o, più precisamente, tra le classi?

Abbiamo visto che la Germania e altri paesi europei sono stati rigettati indietro di venti o trent’anni dal punto di vista del livello economico. Sono stati forse rigettati indietro contemporaneamente dal punto di vista sociale, dal punto di vista di classe? Niente affatto. In Germania le classi, il numero degli operai e la loro concentrazione, la concentrazione del capitale e la sua forma organizzativa, tutto questo sì era venuto precisando prima della guerra, in particolare come conseguenza degli ultimi due decenni di prosperità (1894-1913). Successivamente, tutti questi fenomeni si sono accentuati: durante la guerra, in virtù dell’intervento statale; dopo la guerra, in seguito alla febbre di speculazione e di crescente concentrazione del capitale.

Così abbiamo due processi di sviluppo. La ricchezza e il reddito nazionale continuano a diminuire, lo sviluppo delle classi, continua, invece, non a regredire, ma a progredire. Aumentano coloro che si proletarizzano, il capitale si viene concentrando in sempre meno mani, le banche continuano a fondersi, le aziende industriali a concentrarsi in trust. Di conseguenza la lotta di classe diventa inevitabilmente più acuta sulla base di un reddito nazionale declinante. Qui sta il nocciolo della questione. Quanto più si restringe la base materiale che sta sotto, tanto più duramente le classi e i gruppi lottano per la distribuzione del reddito nazionale. Non dobbiamo perdere di vista questo elemento neppure per un istante. Se l’Europa è stata rigettata indietro di trent’anni per quanto riguarda la sua ricchezza nazionale, ciò non significa affatto che sia ridiventata più giovane di trent’anni. No, dal punto di vista di classe è diventata di trent’anni più vecchia.

 

I contadini

Nella prima fase della guerra è stato detto e scritto che in tutta l’Europa i contadini stavano approfittando della guerra. È un fatto che lo Stato aveva urgente bisogno di pane e carne per l’esercito. Per questo si pagavano prezzi folli che continuavano a crescere e i contadini riempivano i loro portafogli di cartamoneta. Con questa cartamoneta che continuava a svalutarsi i contadini pagavano i debiti che avevano contratto in moneta stabile. Senza dubbio era per loro un’operazione molto vantaggiosa.

Gli economisti borghesi hanno considerato che la prosperità dell’economia contadina avrebbe potuto assicurare la stabilità del capitalismo nel dopoguerra. Ma hanno fatto un calcolo errato. I contadini hanno estinto le loro ipoteche, ma un’economia contadina non può accontentarsi di pagare i debiti ai banchieri. Deve coltivare il suolo, fertilizzarlo, rinnovare le scorte ed acquistare le sementi, introdurre miglioramenti tecnologici ecc. Questo non poteva essere fatto in nessun modo, o lo era al prezzo di somme enormi. Per di più vi era penuria di manodopera, l’agricoltura cominciava a declinare e i contadini, dopo un boom iniziale per metà fittizio, cominciavano ad andare in rovina. Un tale processo lo si può riscontrare a vari livelli in tutta Europa. Ma si è verificato molto acutamente anche in America. È stato un duro colpo per i farmers americani, australiani, canadesi e sudamericani quando è apparso chiaro che l’Europa in rovina non avrebbe più potuto acquistare il loro grano. Il prezzo del grano è caduto. Tra i farmers regnano il fermento e il malcontento in tutto il mondo. I contadini non sono più uno dei pilastri della legge e dell’ordine. Dinanzi alla classe operaia si delinea la possibilità di attrarre dalla sua parte nella lotta almeno un settore dei contadini (gli strati inferiori), di neutralizzare un altro settore (i contadini medi) e di isolare e paralizzare i vertici (i kulaki, i contadini benestanti).

Il nuovo ceto medio

I riformisti hanno riposto grandi speranze nel cosiddetto ceto medio. Ingegneri, tecnici, dottori, avvocati, contabili, funzionari, impiegati privati e statali ecc., tutti costoro costituiscono uno strato semi-conservatore che si colloca tra il capitale e il lavoro e che, secondo l’opinione dei riformisti, dovrebbe conciliare le due parti, al tempo stesso dirigendo e sostenendo i regimi democratici. Durante la guerra e dopo la guerra questa classe ha sofferto ancor più della classe operaia, il suo livello di vita è peggiorato in misura ancora maggiore del livello di vita della classe operaia. La ragione fondamentale di ciò è il declino del potere di acquisto in termini monetari, la svalutazione della moneta. In tutti i paesi europei ciò ha provocato un vivo malcontento tra gli strati più bassi e anche tra gli strati intermedi dei funzionarie dei tecnici. In Italia, per esempio, gli impiegati statali sono impegnati in un duro sciopero proprio in questo momento. Certo, impiegati statali o impiegati privati, bancari ecc. non sono divenuti una classe proletaria, ma hanno perduto la loro passata mentalità conservatrice. Più che sostenere lo Stato ne scuotono e sconvolgono l’apparato con il loro malcontento e con le loro proteste.

Il malcontento dell’intellighenzia borghese è ulteriormente aggravato dai suoi legami con la piccola e media borghesia commerciale e industriale. Quest’ultima si sente sminuita, privata della parte che le spetterebbe. La borghesia delle grandi concentrazioni continua a nuotare nell’oro, nonostante la rovina nazionale. Si impadronisce di una parte sempre maggiore di un reddito nazionale in declino. La borghesia che non appartiene ai grandi gruppi e il nuovo ceto medio stanno precipitando sia in termini assoluti sia in termini relativi. Per quanto riguarda il proletariato è del tutto probabile che, nonostante il peggioramento del suo tenore di vita, la sua parte in un reddito nazionale declinante sia oggi maggiore di prima della guerra. Il grande capitale cerca di ridurre questa parte degli operai riportandola ai livelli prebellici. Ma gli operai partono non dai dati statistici bensì dalla riduzione del loro livello di vita e cercano di accrescere la loro parte di reddito nazionale.

Così i contadini sono malcontenti per il declino dell’economia; gli intellettuali diventano più poveri e precipitano; la piccola e la media borghesia sono in rovina e insoddisfatte. La lotta di classe si acuisce.

Le relazioni internazionali

Le relazioni internazionali hanno naturalmente un ruolo enorme nella vita del mondo capitalista. Quest’ultimo se ne è reso conto più che mai nel corso della guerra mondiale. E oggi, quando poniamo la questione se sia possibile o impossibile per il capitalismo ristabilire il suo equilibrio mondiale, dobbiamo prendere in considerazione le condizioni internazionali in cui quest’opera di ricostruzione si sta svolgendo. Non è difficile rilevare che le relazioni internazionali sono divenute molto più tese, molto meno compatibili con un’evoluzione “pacifica” di quanto non fossero prima della guerra.

Perché la guerra è scoppiata? Perché le forze produttive si trovavano costrette entro il quadro dei più potenti paesi capitalisti. La spinta interna del capitalismo imperialistico era verso l’abbattimento dei confini statali e l’allargamento a tutto il globo terrestre, verso l’abolizione delle tariffe e di tutte le altre barriere che ostacolavano lo sviluppo delle forze produttive. Qui risiede la base economica dell’imperialismo, qui risiedono le cause fondamentali della guerra. Quali ne sono stati i risultati? L’Europa è ricca di confini e di tariffe più che mai in precedenza. È sorta tutta una galassia di piccoli Stati. Il territorio dell’ex impero austroungarico è attraversato da una dozzina di barriere doganali. L’inglese Keynes ha definito l’Europa un manicomio ed effettivamente dal punto di vista dello sviluppo economico tutto il particolarismo di piccoli Stati con tutte le loro barriere, con tutti i loro sistemi tariffari ecc. rappresenta uno mostruoso anacronismo, un folle trapianto di medioevo nel ventesimo secolo. Se la penisola balcanica si imbarbarisce, l’Europa si sta balcanizzando.

Le relazioni tra la Germania e la Francia escludono come in passato ogni possibilità di un equilibrio europeo. La Francia è costretta a saccheggiare e a violentare la Germania per poter mantenere il proprio equilibrio sociale che non corrisponde all’esaurimento della sua base economica. La Germania non può rimanere e non rimarrà oggetto passivo di questo saccheggio. Attualmente, è vero, è stato raggiunto un accordo. La Germania si è impegnata a pagare ogni anno due miliardi di marchi-oro, oltre al 26% delle sue esportazioni. Questa transazione costituisce una vittoria della politica inglese che vuole ostacolare l’occupazione della Ruhr da parte della Francia. Nel momento attuale la maggior parte del ferro dell’Europa è in mano alla Francia; la maggior parte del carbone è in mano alla Germania. La condizione basilare per la rigenerazione dell’economia europea è la combinazione produttiva tra ferro francese e carbone tedesco, ma una simile combinazione, assolutamente indispensabile per lo sviluppo economico, è un pericolo mortale per il capitalismo inglese. Tutti gli sforzi di Londra sono perciò diretti ad evitare sia un conflitto aperto sia una combinazione pacifica del ferro francese con il carbone tedesco. Ma questo porta a un ulteriore aggravamento dell’antagonismo tra Inghilterra e Francia.

La Francia ha accettato temporaneamente il compromesso, tanto più che il suo apparato produttivo disorganizzato è incapace di digerire anche il carbone che la Germania è ora costretta a fornirle. Ma ciò non significa affatto che la questione della Ruhr sia definitivamente risolta. La prima violazione da parte della Germania dei suoi obblighi per quanto riguarda le riparazioni riproporrà inevitabilmente la questione del destino della Ruhr.

L’aumento dell’influenza della Francia in Europa e in parte nel mondo nel corso dell’ultimo anno non è dovuto a un rafforzamento della Francia stessa, ma all’evidente indebolimento progressivo dell’Inghilterra.

La Gran Bretagna ha sconfitto la Germania. Questa era la posta in gioco fondamentale dell’ultima guerra. Essenzialmente, la guerra non è stata una guerra mondiale, ma una guerra europea, anche se la lotta tra i due più potenti Stati europei — l’Inghilterra e la Germania — è stata risolta con la partecipazione delle forze e delle risorse del mondo intero. L’Inghilterra ha sconfitto la Germania. Ma oggi l’Inghilterra è molto più debole sul mercato mondiale, e in generale nella situazione mondiale, di quanto non fosse prima della guerra. Gli Stati Uniti sono cresciuti a spese dell’Inghilterra molto più di quanto l’Inghilterra sia cresciuta a spese della Germania.

L’America sta superando l’Inghilterra, prima di tutto grazie al carattere più razionale e più progressivo della sua industria. La produttività di un operaio americano è del 150% superiore alla produttività di un operaio inglese. In altri termini, due operai americani producono, grazie a un’industria molto meglio attrezzata, l’equivalente di cinque operai inglesi. Questo semplice fatto, che risulta da ricerche statistiche inglesi, dimostra che l’Inghilterra è condannata a lottare contro l’America ed è sufficiente a spingere l’Inghilterra verso una guerra con l’America sinché la flotta inglese conserva il proprio predominio sugli oceani.

Il carbone americano sta cacciando il carbone inglese dal mondo e dalla stessa Europa. E il commercio mondiale del Inghilterra si basa principalmente sulle esportazioni di carbone. Inoltre, il petrolio è ora di importanza decisiva per l’industria e per la difesa; il petrolio non solo fa andare le automobili, i trattori, i sommergibili, gli aerei, ma è molto superiore al carbone anche per le grandi navi di linea. Circa il 70% del petrolio mondiale è prodotto entro i confini degli Stati Uniti. Di conseguenza, in caso di guerra, tutto questo petrolio sarà in mano a Washington. L’America controlla inoltre il petrolio messicano che corrisponde al 12% della produzione mondiale. È vero, gli americani stanno accusando l’Inghilterra di essersi accaparrata circa il 90% delle fonti di petrolio al di fuori dei confini degli Stati Uniti e di impedire agli americani di accedervi, mentre i campi petroliferi americani rischiano di esaurirsi nel corso dei prossimi anni. Ma tutti questi calcoli geologici e statistici sono molto dubbi e arbitrari. Sono fatti per giustificare le pretese americane sul petrolio del Messico, della Mesopotamia ecc. Ma, se il pericolo di esaurimento dei campi petroliferi americani si rivelasse reale, sarebbe una ragione di più per accelerare una guerra tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra.

L’indebitamento dell’Europa nei confronti dell’America è una questione delicata. I debiti ammontano complessivamente a 18 miliardi. Gli Stati Uniti hanno sempre la possibilità di creare le più gravi difficoltà sul mercato monetario inglese esigendo il pagamento dei loro crediti. Come è noto, l’Inghilterra è arrivata a proporre all’America di annullare i debiti inglesi promettendo in cambio di annullare i debiti europei nei confronti dell’Inghilterra. Visto che l’Inghilterra deve all’America molto di più di quanto i paesi continentali dell’Intesa debbano all’Inghilterra stessa, una simile operazione le sarebbe stata vantaggiosa. L’America ha rifiutato. I capitalisti yankee non hanno dimostrato nessuna inclinazione a finanziare con i loro fondi i preparativi inglesi di una guerra contro gli Stati Uniti.

L’Alleanza tra l’Inghilterra e il Giappone, che sta combattendo contro l’America per l’egemonia sul continente asiatico, ha pure aggravato al massimo le relazioni tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra.

Ma la questione più spinosa, per tutte le ragioni che abbiamo visto, è la questione della marina. Il governo Wilson, scontratosi con l’opposizione dell’Inghilterra negli affari mondiali, aveva lanciato un gigantesco programma di costruzioni navali. Il governo Harding ha ripreso questo programma dal predecessore e lo sta realizzando a ritmo accelerato. Nel 1924 la marina degli Stati Uniti non solo sarà molto più potente di quella dell’Inghilterra, ma anche superiore alle flotte dell’Inghilterra e del Giappone messe assieme, se non in tonnellaggio, in potenziale di fuoco.

Che cosa significa questo dal punto di vista inglese? L’Inghilterra deve accettare la sfida e cercare di distruggere la potenza militare, navale ed economica degli Stati Uniti sfruttando la sua attuale superiorità, o rassegnarsi a diventare una potenza di secondo o di terz’ordine, cedendo una volta per tutte il dominio degli oceani e dei mari agli Stati Uniti. Così l’Ultimo macello dei popoli, che ha “risolto” a suo modo la questione europea, ha posto per la stessa ragione in tutta la sua portata una questione mondiale e cioè: sarà l’Inghilterra o saranno gli Stati Uniti a dominare il mondo? I preparativi per una nuova guerra stanno procedendo a gran velocità. Le spese per l’esercito e per la marina sono aumentate straordinariamente rispetto al periodo bellico. Il bilancio militare inglese è aumentato di tre volte, quello americano di tre volte e mezzo.

Le contraddizioni tra l’Inghilterra e l’America stanno determinando un processo di proliferazione automatica, di automatico, sempre maggiore avvicinamento al conflitto sanguinoso di domani. Qui abbiamo a che fare effettivamente con un automatismo.

Il primo gennaio 1914, cioè nel momento in cui la “pace armata” era sottoposta alla massima tensione, c’erano nel mondo circa sette milioni di soldati armati di baionette. All’inizio dell’anno in corso, ce n’erano circa diciotto milioni. Il grosso di questi eserciti grava, naturalmente, sull’esausta Europa.

Dunque, il militarismo si è accentuato. Tutto ciò rappresenta uno dei maggiori ostacoli sulla via del progresso economico. Una delle cause fondamentali della guerra è stato il fardello intollerabile della pace armata sull’economia europea. Una orribile fine era preferibile a un orrore senza fine. Ma in pratica non c’è stata affatto una fine e l’orrore dopo la fine è diventato ancora più orribile di quanto non fosse prima della fine orribile, cioè prima dell’ultima guerra.

La grave crisi determinata dal contrarsi del mercato mondiale agisce nel senso di acuire al massimo la lotta tra i paesi capitalisti, eliminando dalle relazioni internazionali qualsiasi stabilità. Non solo l’Europa, ma il mondo intero stanno diventando un manicomio! In queste condizioni è assai difficile parlare di ristabilimento dell’equilibrio capitalistico.

La classe operaia dopo la guerra

Dal punto di vista della rivoluzione, in linea generale e complessivamente, tutto questo determina una situazione molto favorevole per la classe operaia e al tempo stesso estremamente complessa. Dopo tutto, quello che ci sta di fronte non è quell’assalto caotico e spontaneo, la cui prima fase avevamo visto in Europa nel 1918-19. Ci era parso (e avevamo qualche giustificazione storica) che in un periodo in cui la borghesia era disorganizzata, questo assalto si sarebbe sviluppato inondate sempre maggiori, che nel corso del processo gli strati decisivi della classe operaia avrebbero acquisito più chiara coscienza e che in questa prospettiva il proletariato avrebbe conquistato il potere statale entro un anno o due. Questa possibilità storica esisteva. Ma non si è concretizzata. La storia grazie alla cattiva o buona volontà della borghesia, grazie alla sua astuzia, alla sua esperienza, alla sua organizzazione e al suo istinto del potere — ha assicurato alla borghesia stessa un momento di respiro piuttosto prolungato. Nessun miracolo è stato fatto. Quello che era stato distrutto, bruciato, ridotto in rovina, non è tornato in vita; ma la borghesia si è dimostrata capace di orientarsi in un ambiente impoverito, ha ricostruito il suo apparato statale e ha saputo sfruttare le debolezze della classe operaia. Dal punto di vista delle prospettive rivoluzionarie, la situazione è divenuta più complessa, ma resta ancora favorevole. Forse oggi possiamo dire con maggiore sicurezza che la situazione nel suo insieme è rivoluzionaria. Ma la rivoluzione non è così docile, così addomesticata da farsi condurre al guinzaglio, come una volta avevamo immaginato. La rivoluzione conosce le sue fluttuazioni, le sue crisi e le sue congiunture favorevoli.

Immediatamente dopo la guerra la borghesia era in uno stato di massima confusione e di massimo allarme; gli operai, specie quelli che ritornavano dall’esercito, avevano un atteggiamento deciso. Ma la classe operaia nel suo complesso era disorientata, incerta circa le forme che la vita avrebbe assunto dopo la guerra, esitante su che cosa chiedere e come chiederlo, dubbiosa sulla via da imboccare… Il movimento, come abbiamo visto all’inizio di questa relazione, assumeva un carattere tumultuoso, ma la classe operaia non aveva una direzione ferma. D’altro lato, la borghesia era disposta a fare grandi concessioni. Manteneva in piedi il regime finanziario ed economico del tempo di guerra (prestiti, emissione di cartamoneta, monopolio del grano, sussidi alle masse di operai disoccupati ecc.). In altri termini, la classe dominante continuava a disorganizzare le basi economiche e a sconvolgere sempre di più l’equilibrio produttivo e finanziario per mantenere l’equilibrio tra le classi nella fase più critica. Sinora è riuscita più o meno a realizzare questo scopo.

Attualmente la borghesia cerca di risolvere il problema dell’equilibrio economico. Non si tratta più di fare concessioni temporanee alla classe operaia o di gettarle delle briciole, bensì di prendere misure di natura fondamentale. L’apparato produttivo disorganizzato deve essere restaurato. La moneta deve essere stabilizzata perché il mercato mondiale è impensabile senza un’unità di misura universale ed egualmente impensabile senza un’unità di misura universale è un’industria nazionale bene «equilibrata», legata al mercato mondiale.

Ricostruire l’apparato produttivo significa limitare il lavoro consacrato alla produzione di beni di consumo e aumentare il lavoro consacrato alla produzione di beni di produzione. Significa accrescere l’accumulazione, cioè intensificare lo sfruttamento e ridurre i salari.

Per ristabilizzare la moneta è necessario, non solo rifiutare il pagamento di debiti insopportabili, ma anche migliorare la bilancia commerciale, cioè importare meno ed esportare dipiù, cioè di nuovo ridurre i salari e intensificare lo sfruttamento.

Ogni passo in avanti nella ricostruzione dell’economia dipende da un incremento delle norme di sfruttamento ed è quindi destinato inevitabilmente a provocare una resistenza da parte della classe operaia. In altri termini, ogni sforzo da parte della borghesia per ristabilire l’equilibrio nella produzione o nella distribuzione o nelle finanze statali finirà con lo sconvolgere l’instabile equilibrio tra le classi. Mentre nei due primi anni del dopoguerra la politica economica della borghesia è stata dettata principalmente dalla preoccupazione di tener buono il proletariato, anche a costo di un’ulteriore rovina economica, attualmente, in un momento di crisi senza precedenti, la borghesia ha cominciato ad agire sulla situazione economica aumentando di continuo la pressione sulla classe operaia.

L’Inghilterra ci fornisce l’illustrazione più eloquente di come una simile pressione provochi resistenza. E la resistenza della classe operaia agisce nel senso di sconvolgere la stabilità economica e di ridurre a parole vuote tutti i discorsi sul ristabilimento dell’equilibrio.

La lotta del proletariato per il potere ha conosciuto indubbiamente una dilazione. Non abbiamo registrato un attacco di annientamento, non abbiamo assistito al succedersi di varie ondate, una dopo l’altra, sino al rovesciamento del sistema capitalista grazie all’ondata finale.

Nel corso della lotta abbiamo conosciuto alti e bassi, fasi offensive e fasi difensive. Le nostre operazioni di classe hanno mancato di abilità. La ragione è duplice: in primo luogo, la debolezza dei partiti comunisti, che si sono formati solo dopo la guerra, che mancavano dell’esperienza necessaria e del necessario apparato, che non avevano sufficiente influenza e, quello che è ancora più importante, non hanno prestato sufficiente attenzione alle masse operaie. Su questo piano, comunque, abbiamo fatto un grande passo avanti negli ultimi anni. I partiti comunisti sono divenuti più forti e si sono sviluppati. La seconda ragione del carattere prolungato e diseguale della lotta consiste nella eterogeneità della composizione della classe operaia stessa, quale è emersa dalla guerra.

Le forze che meno sono state sconvolte dalla guerra, sono l’aristocrazia operaia, la burocrazia sindacale e di partito e i parlamentari. I capitalisti in tutti i paesi hanno riservato la massima attenzione e sollecitudine a questa sovrastruttura, comprendendo perfettamente che senza di essa non sarebbe stato possibile mantenere sottomessa la classe operaia durante gli anni del bagno di sangue. L’aristocrazia operaia ha avuto ogni sorta di privilegi ed è emersa dalla guerra con la stessa mentalità di bovino conservatorismo con cui vi era entrata, ma un po’ più screditata e più intimamente legata allo stato capitalista. Gli operai specializzati delle generazioni più vecchie profondamente legati alle loro organizzazioni sindacali e di partito, specialmente in Germania, sono rimasti in larga misura, sino ad oggi, il principale sostegno dell’aristocrazia operaia, anche se la loro inerzia non è completa. Gli operai che sono passati attraverso la scuola della guerra — e sono la parte essenziale della classe operaia – hanno introdotto nel proletariato una nuova psicologia, nuove abitudini e nuovi atteggiamenti per quanto riguarda i problemi della lotta, problemi di vita o di morte. Sono disposti a risolvere i problemi con la forza, ma hanno appreso a fondo dalla guerra che un uso corretto della forza implica una tattica e una strategia corretta. Scenderanno in lotta ma quello che vogliono è una direzione decisa, una seria preparazione. Molti settori di operai arretrati, tra cui vanno incluse le operaie il cui numero è enormemente cresciuto durante la guerra, in seguito a un brusco mutamento nella loro coscienza sono ora diventati i più combattivi, anche se non sempre i più coscienti. Infine, all’estrema sinistra vediamo i giovani operai che sono cresciuti durante la guerra nel fragore delle battaglie e del parossismo rivoluzionario e che sono destinati ad avere un ruolo importantissimo nelle battaglie future.

Tutte queste masse proletarie straordinariamente cresciute— i vecchi operai e le nuove reclute, gli operai rimasti nelle retrovie e gli operai che hanno passato vari anni al fuoco — tutta questa massa di molti milioni di teste sta passando attraverso la scuola della rivoluzione in modi diversi e in tempi diversi.

Questo è risaltato ancora una volta in occasione degli avvenimenti di marzo in Germania. Gli operai della Germania centrale, che prima della guerra erano il settore più arretrato, volevano precipitarsi nella lotta senza riflettere su quali fossero le possibilità di successo, mentre gli operai di Berlino e quelli della Sassonia avevano accumulato esperienze nel corso delle battaglie rivoluzionarie ed erano più prudenti. È incontestabile che il corso generale delle lotte del dopoguerra e in particolare l’attuale offensiva del capitalismo stanno unificando tutti gli strati della classe operaia, con la sola eccezione dell’aristocrazia privilegiata. I partiti comunisti hanno sempre maggiori possibilità di stabilire un effettivo fronte unico operaio.

Prospettive e compiti immediati

La rivoluzione ha tre fonti, legate l’una all’altra. La prima fonte della rivoluzione è il declino dell’Europa. L’equilibrio di classe dell’Europa è stato mantenuto prima di tutto in virtù della posizione predominante dell’Inghilterra sul mercato mondiale. Oggi la posizione predominante dell’Europa è finita e irreversibilmente. Di qui l’inevitabilità di un grandioso parossismo rivoluzionario che può concludersi o con la vittoria del proletariato o con la completa rovina dell’Europa.

La seconda fonte della lotta rivoluzionaria è costituita dagli acuti spasmi di tutto l’organismo economico degli Stati Uniti un boom senza precedenti, stimolato dalla guerra in Europa, e quindi una crudele crisi, determinata dalle conseguenze della guerra. Il movimento rivoluzionario del proletariato americano può, in una simile situazione, assumere lo stesso ritmo — senza precedenti nella storia — assunto negli ultimi anni dallo sviluppo economico degli Stati Uniti.

La terza fonte della lotta rivoluzionaria è l’industrializzazione delle colonie e soprattutto dell’India. La base delle lotte di liberazione delle colonie è costituita dalle masse contadine. Ma, nella loro lotta, i contadini hanno bisogno di una direzione. Di solito questa direzione è fornita dalla borghesia indigena. Ma la lotta di quest’ultima contro la dominazione imperialistica straniera non può essere conseguente né efficace in quanto la borghesia indigena è strettamente legata al capitale straniero e rappresenta in larga misura un’agenzia del capitale straniero. Solo l’ascesa di un proletariato indigeno sufficientemente forte dal punto di vista numerico e capace di lottare assicurerà un asse reale alla rivoluzione. Rispetto alla popolazione complessivamente considerata il proletariato indiano è, certo, numericamente ridotto, ma coloro che hanno capito il significato dello sviluppo della rivoluzione in Russia non possono non tener conto, del fatto che il ruolo rivoluzionario del proletariato nei paesi orientali va molto al di là della sua forza numerica. Ciò vale non solo per paesi coloniali veri e propri, come l’India, o per paesi semicoloniali come la Cina, ma anche per il Giappone, dove l’oppressione capitalista si combina con un assolutismo burocratico di casta feudale.

Così, sia la situazione internazionale sia le prospettive future hanno caratteristiche profondamente rivoluzionarie.

Quando, dopo la guerra, la borghesia ha gettato delle briciole alla classe operaia, i conciliatori hanno trasformato rispettosamente queste briciole in riforme (otto ore giornaliere, indennità di disoccupazione ecc.) e hanno scoperto — tra le rovine — l’era del riformismo. Oggi la borghesia è passata alla controffensiva su tutta la linea e anche il Times di Londra— un quotidiano supercapitalista — allude allarmato ai capitalisti “bolscevichi”. L’attuale periodo è un periodo di contro-riformismo. Il pacifista inglese Norman Angell ha definito la guerra un calcolo sbagliato. L’esperienza dell’ultima guerra ha dimostrato effettivamente che, da un punto di vista contabile, la guerra è stata un calcolo sbagliato. Dopo la guerra si sarebbe potuto credere che ci sarebbe stato il trionfo del pacifismo e che la Lega delle Nazioni ne sarebbe stata la manifestazione. Oggi vediamo che un calcolo sbagliato era il calcolo del pacifismo. Mai in precedenza l’umanità capitalistica si è impegnata in preparativi così frenetici per una nuova guerra. Le illusioni nella democrazia sono cadute anche agli occhi degli strati più conservatori della classe operaia. Non molto tempo fa la democrazia veniva contrapposta solo alla dittatura del proletariato con il suo terrore, con la Ceka ecc. Oggi la democrazia è contrapposta sempre di più a qualsiasi forma di lotta di classe. Lloyd George ha ammonito i minatori del carbone di investire il parlamento delle loro rivendicazioni e ha bollato il loro sciopero come un atto di violenza nei confronti della volontà della nazione.

Sotto il regime degli Hohenzollern gli operai tedeschi avevano ottenuto una certa stabilità e un quadro ben definito. Gli operai sapevano bene che cosa potessero fare e che cosa fosse proibito. Nella repubblica di Ebert un operaio in sciopero corre sempre il rischio di farsi tagliare la gola nelle piazze o in un posto di polizia, senza troppo rumore. La “democrazia” di Ebert non offre più di quanto offrano gli alti salari quando la moneta è completamente svalutata.

Il compito dei partiti comunisti è di far fronte alla situazione nel suo complesso e di intervenire attivamente nella lotta del proletariato per conquistare la maggioranza della classe operaia sulla base di questa lotta. Se in questo o in quel paese la situazione diviene estremamente acuta, dobbiamo porre nettamente il problema principale e impegnare battaglia qualunque sia la condizione in cui gli avvenimenti ci sorprendano.

Tuttavia, se la marcia degli avvenimenti procede in modo più equilibrato e più lento, dobbiamo sfruttare tutte le possibilità per conquistare la maggioranza della classe operaia prima degli avvenimenti decisivi.

Tuttora non abbiamo la maggioranza della classe operaia nel mondo. Ma è con noi un settore della classe operaia molto più vasto di quanto fosse un anno o due fa. Dopo aver analizzato effettivamente la situazione esistente — e questo è uno dei compiti più importanti del nostro congresso —, dopo aver esaminato la situazione in ciascun paese, dobbiamo dirci: la lotta sarà forse lunga e non avanzeremo con il ritmo febbrile che avremmo voluto. La lotta sarà molto dura ed esigerà molti sacrifici. Siamo diventati più forti accumulando esperienze. Dobbiamo sapere come manovrare nella lotta. Dobbiamo sapere come delineare la nostra tattica non come una linea geometrica ideale, ma tenendo conto delle sinuosità di una situazione mutevole in cui la linea rivoluzionaria deve affermarsi. Dobbiamo comprendere come manovra reattivamente nel quadro della decomposizione della società capitalistica; dobbiamo essere capaci di mobilitare le forze degli operai per la rivoluzione sociale. Credo che sia i nostri successi sia i nostri insuccessi abbiano dimostrato che la differenza tra noi e i socialdemocratici indipendenti non consiste nel fatto che noi abbiamo detto che si doveva fare la rivoluzione nel 1919 mentre loro dicevano che sarebbe arrivata molto più tardi. No, la differenza non è qui. La differenza risiede nel fatto che la socialdemocrazia e i socialdemocratici indipendenti appoggiano la borghesia contro la rivoluzione in ogni circostanza. Noi, invece, eravamo e siamo pronti a sfruttare ogni situazione, qualunque mutamento che possa sopraggiungere, per l’offensiva rivoluzionaria e per la conquista del potere politico (lunghi applausi entusiastici).

Nelle attuali lotte economiche difensive che si sviluppano sulla base della crisi, i comunisti devono essere presenti attivamente in tutti i sindacati, in tutti gli scioperi e in tutte le dimostrazioni e in qualsiasi altro movimento, mantenendo sempre intatti nella loro attività i loro legami interni e apparendo sempre in prima fila come l’ala più decisa e più disciplinata della classe operaia. A seconda dell’andamento della crisi e dei mutamenti nella situazione politica, le lotte economiche difensive potranno estendersi comprendendo sempre nuovi strati di classe operaia, di popolazione e dell’esercito dei disoccupati; e a un certo momento potranno trasformarsi in una lotta rivoluzionaria offensiva e potranno essere coronate dal successo. I nostri sforzi devono essere orientati precisamente in questa direzione.

Ma se, invece della crisi, la congiuntura economica mondiale dovesse registrare un miglioramento? Allora che cosa dovremmo dire? Ciò significherebbe forse che la lotta rivoluzionaria è bloccata per un periodo indefinito?

Da tutta la mia relazione deriva, compagni, che un nuovo rilancio, che non potrà essere né prolungato né profondo, non potrà in nessun modo bloccare lo sviluppo rivoluzionario. Il boom industriale del 1849-51 ha dato un colpo alla rivoluzione solo perché la rivoluzione del 1848 aveva allargato il quadro dello sviluppo capitalistico. Gli avvenimenti del 1914-21 hanno, invece, agito nel senso non di allargare, ma di contrarre al massimo il quadro del mercato mondiale e quindi la curva dello sviluppo capitalistico nel prossimo periodo comincerà a discendere molto prima. In queste condizioni un boom temporaneo può soltanto accrescere la fiducia degli operai in se stessi e unificare le loro fila non solo nelle fabbriche, ma anche nelle lotte e può fornire un impulso non solo alla loro controffensiva economica, ma anche alla loro lotta rivoluzionaria per il potere.

La situazione è sempre più favorevole per noi, ma sta contemporaneamente diventando sempre più complessa. La vittoria non verrà automaticamente. Il terreno è minato sotto i piedi dell’avversario, ma l’avversario resta forte, riesce a cogliere acutamente i nostri punti di debolezza, opera svolte e manovre sulla base sempre di un freddo calcolo. Noi — l’intera Internazionale comunista — abbiamo molto da imparare dalle esperienze delle battaglie degli ultimi tre anni e in particolare dalle esperienze dei nostri errori e dei nostri insuccessi. La guerra civile esige manovre politiche, tattiche e strategiche; esige la presa in considerazione delle particolarità di ogni situazione data, dei punti di forza e dei punti di debolezza dell’avversario; esige una combinazione di entusiasmo e di freddo calcolo; esige non solo la capacità di lanciare un’offensiva, ma anche la comprensione della necessità di battere temporaneamente in ritirata per salvaguardare le proprie forze, per poter colpire successivamente con maggiore sicurezza.

Ripeto, la situazione mondiale e le prospettive future restano profondamente rivoluzionarie. Ciò costituisce la premessa necessaria della vittoria. Ma possiamo essere pienamente garantiti solo dalla nostra capacità tattica e dalla nostra forza organizzativa. Portare l’Internazionale comunista a un livello più alto, renderla tatticamente più esperta, questo è il compito fondamentale del III congresso dell’Internazionale comunista.

Note 

  1. L’inevitabilità della bancarotta statale della Germania è ammessa anche da un economista conservatore come Calwer che nel suo interessante opuscolo, a proposito della bancarotta dello Stato, giunge alla seguente conclusione:
  2. “Il risultato finale, gravido di terribili conseguenze per la politica monetaria e fiscale, si produrrà innegabilmente in forma violenta nella misura in cui è assolutamente inconcepibile un ritorno graduale alle condizioni normali del mercato monetario e delle finanze statali nell’attuale situazione economica del paese. Lo sbocco violento di tutto il processo è, in ultima analisi, né più né meno la bancarotta dello Stato che alla fine farà apparire in tutta chiarezza la lunga insolvibilità dello Stato stesso.”

Attualmente vengono pubblicati in Germania moltissimi libri che trattano della bancarotta dello Stato dal punto di vista della filosofia, della morale, della giurisprudenza ecc. Sia morale o immorale, questi signori saranno costretti a dichiarare la bancarotta dello Stato (n.d.a.)

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